#26W26M /3: la maratona

Quando ho provato a scrivere della trasferta nella Grande Mela, ho scoperto ben presto che avrei avuto bisogno di dividere il racconto a puntate.
Ecco la terza di quattro…

“Ecco qua, finalmente ci siamo” pensavo tra me mentre, mescolato agli altri concorrenti della seconda wave entravo nel corral blue sezione F.

Fa paura quanto bene siano organizzati.
D’altronde mettere su strada oltre 50mila persone non è compito da poco.

Eravamo partiti dall’albergo alle 5:45, il tragitto ci aveva impegnato per oltre un’ora durante la quale mi consolavo dicendo “meglio stare un’ora sul pullman che al freddo in strada”.
Poi i controlli di sicurezza, attraverso il metal detector; la divisione dagli amici (ognuno verso la sua area); la curiosità delle mille offerte pre-gara, dalle decine di bagni chimici ai donut, dalla pet therapy al thé caldo.
Dagli altoparlanti gli speaker continuavano a scandire gli eventi, invitando i concorrenti a procedere verso la partenza.
Avevo lasciato la sacca con le mie cose, avevo salutato gli amici, e adesso – da solo con i miei pensieri – attendevo di salire il ponte di Verrazzano.

L’aria era gravida di umidità, qualche goccia e soprattutto il vento freddo, mi avevano fatto optare per tenere addosso la vecchia tuta.
Procedevamo incolonnati, ed intanto spiavo i volti degli altri, ne ascoltavo le conversazioni.
“E’ la mia prima NewYork” “Beato te, sarai eccitatissimo”
Dagli altoparlanti si spandono le note di “God bless America” e poi l’inconfondibile voce di Frank Sinatra riempie l’aria di “New York, New York“.
La gente freme, canta, aspetta. I sorrisi sono tanti, ma hanno una fissità che tradisce l’emozione.

E finalmente, liberatorio, il colpo di cannone.

La fiumana umana invade il ponte. Ho la fortuna di correre nella parte superiore, da dove posso osservare la skyline che si confonde nella nebbia.
Mi sforzo di andare piano, di non farmi trascinare.
Gli altri, intorno a me, sembrano impazziti.

Una ragazza corre con un’enorme bandiera americana per la gioia dei fotografi ufficiali e delle decine di runner che si fermano per immortalare il momento con lo smart phone.
Vola veloce e bellissima, con la tela a stelle e strisce che la ammanta. La rivedrò al 35esimo chilometro, ancora di corsa, ancora al centro dell’attenzione.

Dopo il ponte, riceviamo il primo vero abbraccio della folla.
Gridano entusiasti, adulti e bambini, uomini e donne, di ogni colore.
Il tifo resterà una costante (a tratti quasi opprimente) per tutte le 26 miglia.

Colorato e festante.
Ti strappa un sorriso con cartelli buffi (“If Trump can run this country, you can run this marathon”, oppure l’inquietante “Free your nips” corredato di disegno di capezzoli insanguinati che propone di correre senza cerotti o l’immancabile “Toenails are for pussies“); ti sostiene con spicchi d’arancio, caramelle, persino fogli di carta Scottex; ti impedisce di fermarti, nelle ultime miglia gridano come ossessi “Push man, push. Now!”.

Cinque quartieri attraversati, cinque diverse tipologie di pubblico e tifo.
Dal silenzio degli ebrei ortodossi che quasi non ti guardano, alla caciara di Queens; dall’ululato costante della First Avenue all’affetto strabordante di Central Park.
Tante diversità, architettoniche, paesaggistiche, umane. Un unico obbiettivo: tu.

Non il runner generico, ma proprio tu.
Tu che in quel momento stai passando e magari mediti di camminare.
Tu, con il quale sono riusciti a creare un contatto occhio-occhio, e adesso vogliono trasmetterti la loro energia positiva.
Tu, che squadrano alla ricerca di un nome o di una nazionalità da urlare per incitarti.

Attorno al 15esimo miglio c’è il ristoro che precede il Quensoboro, cioè il ponte per antonomasia (qui lo chiamano semplicemente The Bridge).
I volontari urlano “Fuel for the Bridge, c’mon guys” e ti propongono acqua e sali.
E’ l’ultimo contatto con la gente oltre le transenne.
Per i successivi 1500 metri correrai nel silenzio ritmato dai passi degli altri maratoneti (o forse sarebbe giusto dire maratonandi!).
Fino alla discesa liberatoria.

Tutti dicono che la gara inizia da lì.
Io non ci credevo, ma è vero.
La First, eterna, con i suoi leggeri saliscendi cosicché apprezzi i quasi cinque chilometri ininterrotti di serpentone colorato.
Il Bronx e le sue band rumorosissime che ti lanciano finalmente verso il rientro a Manhattan.

almost a new york
Con i compagni di squadra, foto di rito davanti al laghetto di Central Park durante una sgambata mattutina

Central Park è salita.
Mi avevano detto che erano saliscendi, ma la verità è che è tutta un’unica erta.
Sai che stai arrivando, ma soffri.
Il conteggio in miglia che fino a quel momento ti ha aiutato (26 sono meno di 42) ti si rivolta contro e capisci che un miglio è molto (troppo) più lungo di un chilometro.
Faccio i conteggi a mente, ma arrotondo sempre per difetto e i cartelli chilometrici (30esimo, 35simo, 40esimo) sono sempre un po’ più in là di quanto mi aspettassi.

Finalmente riconosco l’ultima curva, quella che ho percorso ogni giorno nelle sgambate mattutine in Central Park.
Il cartello dice 800 metri che è un’eternità. Molto più di mezzo miglio (!)
Lì riconosco Alessandro, che era partito con il mio stesso obbiettivo cronometrico ma nella wave successiva, e che adesso mi sorpassa.
Mentalmente gli faccio i miei complimenti e un po’ lo mando a quel paese. Decido di allungare per stare con lui fino al traguardo ma è già avanti e non lo raggiungerò fino alla finish line.

Tutto il resto è un mix confuso.
Sorrisi increduli, volti tirati per la fatica o il dolore, freddo che ti penetra attraverso il telo termico mentre sei in coda verso la tua sacca.
Sto con Alessandro fino a quando lui ritira la sacca e procede verso l’albergo.
Io ho un pettorale più alto e devo continuare nel parco.

Tornando verso l’hotel scelgo un percorso diverso, sulla Columbus Avenue, lontano dalla massa dei corridori.
La gente mi guarda e mi sorride, io ricambio solo il sorriso degli altri maratoneti, quasi fossimo membri di un club esclusivo di 50mila membri.
Rifiuto i passaggi sui ciclotaxi e procedo verso l’Empire, verso la doccia calda, verso la birra gelata.

Ippolito mi attende nella hall.
Mi abbraccia e si complimenta.
Sa tutto, il mio tempo e quello degli altri.
E’ bello non dover spiegare la delusione di un crono troppo alto e di poter solo raccontare le belle emozioni che ti sono rimaste dentro.
A lui l’onere, dopo un mese di digiuno, di offrirmi la prima birra: il vero suggello, insieme alla medaglia, della mia New York City Marathon.

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