Voci che sono la mia

Una breve recensione all’ultimo libro di Matteo Caccia, un testo che svela attraverso le storie come lavori il celebre conduttore radiofonico

Ho l’abitudine di comperare i libri pubblicati dai miei amici.
Lo faccio a prescindere dal loro contenuto, un po’ perché mi fa piacere restare aggiornato su quello che combinano, un po’ perché scrivere un libro è una fatica ben maggiore che acquistarlo e leggerlo, e quindi mi sembra giusto tributare loro almeno questo semplice omaggio.
Poi ci sono quei casi, e questo è uno di quelli, in cui mi viene voglia di parlarne.

Per analizzare “Voci che sono la mia” è necessario spendere due parole su chi l’ha scritto.

Matteo Caccia è un’autore radiofonico ed un attore.
Ha scritto e condotto programmi come Amnèsia e Pascal (su Radio2) o Vendo Tutto e Linee d’Ombra (su Radio24), è autore di podcast che hanno avuto un grande successo come La piena o Oltre il confine, è l’ideatore del format Don’t tell my mum che allieta da anni le serate del Pinch, un locale di Milano. Insomma ha costruito una carriera di successo sulle storie e sulla voce.

L’ho conosciuto grazie alla corsa, nel 2017 siamo andati assieme a New York per correre la maratona, ma lo avevo apprezzato già prima, seguendo i suoi programmi radiofonici. Matteo è anche un insegnante della celebre scuola Holden di Torino. E quest’ultima informazione è preziosa per capire meglio il libro di cui vi voglio parlare oggi.

voci che non sono la mia

Mentre mi apprestavo a scrivere queste note mi sono chiesto come descriverlo: non è un romanzo, non è un saggio, non è una raccolta di storie vere.
Forse la cosa a cui si avvicina di più è l’autobiografia di un narratore umile, di un uomo che si è messo al servizio delle storie per dar loro una voce.

Attraverso una ventina di racconti, Matteo Caccia ci introduce nel suo mondo e nella sua professione (mi veniva quasi da scrivere la sua missione).
Da bravo studioso del suo campo, analizza cosa sia una storia, come si crei quel vincolo speciale tra chi racconta e chi ascolta, come ogni storia ci cambi la vita, sia quando ne siamo protagonisti sia quando, semplicemente, la ascoltiamo.

Matteo è uno scrittore ed un attore.
Se non fosse entrambe le cose, programmi come quelli che lo hanno reso celebre non esisterebbero. Impresta la sua voce alle storie degli altri (come fanno i bravi attori) ma è anche in grado di creare l’humus narrativo per lasciare ai protagonisti lo spazio per emergere.
Sembra tutto facile, ma c’è fatica e studio dietro ogni racconto. E questo testo alza un po’ il velo sull’oscuro lavoro svolto prima di andare in onda.

A mio giudizio, è un libro che non dovrebbe mancare nelle librerie di chiunque desideri scrivere e di chi è appassionato di linguaggi e scrittura. Ma è anche un appassionante spaccato di vita reale, una collezione di umanità varia, raccontata con garbo e un immenso rispetto.

In oltre 20 anni di carriera radiofonica, Matteo Caccia ha ascoltato migliaia di persone raccontare i loro ricordi, le loro storie, e quelle più interessanti sono finite in una cartella del computer di Matteo, in attesa di essere raccontate.
Il titolo, fulminante nella sua semplicità, descrive bene il libro.
Storie che sono la mia è un modo per Matteo Caccia di raccontarsi attraverso le pieghe delle storie altrui.

Voci che sono la mia
Come le storie ci cambiano la vita
di Matteo Caccia
Edito da Il Saggiatore
191 pp / 18,00 euro

Ascolta “Voci che sono la mia” su Spreaker.

Cui prodest?

Una riflessione su come l’essere pessimisti può avvelenare la vita e, a conclusione, una recensione del libro “Il dilemma dello sconosciuto”

Nell’eterna contrapposizione tra pessimisti e ottimisti (ed io mi annovero senza dubbio in questo secondo gruppo) i pessimisti considerano come argomento a loro favore, come ultima parola del discorso, il seguente ragionamento: “il pessimista prevede il peggio, se questo si avvera è contento di aver avuto ragione; se invece non si avvera, si consola perché le cose sono andate meglio del previsto”

Sembra una posizione sensata e logica, che ne dite?

Beh, io dico che è profondamente sbagliata.

In primo luogo, prevedere il peggio innesca un meccanismo pericoloso che in sociologia viene definito “profezia autoavverante” (qui il link a Wikipedia). Per fare un esempio concreto, se sono convinto di non passare un test arriverò davanti all’esaminatore balbettante e poco sicuro di me stesso e il test non lo passerò non perché non sono preparato ma per la paura di non passarlo. Oppure, per quelli della mia età, se mi misuro la pressione questa si alzerà (o abbasserà a seconda della patologia che temo di avere) solo per il fatto che la sto misurando.

Ma c’è un secondo e più importante motivo per cui è sbagliato l’atteggiamento descritto prima. Se affronto la vita con un atteggiamento pessimista, negativo, non sarò aperto a cogliere le cose buone che avvengono, persino in uno sviluppo sfavorevole.

Io preferisco aspettarmi il meglio dalla vita.
E mentre attendo che il meglio succeda, vivrò sereno e non preoccupato. Se poi non dovesse accadere, poco male, almeno non avrò sofferto prima del tempo (il concetto è ben riassunto nel proverbio: “È inutile fasciarsi la testa prima di essersela rotta”).

cui prodest

Ma questo tipo di negatività rovina la vita in moltissime altre situazioni.

Pensate alle persone sospettose. Ogni loro rapporto con gli altri è filtrato da un velo di dubbio. Perché sta facendo questo? Che benefici pensa di ottenere? Mi ha detto che gli piace una cosa che ho fatto, dirà il vero o mi starà prendendo in giro?

Oppure i paranoici, che vedono un disegno malevolo in ogni cosa che gli capita. È morto il mio gatto, il veterinario ce l’aveva con me e non lo ha curato con attenzione. Ho trovato la macchina con una strisciata nel sovraffollato parcheggio del supermercato, chi mi ha seguito per farmi questo dispetto?

O anche i dubbiosi. Sono indeciso se andare al mare o in montagna, magari farà freddo in spiaggia, magari pioverà all’alpeggio… ed intanto resto a casa. Sono incerto se cambiare lavoro o meno, ed intanto vivo insoddisfatto del lavoro che faccio e invidioso dei colleghi il cui posto mi è stato proposto.

Personalmente ho una formuletta che mi aiuta in questi casi. È in latino e viene dai miei studi di giurisprudenza: Cui prodest? A chi conviene?

Nei gialli serve a comprendere chi beneficia di un delitto per indirizzare l’indagine, ma nel mio caso la uso solo per contenere il naturale effetto negativo degli atteggiamenti di cui ho parlato sopra.

Ti conviene davvero essere pessimista? Prepararsi al peggio e vivere nel timore di quello che sta per accadere ti conviene?

Che vantaggio verrebbe al tuo interlocutore nel darti un giudizio diverso da quello che pensa davvero?

Perché qualcuno dovrebbe ammazzare il tuo gatto o strisciare la tua macchina? Che vantaggio ne ricaverebbe?

Il tentennare perenne tra una scelta ed un’altra o, ancor peggio, fatta una scelta rimuginare sull’altra opzione, ti conviene? Ti fa vivere meglio?

Provate a domandarvi se il vostro atteggiamento, dettato dalla prudenza o dalla paura (che sono comunque validissimi meccanismi di sicurezza), vi conviene o meno. Potreste stupirvi delle vostre stesse risposte.

Il dilemma dello sconosciuto

Prima di salutarvi desidero parlarvi ancora di un libro che a questo argomento è strettamente collegato.

Si tratta de “Il dilemma dello sconosciuto” del giornalista Malcom Gladwell. In questo saggio, l’autore analizza l’umana difficoltà nel valutare correttamente ciò che non conosciamo.

Parte da un fatto di cronaca. Una ragazza di colore, una giovane universitaria appartenente ad una famiglia benestante, viene fermata da un poliziotto per un controllo di routine. In un’escalation assurda di reciproci sospetti, l’agente decide di arrestarla e lei, in carcere si suiciderà. Una morte assurda ed immotivata.

Quando Gladwell apprende la storia dal giornale, decide di capire con l’aiuto di scienziati e psicologi, perché un controllo di routine è diventato una tragedia. E nel farlo scardina alcune delle convinzioni più comuni.

Un libro godibilissimo. Un saggio accurato che ci apre gli occhi.

Il dilemma dello sconosciuto
Malcom Gladwell
Edizioni UTET
360 pp / 20 euro

Cliccando sul widget qui sotto potete ascoltare il post letto direttamente da me.

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Il farfallino più famoso d’Italia

Una recensione dell’ultimo libro di Luca Mercalli, Salire in montagna, dove racconta il lungo viaggio per restaurare una casa in Val di Susa

Dopo la morte del critico d’arte Philippe Daverio, il titolo di farfallino più famoso d’Italia è passato a Luca Mercalli, lo scienziato e metereologo che spesso è ospite in televisione e che da anni si batte per convincere l’opinione pubblica della necessità di agire subito per contrastare il degrado del nostro pianeta.

Devo dire che l’uomo mi sta antipatico: con quel suo atteggiamento snob da primo della classe, da signorino so tutto io, mi sembrava quanto di più lontano si potesse pensare rispetto ad un divulgatore scientifico. Sentendolo parlare, però, dovevo accettare il fatto che fosse incredibilmente preparato (sono anche andato ad un paio di sue conferenze), ma il mio rapporto con Mercalli era un misto di stima e fastidio.

Un bel giorno, però, stavo discutendo su come fosse importante inserire la variabile “ecosostenibilità” in ogni nuovo progetto e il mio interlocutore mi aveva citato l’ultimo libro di Mercalli, che io mi ero rifiutato di comprare.
Richiamato al dovere, sono passato dalla mia libraia di fiducia e, un po’ con sorpresa, ho scoperto che lo aveva disponibile.

Salire in montagna

Sono tornato a casa con la mia bella copia di “Salire in montagna” che era stato pubblicato nel 2020 e, ancora per un paio di settimane, l’ho lasciato vagare sul tavolo del soggiorno, sul comodino, sulla scrivania. Fino a quando, un mattino mentre facevo colazione, ho letto la dedica: “Ai montanari per scelta”… insomma sembrava fosse stato scritto apposta per me.

Per farla breve, non solo ho letto tutto d’un fiato il libro, ma sono andato anche a scavare nella libreria di un’amica per trovare altri libri di Mercalli.

Salire in montagna è un agile saggio che spiega nel sottotitolo il tema generale: “prendere quota per sfuggire al riscaldamento globale”.

Ma l’approccio, più che di un testo scientifico, è quasi romanzesco: un diario personale dell’esperienza di Mercalli e di sua moglie Sofia che, nel marzo del 2017 vedono una casa in un piccolo borgo della Val di Susa e decidono, con un processo alquanto lungo e macchinoso, di acquistarla, restaurarla e finalmente iniziare ad abitarla.

E’ una storia appassionante, almeno per chi ha vissuta un’esperienza analoga.
La premessa è che scegliere dove vivere non può prescindere dalla valutazione delle mutazioni climatiche in corso. E similmente, scegliere come ristrutturare una casa, non può essere un mero esercizio estetico, ma deve considerare l’ecosostenibilità del progetto e dell’abitazione.

Lo stile di Mercalli è diretto. Non ha peli sulla lingua e non teme di risultare antipatico. Questo rende il libro assolutamente credibile. Mercalli è un uomo di città che però sta virtuosamente cercando di recuperare un rapporto più sano con il territorio. Vuole evitare sprechi e inquinamento. Vuole vivere in un piccolo borgo ma senza rinunciare al suo lavoro.
Nella sua visione, internet è una priorità esattamente come la tenuta termica di tetto e serramenti.

Ogni capitolo, poi, svela il modo di ragionare dell’autore, l’approccio scientifico ai problemi e alla ricerca di una soluzione. Infine, cosa da non trascurare, ogni tema legato alla casa è lo spunto per allargare lo sguardo alla situazione attuale.

Un libro godibilissimo che mi sento di consigliare a tutti, ma che è obbligatorio per chi ha comperato o sta comperando casa nelle Terre Alte.

Salire in montagna, di Luca Mer calli
Einaudi Editore
196 pagine / 17,50 euro

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Sulla corsa

Un libro che sono stato in dubbio se comprare o meno, invece Mauro Covacich e il suo Sulla corsa mi hanno conquistato

Ammetto di aver raggiunto un certo grado di saturazione e di non voler più leggere libri che parlano della corsa.
Non dico i manuali, che avevo letto imparando un sacco di cose nella fase iniziale del mio amore per il running e avevo presto abbandonato, ma libri che parlano di corridori e di corse in generale.

Così, quando ho scoperto che Mauro Covacich aveva scritto un nuovo libro e proprio sulla corsa… beh ammetto che non ero stato particolarmente interessato.

Mi piace come scrive Covacich. Il suo romanzo A perdifiato è, tra i romanzi che parlano di atletica, uno dei miei preferiti.
Gioca anche il fatto, totalmente irrazionale, che lo sento vicino, vuoi per età vuoi perché è nato e cresciuto a Trieste come me, vuoi per la passione smisurata per l’atletica.

Insomma, sono andato in libreria e ho comperato questo suo Sulla corsa, che fin dal titolo rivela di cosa tratta: una raccolta di riflessioni e ricordi incentrati sulle esperienze personali dell’autore.

Sulla corsa Mauro Covacich

Inizia dall’inizio, cioè dal momento in cui Covacich ha scoperto cosa significava correre. Per lui è avvenuto in giovanissima età, 11 anni, e direttamente in una gara organizzata dal dopolavoro del padre.

Nei capitoli seguenti assistiamo al crescendo che tutti i runners ben conoscono. La voglia di raggiungere la maratona, la voglia di misurarsi e di migliorare il proprio personal best, quell’isolamento (quasi autistico) nei confronti del mondo normale, del mondo che non corre.

Covacich è un giornalista e quindi gli capitano incontri che in molti sognano: i grandi nomi dell’atletica, gli altopiani africani, la Grande Mela.

Leggevo con piacere i vari capitoletti e intanto mi interrogavo su dove andava a parare. Su come sarebbe terminata la parabola della passione.
C’erano state delle avvisaglie, sparse qui e là, che la storia di Mauro corridore doveva avere un epilogo mesto. Infatto ecco puntuale la visita medico sportiva e il mancato rinnovo del certificato: uno dei mostri che chi corre teme di più.

Ma come in tutte le storie che funzionano, il giro di boa rappresentato da questa apparente sconfitta rende il racconto più intenso, più umano.

Non vi rivelo il finale, anche se non si tratta di un giallo è sempre bello navigare da soli tra le ultime pagine dei libri. Dico solo che sono stati 15 euro spesi davvero bene.

Un libro che a mio avviso offre una visione completa e matura della passione per il correre. Ottimo sia per gli agonisti che per i joggers da par mio.

Quindi, dato il tema, correte a comprarlo in libreria.

Sulla corsa
Mauro Covacich
La nave di Teseo, collana Le Onde
159 pagg / 15,00 euro

Ascolta “Sulla corsa” su Spreaker.

Te lo ricordi il West?

Due libri ambientati nel Far West, due successi letterari, due stili molto diversi. Provo a fare una recensione parallela…

Sono cresciuto, come molti della mia età, con negli occhi le immagini dei film che RAIUNO proponeva al lunedì sera.
Ricordo con un po’ di nostalgia i cicli dedicati ad un attore o ad un regista o anche ad un tema specifico. Poche parole di presentazione e via, immersi in un mondo diverso, senza interruzioni pubblicitarie, fino ai titoli di coda quando noi ragazzi filavamo a letto mentre i genitori discutevano su quanto avevano visto.

Ecco, per me il west, il Far West, era soprattutto questo.
John Wayne, John Huston, la battaglia tra gli indiani e il settimo cavalleggeri, le pianure desertiche con i cespugli che rotolavano, i cowboy che erano eroi e non pastori di mucche.

Forse anche la nostalgia per quelle serate del lunedì mi ha spinto a comperare Lonesome Dove, il tomo di Larry McMurtry che ha in copertina un cowboy che doma un cavallo nel controluce della sera.
La nostalgia e il solito tam tam dei lettori che lo aveva indicato come il caso letterario del momento.

Un librone di 976 pagine che prometteva una storia di Texas Rangers e mandrie da spostare.

L’ho letto in un lungo weekend di pioggia. Senza alcuno sforzo, grazie alla grande abilità dell’autore che ha saputo creare personaggi estremamente ben caratterizzati e una sequenza di avvenimenti che rendono il libro estremamente cinematografico.

È la storia di un gruppetto di rangers che dopo aver combattuto indiani e messicani nel sud degli States si erano ritirati a fare i mercanti di bestiame, trafugando i cavalli dei messicani oltre confine per rivenderli agli americani, ma che decidono di cercar fortuna portando una mandria nel Montana, quando ancora il Montana era la nuova frontiera.

Come dicevo, l’ho bevuto tutto d’un fiato. Piacevole alla lettura e mai noioso. Ma mi aveva lasciato dentro un senso di insoddisfazione, come se mi mancasse qualcosa.

Mi è tornato in mente, allora, un libro che avevo sfiorato tempo fa. Subito dopo aver letto Stoner di John Williams, che mi aveva entusiasmato, ero andato a cercare altri libri dello stesso autore ed ero incappato in un titolo, Butcher’s Crossing. Avevo letto l’incipit on line e non lo avevo acquistato. Ricordavo che parlava di bisonti e cacciatori, così venerdì l’ho acquistato e durante il weekend l’ho letto.

libri a confronto

Nel romanzo di Williams, il protagonista è un giovane bostoniano che arriva nel west alla ricerca dell’avventura. Incontra un cacciatore che, a sua volta, sta cercando di realizzare un’impresa: ha scoperto una valle dove si rintanano migliaia di bisonti e vuole fare la caccia della vita. Si incontrano e partono; torneranno segnati, e forse sconfitti, dall’esperienza.

Sono libri con alcune evidenti similitudini.

Entrambi hanno come titolo il nome del paese da cui la storia prende il via. Entrambi sono ambientati nello stesso periodo storico e nella prateria americana (anche se geograficamente sono molto lontani). Entrambi parlano di un’avventura epica, la grande calvalcata in Lonesome Dove, la grande caccia in Butcher’s Crossing. Entrambi sono scritti in modo magistrale.

Ma la grande differenza è che John Williams narra una storia per presentare una sua teoria, i personaggi hanno tutti uno spessore interiore, pur nell’assoluta semplicità. E alla fine il libro ti lascia una serie di riflessioni e spunti da elaborare. Mentre Larry McMurtry ti toglie il fiato con la sequenza di eventi, ma alla fine dice tutto lui, la storia non lascia strascichi.

Non me la sento di dire che uno sia migliore dell’altro.
Di certo Butcher’s Crossing è più nelle mie corde.

Leggeteli e sappiatemi dire.

Lonesome Dove
Larry McMurtry
Einaudi, collana ET Scrittori
976 pp / euro 16,00

Butcher’s Crossing
John Williams
Fazi Editore, collana Le Strade
359 pp / euro 10,00

Ascolta “Te lo ricordi il west?” su Spreaker.

Flora

Alessandro Robecchi ci regala un altro giallo con Monterossi e soci impegnati questa volta nel rapimento di Flora De Pisis

Lo so di aver trascurato questo spazio. A mia parziale discolpa, vi invito a “prestare orecchio” al podcast Passaggi a Nord Ovest che dal 1 gennaio di quest’anno stiamo portando avanti con Denis Falconieri.
Sono cose diverse, ma assorbono entrambe tempo, e in queste ultime settimane ho prediletto il podcast a questo blog.
Comunque…

Non dirò nulla di nuovo quando vi racconto che amo i libri (e soprattutto i personaggi) di Alessandro Robecchi.

La settimana scorsa è uscito il suo ultimo giallo, Flora, l’ho acquistato, ho messo in pausa il mondo per qualche ora, e l’ho divorato.

Flora

Definirlo giallo, un po’ come per la maggior parte dei romanzi di Robecchi, è riduttivo. Si tratta di un’analisi della società contemporanea vestita da poliziesco.

La trama è presto detta.
Flora De Pisis, la conduttrice di Crazy Love un programma che Monterossi ha ideato diventando ricco e, al contempo, affondando nei sensi di colpa, viene rapita. La rete televisiva privata, amichevolmente definita dal protagonista “la fabbrica della merda”, produttrice del programma viene contattata per il riscatto, ma qui iniziano le sorprese.

E’ un giallo, non vi svelerò di più.
Al massimo potrei rimandarvi all’intervista con l’autore (che posto più sotto) in cui regala alcune indiscrezioni.

Vi dico però che per 365 pagine, Robecchi e la sua banda di investigatori, ci portano a spasso per una Milano estiva, con tutte le sue bellezze e i suoi controsensi.

E mentre, un po’ alla volta, scopriamo il folle progetto dei rapitori, veniamo coinvolti in una storia parallela, di altri tempi. Una storia tanto poetica quanto quelle proposte dalla televisione nazional popolare (che Flora De Pisis incorpora) sono invece grevi e senza spessore.

Robecchi offre una riflessione profonda che è un attacco alla televisione, mancato strumento di cultura e generatore di spazzatura mediatica.

Lo fa con garbo e con grande senso dell’umorismo. Non aspettatevi un saggio, ma una storia divertente che fa riflettere.


Flora
Alessandro Robecchi
Sellerio Editore
365 pp / 15,00 euro

Ascolta “Flora, un giallo di Alessandro Robecchi” su Spreaker.

Della gentilezza…

Un libro che è un manuale di sopravvivenza civile: ecco la mia recensione a “Della gentilezza e del coraggio” di Gianrico Carofiglio

Della gentilezza e del coraggio - Gianrico Carofiglio

Un libro strano di un autore che amo tantissimo.
Ho apprezzato Gianrico Carofiglio nella sua veste di scrittore, quando ho letto Ad occhi chiusi, seconda apparizione dell’avvocato Guerrieri. Un giallo particolare in cui è evidente la totale competenza con cui Carofiglio, ex magistrato, si muove nell’ambiente giudiziario.

Il libro mi era piaciuto così tanto che ho letto rapidamente gli altri gialli che aveva scritto, restando sempre più affascinato dalla lucidità di alcune riflessioni e dalla pulizia della scrittura. Entrambe doti che denotavano una grande chiarezza di idee.

Ma il vero colpo di fulmine è scattato nel 2010, quando ho acquistato, quasi per caso, La manomissione delle parole, opera curata da Margherita Losacco. In questo saggio Carofiglio, partendo dal presupposto che le parole sono importanti e che di esse bisogna aver cura e non manometterle a proprio uso e consumo, spiega il significato originale di cinque termini: vergogna, giustizia, ribellione, bellezza, scelta.

Era il Carofiglio politico a parlare (era stato eletto nel 2008 al Senato della Repubblica) ma con la capacità di analisi del giurista. Per ogni parola spiegava l’uso e l’abuso che se ne faceva nei discorsi pubblici dei politici. Un grido di allarme, una richiesta di tornare ad un concetto alto di politica.

Lo leggevo e mi sembrava di leggere i miei stessi pensieri.

E quindi, quando è uscito questo “breviario di politica ed altre cose”, per usare il sottotitolo, l’ho iniziato e finito senza mai alzarmi dalla poltrona.

Si parla ancora di politica, ma questa volta da un punto di vista nuovo: è un manuale su come si dovrebbero affrontare le discussioni. Sia quando si è coinvolti, sia quando si è spettatori.

In un’epoca in cui vince chi urla più forte, Carofiglio propone di usare la gentilezza, il coraggio e il discernimento.

La gentilezza perché disarma e usa la violenza altrui come metodo di difesa.
Il coraggio come principale virtù per apportare i cambiamenti.
Il discernimento, cioè la capacità di porsi domande per capire se quello che ci viene detto è vero, verosimile o falso.

Un libretto di poco più di 100 pagine, ma denso di significato, da leggere e rileggere (e io non rileggo quasi mai un libro!).

Preziosa anche la bibliografia finale, che permette – se qualcuno ne avesse voglia – di approfondire il tema.

Un’ultima considerazione prima di lasciarvi alla lettura.
Non inganni il fatto che sia considerato un saggio: questo Della gentilezza e del coraggio è prima di tutto un manuale.

Un libretto d’istruzioni per il cittadino consapevole.

Della gentilezza e del coraggio
Gianrico Carofiglio
Edizioni Feltrinelli
119 pagg. / 14,00 euro

Ascolta “Della gentilezza e del coraggio” su Spreaker.

Il bosco del confine

Una storia delicata, un romanzo di formazione, una scrittura preziosa: tutti elementi che fanno de Il bosco del confine un grande romanzo

Come tutti i bibliofili, anch’io ho tutta una serie di piccole manie legate al libro, oggetto del desiderio.
Ovviamente osservo con un piacere fisico tutti gli aspetti più materiali: la carta, la forma, il colore delle pagine, l’odore dell’inchiostro.
Poi ragiono sulla posizione in cui sistemare il volume su uno scaffale della libreria: per autore, per casa editrice, per argomento.

Immagino siano follie comuni a molti.
Ed io rincaro, aggiungendo anche tutta un’altra serie di piccole manie. Mi piace ricordare il modo in cui sono entrato in possesso di un libro. Chi me lo ha consigliato o fatto conoscere. Mi piace associare, alla trama del romanzo, la mia storia personale, il momento in cui l’ho letto. Mi piace rileggere un libro dopo anni, per capire quanto sono cambiato.

Infine ho un modo di dividere i libri per grandi categorie. Ed una di queste è “libri da matita/libri senza matita”. Insomma libri che ho voglia di sottolineare e libri che invece leggo senza soffermarmi.

il bosco del confine

Sono incappato in uno di questi libri da matita grazie al consiglio di una delle mie sorelle (siamo una famiglia di appassionati di lettura). Sapendo che è un periodo in cui leggo molto di alberi e foreste, mi ha consigliato Il bosco del confine di Federica Manzon. L’autrice è cresciuta a Trieste (che considero la mia città di formazione) e la storia prende il largo nei boschi del Carso.

C’è una trama?
Sì, certamente. O meglio c’è una storia, quella drammatica di Sarajevo ai tempi della guerra del 1993, che fa da sfondo, da pretesto narrativo, alle vicende di una ragazza, che non viene mai chiamata per nome (salvo l’appellativo “Schatzi”, “tesoro”, con cui le si rivolge il padre).

Figlia di una coppia di genitori illuminati, madre italiana, padre serbo ma arrivato in Italia dopo aver girato l’Europa, risente dell’educazione aperta che riceve. Soprattutto dal padre, con il quale condivide la passione per le lunghe camminate nel bosco che si trasforma nel luogo dell’anima. Nel posto in cui lei scopre se stessa.

Vivendo a Trieste, città di confine per eccellenza, con una forte impronta europeista (non per visione moderna, ma per retaggio austroungarico), la protagonista ha l’occasione di assistere ai giochi olimpici invernali che si tengono nella capitale dell’allora Jugoslavia nel 1984.

Lì conosce alcuni ragazzi, in particolare stringe amicizia con Luka, che poi diverrà la voce narrante durante la guerra civile.

Dicevo che la storia principale potrebbe sembrare quella della città di Sarajevo, ma la vera storia è quella della maturazione della protagonista che, come in un bassorilievo, risulta dai vuoti lasciati dalla trama.

Ho molto invidiato la ragazza e la sua educazione.
Mi sono immedesimato in lei e ho riconosciuto (io che a Trieste ho vissuto una larga parte della mia vita) le atmosfere, i suoni delle parole, i fumi e profumi del cibo.

Dicevo che è un libro da matita.
Ci sono romanzi che leggo e che mi catturano per la scrittura o per la profondità di certe affermazioni lasciate cadere tra le righe.
In quei casi sento forte l’impulso di sottolineare quelle parole, quasi fossi un minatore che ricava da una vena le gemme preziose.

Questo Il bosco del confine è ricco di gemme.
Da assaporare con calma, da rileggere.

Alla fine mi è rimasta la curiosità di sapere quanto di autobiografico c’è nella storia. Federica Manzon, per ragioni anagrafiche, non può essere la protagonista, quindi devo accettare che si tratti di una storia inventata (o magari una storia vera romanzata) ma la vividezza dei pensieri potrebbe svelare che qualche aspetto di Schatzi sia un riflesso dell’autrice.

Oppure, semplicemente, che è veramente brava!

Il bosco del confine
Federica Manzon
Aboca, collana Il bosco degli scrittori
173 pag. / 14,00 euro

Ascolta “il bosco del confine” su Spreaker.

Riccardino

Dopo averlo snobbato, ho acquistato Riccardino di Andrea Camilleri. Ecco la mia recensione, ma vi anticipo che è stato subito amore

Voglio parlarvi di un grande amore, della sua fine e di un ritorno di fiamma.
Considero Andrea Camilleri uno dei grandi autori italiani. L’ho conosciuto a metà degli anni Novanta, quando iniziai a leggere la fortunata serie del commissario Montalbano. Credo che il primo fosse La forma dell’acqua.

Divenne in breve una droga e, come capita quando incontri una vecchia serie tv e puoi vedere molti episodi di seguito, mi beai dell’incredibile produzione di quell’autore.

Mi piaceva tutto. La dimensione dei libri (la collana blu di Sellerio e quella piccola di Adelphi hanno sempre risvegliato il collezionista che c’è in me); il tono scanzonato del protagonista, la sua ribellione alle convenzioni, la passione per il cibo, il suo essere profondamente umano; e poi adoravo la lingua, un italiano ricercato e preciso, impreziosito da alcune parole in dialetto o, ancora meglio, dall’uso dialettale di alcune parole italiane (ad esempio magari, usata nell’accezione di anche).

Poi venne la serie televisiva, con Zingaretti a dare carne a Montalbano. Una sintesi perfetta. Credo che sia impossibile leggere Camilleri senza immaginare l’attore o vedere un film con Zingaretti senza immaginare la parlata di Montalbano.

Nel frattempo avevo letto anche gli altri libri, quei romanzi storici di cui Camilleri va fiero, come La concessione del telefono o Il birraio di Preston, e mi erano piaciuti persino di più… così, un po’ alla volta, come un amore che giunge al suo apice e poi sfiorisce in routine, mi sono annoiato e l’ho abbandonato. Ho smesso di acquistare ogni suo libro pensando che non aveva più nulla da dirmi.

Un paio d’anni fa ci siamo rincontrati per caso.
Un amico mi consigliò Km 123, edito dalla Mondadori. Un giallo strano, non tanto per la storia ma per come era scritto. Miscelando con sapienza sms, rapporti di polizia, brani di conversazioni, raccontava una storia per frammenti lasciando al lettore il piacere di ricomporla.

Mi piacque, ma non abbastanza per farmi ricadere nel trip di Camilleri.

Poco dopo, nel luglio del 2019, Camilleri morì.
Ovviamente, come sempre accade quando un grande scrittore muore, si susseguirono i coccodrilli, le recensioni sperticate, le ripubblicazioni dei romanzi. E come sempre accade in questi casi, io me ne stetti alla larga.

E mi persi una chicca.
Sellerio pubblicò Riccardino, un romanzo della serie di Montalbano, “L’ennesimo” pensai io, ma mi sbagliavo.

Riccardino

Camilleri scrisse Riccardino nel 2005 e lo rimaneggiò nel 2016, lo mandò all’editore chiedendo specificatamente che fosse pubblicato postumo. Una sorta di testamento…
Questo particolare mi ha incuriosito così, nei giorni scorsi, l’ho ordinato e, finalmente, letto.

E’ un piccolo capolavoro. Se non lo avete ancora letto, fatelo subito…

Iniziamo dalla cosa più scontata: è una classica storia di Montalbano, trama immaginifica e personaggi caratterizzati con la solita maestria.

La lingua è mutata.
Il dialetto ha preso il sopravvento. Per leggerlo ho impiegato il doppio del tempo che impiegherei per qualsiasi altro giallo. Restavo invischiato nelle parole, mi obbligava ad un’attenzione che di solito riservo ai saggi.

Ma mi ha ripagato in toto per la musicalità di quella lingua.
Non è difficile da seguire, anzi. Ti seduce con i suoi suoni meridionali, ti porta via con se, è davvero un piacere nel piacere.

Infine, l’ultimo affascinante aspetto, è che diventa multidimensionale.
Come dicevo, è esperienza comune leggere la storia di Montalbano ed immaginare Zingaretti che lo interpreta. Bene, Camilleri gioca su questo fatto e contrappone il Montalbano vero (quello inventato da lui) con quello televisivo. E come se non bastasse, a metà libro (non preoccupatevi non ci sono allarmi spoiler) fa apparire anche se stesso, con il pomposo nome di Autore, che dialoga con il suo personaggio.

La storia diventa quindi un pretesto per ragionare sul complesso rapporto tra scrittore e personaggi. Nulla è banale. Ogni capitolo contiene una riflessione, una frase, una perla di saggezza.

Camilleri se n’è andato lasciandoci Riccardino in dono.
E questo, invece che aiutarci, ci farà sentire ancor di più la mancanza della sua penna.

Riccardino
Andrea Camilleri
Sellerio Editore
288 pagg. / 15,00 euro

Ascolta “Riccardino” su Spreaker.

Gli spiriti dell’aria

Ascolta “Gli spiriti dell’aria” su Spreaker.

Ci sono libri che ti cercano. Li trovi, per combinazione, in un certo momento della vita, magari ne ignoravi l’esistenza, ma ti capitano in mano e li prendi.
Questo è uno di quelli…

C’è un negozio ad Aosta che esercita su di me un fascino irresistibile, si chiama Carta Canta e vende libri e dischi usati. Ogni volta che scendo nel capoluogo regionale, non perdo l’occasione per farci una capatina.

L’ultima volta, scorrendo la sezione dedicata ai libri di montagna, sono stato attratto dalla forma inconfondibile della collana originale de I licheni della Vivalda Editori.
[Questa sarebbe una storia nella storia: la Vivalda era una casa editrice torinese che nel 2013 cedette alla Priuli & Verlucca (altra casa editrice piemontese con il cuore nella letteratura di montagna) il loro fiore all’occhiella, la collana I Licheni che raccoglieva la crema degli autori di genere. I nuovi proprietari hanno saputo far evolvere la collana che oggi vanta 119 titoli…]

Si trattava de “Gli spiriti dell’aria” l’ultimo libro scritto da Kurt Diemberger nel lontano 1994. Avevo in mano una copia della prima edizione italiana (1997) che all’epoca costava 35mila lire.
Non serve che vi dica che sono andato alla cassa e me la sono portata a casa.

Gli spiriti dell'aria

Kurt Diemberger è un alpinista austriaco (è nato a Villach e ha vissuto a lungo a Salzburg) della generazione di Messner anche se è un po’ più vecchio del re degli Ottomila.

Nella sua vita ha avuto la fortuna ed il merito di fare grandi cose.
Ha scalato nel 1957 il Broad Peak insieme ad un mito assoluto come Hermann Buhl e, pochi giorni dopo, assistette alla sua morte mentre ritornavano dal tentativo di salita sul Chogolisa.
Per un periodo fu in corsa con Messner nella conquista degli Ottomila, ma non era una cosa che lo interessasse, preferì dedicarsi ad altro (basti pensare che tra il secondo e il terzo ottomila fece passare quasi 20 anni).

Ama l’Italia (e le italiane), vive vicino a Bologna con sua moglie, è stato guida alpina sul Monte Bianco, è noto allo stesso modo per le imprese e per le riprese fatte scalando. E’ diventato il cinereporter degli Ottomila (secondo la definizione incollatagli dalla spedizione francese all’Everest che lo ha visto partecipare come cameraman) e, grazie a questa attività, ha girato il mondo e le montagne.

Io lo conoscevo per aver letto ed apprezzato “K2, il nodo infinito”, così mi sono accinto alla lettura aspettandomi l’ennesimo racconto di conquista delle vette.

Invece questo “Gli spiriti dell’aria” mi ha sorpreso.

Sapevo che Diemberger era una sorta di spirito libero, un hippie della montagna, e in questo libro ha raccontato molto di se stesso mentre descriveva le sue “avventure minori” che però hanno il merito di restituire moltissimo del suo carattere, della sua filosofia di vita.

Si spazia dalla spedizione in Groenlandia al suo metodo di archiviare le cose sparse per il mondo; racconta la salita al Makalu ma anche le disavventure di conferenziere, traccia il ritratto di alcuni grandi alpinisti e quello di sua suocera (la tipica madre di famiglia italiana).

Un libro divertente, leggero. Che rivela molto di più dell’autore che delle sue imprese. Esattamente quello che mi ci voleva per farmi compagnia in questo periodo.

A marzo 2017, la Priuli & Verlucchi ha deciso di ristamparlo, per cui se vi fa piacere lo potete trovare in libreria.

Gli spiriti dell’aria
Kurt Diemberger
Priuli & Verlucchi editori, I licheni (volume 30)
384 pag. / 19,10 euro