La sfida degli ‘anta

Sto per compiere 60 anni e li esorcizzo lanciandomi in una nuova sfida, fuori dalla mia comfort zone: un nuovo libro che contiene mie canzoni

Forse potremmo considerarlo un luogo comune o una leggenda metropolitana, ma tutti noi che abbiamo superato i trent’anni sappiamo bene come, all’avvicinarsi della fatidica cifra che finisce con lo zero, si inizia a pensare all’età che avanza. Siano i 40, i 60 o gli 80, si sente sempre un piccolo brivido correre lungo la schiena mentre nel cervello si forma la classica domanda “E adesso? Cosa ne sarà di me?”

La risposta l’abbiamo intorno a noi. Il mondo è pieno di gente che gioca a tennis, va a ballare, scrive poesie, raggiunge vette, corre maratone e la cui carta d’identità sembra mentire. Eppure non ci fidiamo e siamo così spaventati che ci mettiamo in testa di esorcizzare il Tempo compiendo qualche pazzia che ci faccia sentire giovani: un tatuaggio, la motocicletta, un’avventura sentimentale con un partner più giovane.

Non sono esente da questa malattia.
Per esorcizzare i miei 40 anni ho corso la mia prima maratona.
Per esorcizzare i miei 50 anni ho divorziato.
Ed adesso che si avvicinano i 60 ho deciso di uscire di nuovo dalla mia comfort zone, di lasciare l’alveo nel quale scorreva tranquilla la mia vita e provare a lasciare spazio alla cosa che amo di più: creare cose nuove.

Il mio compleanno è tra un paio di mesi, ma la vera festa la faccio il prossimo 15 ottobre, quando debutterà un nuovo progetto che si chiama Conte dai monti. Si tratta di un libro in cui sono raccolte 12 storie ambientate in montagna. Ogni storia può essere letta e può essere ascoltata su Spotify. Ci sono inoltre tre canzoni che ho scritto e che canto io, supportato da alcuni amici musicisti cui non sarò mai grato abbastanza. E c’è soprattutto Bobo Pernettaz, un grande compagno di viaggio, un pittore o, come preferisco dire io, uno scrittore per immagini.

Nei prossimi giorni o settimane, ne sentirete parlare ancora a lungo. Da me e, spero, da altri.
Ma qui, nel mio blog, volevo raccontarvi il motivo che mi ha spinto a mettermi alla prova di nuovo.

Quando cammino in montagna, scelgo sempre percorsi circolari, per non dover ripetere due volte lo stesso sentiero.
Se posso cerco escursioni diverse. E mi piace tantissimo cercare sentieri che uniscono due luoghi, sentieri che io non conosco ma che immagino esistere.
Ho bisogno di provare nuove strade per sentirmi più vivo, per essere stimolato.

Franz Rossi in studio

Ecco, in questo progetto faccio esattamente lo stesso: mi cimento in cose che non ho provato mai.
Scrivo racconti e non un romanzo intero. Scrivo usando un linguaggio diverso, lasciando più spazio all’immaginazione, mi espongo di più sui temi che mi sono cari.
E poi canto e suono, arti che non padroneggio, ma in cui – complice la pazzia dei 60 anni – ho deciso di cimentarmi pubblicamente.

Mi sono divertito moltissimo a lavorare con Bobo. A creare i paesaggi sonori per le storie che ha scritto lui o mettendo la mia penna al servizio di alcune sue idee. Sono stato molto influenzato e spero di aver lasciato anch’io il segno.

Adesso che la data di uscita è prossima, sento l’entusiasmo lasciare il posto all’emozione. Come un debuttante.
Ed in fondo sono contento anche di questo: tutte queste emozioni, la gola secca prima di salire sul palco, la paura che le parole ti lascino, l’ansia dell’andare in scena, sono solo vita che scorre.

Qui sotto la versione “ascoltabile” di questo post:

Ascolta “La sfida degli anta” su Spreaker.

La libertà di sbagliare da solo

La qualità del lavoro è diventato il mio punto cardinale nella scelta della professione, sia come free lance che come imprenditore.

Non so cosa scatti nella testa di una persona, perché si sia più portati a lavorare in un’azienda o si decida di mettersi in proprio, fare il free lance o addirittura creare la propria società.
Non credo che il dipendente sia migliore o peggiore del libero professionista. Entrambi i modi di lavorare sono, appunto, solo modi di lavorare. La differenza sta nella qualità del tuo lavoro. Sta di fatto che io, fin da ragazzo, poco più di ventenne, ho preferito la libertà di sbagliare da solo.

umarell

In quasi 40 anni di vita professionale ho creato, venduto, gestito molte società negli ambiti più diversi.

Ho iniziato creando una società che si avvaleva di una tecnologia all’avanguardia per velocizzare e automatizzare il processo di creazione dei giornali. Ma poi ho spaziato con la creazione di una società che si occupava della digitalizzazione di grandi archivi, una piccola tipografia, una cooperativa che realizzava prodotti editoriali, uno studio che progettava giornali quotidiani, una software house specializzata in automatizzazione di flussi di impaginazione, un’attività di assistenza tecnica su macchine da stampa, una software house dedicata all’industria editoriale e così via.

Tanto lavoro, tante soddisfazioni, tanti anni dietro alle spalle.

Cosa avevano in comune? Un approccio tecnologico alla soluzione di problemi pratici connessi alla creazione di contenuti editoriali.

Alcune di queste società sono floride e continuano a lavorare, altre sono arrivate a fine corsa quando il loro core business è diventato vecchio.

Mi sono domandato il motivo per cui ho intrapreso così tante strade. E non c’è una risposta unica. A volte è stato perché volevo dimostrare che una cosa si poteva fare meglio, altre volte perché avevo un’idea in cui nessun altro credeva, una volta perché mi ero innamorato di un palazzo perfetto per una certa attività, a volte semplicemente per denaro.

Non sono mai diventato ricco (ancora) e non ho mai avuto problemi di soldi (ancora).

Eppure eccomi qui a ripartire con una nuova avventura.

Lo scorso autunno ho dato vita a Borioula Media Company, che chiamiamo BoMeCo. Se siete curiosi di sapere da dove viene il nome o cosa facciamo, visitate il sito (www.bomeco.eu) o seguiteci su LinkedIn.

Io oggi volevo spiegare perché, alla soglia dei 60 anni, mi sono rimesso in gioco. E i motivi sono sostanzialmente tre.

Il primo è che credo che la routine, il rifare per anni la stessa cosa, sia il primo passo verso l’immobilità. Ed io ho bisogno di muovermi per sentirmi vivo.

Il secondo è che ho bisogno di creare qualcosa. Non mi basta più operare nel mondo dei servizi o delle consulenze, voglio che, alla fine della mia giornata di lavoro, ci sia qualcosa di concreto che prima non c’era.

Il terzo motivo, ed è certamente il più importante, è che ho creato BoMeCo come una piattaforma, un hub, in cui lavorare assieme a persone che mi piacciono. E vale per le persone con cui collaboro ma anche per i clienti. Voglio essere felice di incontrarli. Voglio che alla fine della riunione ci sia il tempo per bere una cosa assieme o, ancora meglio, che mentre si passa del tempo assieme nascano idee su nuovi lavori.

Un’utopia? Può essere.

Ma c’è una lezione che ho imparato da un grande uomo, Gino Strada, cofondatore di Emergency che diceva “ogni utopia è un sogno non ancora realizzato”.

Io voglio credere che il mio sogno di lavorare bene grazie al fatto di essere fianco a fianco con persone che stimo sia realizzabile.

Sarà necessario usare tempo e determinazione, ma sono certo che i risultati, misurati in qualità della vita, qualità del prodotto finale e, anche, ritorno economico, arriveranno.

Post Scriptum: come ogni nuovo viaggio, la meta è chiara ma il vero piacere deriva dal viaggiare. Perché non dovrebbe essere così anche in un’attività imprenditoriale?

Ascolta “La libertà di sbagliare” su Spreaker.

Bobo ed io

La storia di un’amicizia nata quasi per caso ma che mi ha aiutato a lavorare su un progetto che mi riempie di orgoglio, il podcast de Il ContaStorie.

Ci sono cose che succedono per un disegno superiore, chiamatelo karma (che è più di moda), chiamatelo dio (se avete la fortuna di crederci), chiamatelo destino (se non sapete che nome dargli).

In questi ultimi 15 anni, da quando frequento la Valle d’Aosta, prima come turista, poi come villeggiante e finalmente come residente, e la giro in lungo e in largo, sono stato colpito da alcuni quadri che mi coglievano sempre di sorpresa. Alle volte dalle pareti di un ristorante, altre esposte in un negozio, altre ancora usate come insegna. Lo stile era estremamente personale, un mix tra scultura e pittura, dei quadri a tre dimensioni e con tinte piatte e forti.

Quindi posso dire che ho imparato a riconoscere Bobo Pernettaz prima di conoscerlo.

Il mio amico Denis, che spesso mi ha fatto apprezzare angoli speciali della Valle (non a caso quelli della Lonely Planet gli hanno fatto scrivere la loro guida) aveva a casa un quadro di Bobo e così ho saputo che erano amici.

“Bene” – gli ho subito detto – “un giorno mi accompagni al suo laboratorio!” ma poi il tempo passava e non c’era mai l’occasione, io non ero ad Aosta o avevamo le giornate troppo piene.

Così è arrivato dicembre e Denis mi ha girato un vocale su WhatsApp: era un racconto che Bobo aveva registrato con il telefonino e parlava del natale di sua nonna Antoniette.

Ne sono rimasto stregato. Ho immediatamente compreso le potenzialità di quella storia; ho detto a Denis di contattare Bobo per farsela registrare meglio (nella prima versione si sentiva in sottofondo la lavatrice che girava!) e, dopo aver ottenuto il suo ok, ho creato un paesaggio sonoro scarno ed evocativo che valorizzava la voce caratteristica di Bobo, e lo abbiamo messo on line su Passaggi a Nord Ovest.

Bobo Pernettaz

È così che sono diventato amico di Bobo.

Mi ha telefonato e mi ha detto: “Senti Franz, ogni tanto mi chiamano e vado con degli amici a raccontare le mie storie, perché non vieni anche tu e fai il rumorista?”

Il rumorista!

Poi da cosa nasce cosa, e mentre facevo i suoni a corredo dei suoi racconti, è finito che ho imbracciato la chitarra e ho cantato qualcuna delle mie canzoni, e soprattutto nelle cene che seguivano gli spettacoli sono entrato in sintonia con un gruppo di nuovi amici.

Con Bobo c’è stata intesa immediata. Siamo sulla stessa lunghezza d’onda, ci accaloriamo per le stesse cose, abbiamo le stesse priorità nella vita, ci scambiamo consigli su libri, su canzoni, su trattorie tipiche.

Così è stato naturale provare a creare qualcosa insieme, ed è nato Il ContaStorie, un podcast che sono fiero di produrre.

Ogni mese, a partire dallo scorso novembre, esce un nuovo episodio.

Sono storie che partono da ricordi di Bobo o che, anche nel caso di quelle di pura fantasia, sono arricchite con i suoi ricordi. Essendo lui un pittore, si esprime per immagini, ogni suo racconto potrebbe diventare un quadro. Ma restituiscono in modo vivido uno spaccato della vita in Valle d’Aosta subito prima del boom economico degli anni ‘90.

Il mio lavoro è quello di essere il più invisibile possibile.

Nei testi metto appena le mani, tanto per garantire scorrevolezza o per inserire qualche particolare che Bobo mi aveva raccontato in una delle tante cene assieme. Il commento sonoro è ridotto all’essenziale per lasciar emergere tutto il colore della voce di Bobo.

È uno dei lavori di cui sono più orgoglioso.

Sono convinto che mettere on line le sue testimonianze sia un modo di preservare un certo tipo di cultura che è differente da quelle main stream. Più ruspante, forse. Di certo più autentica.

Le storie sono un potpourrì di voli pindarici, di iperboli romantiche, di esagerazioni poetiche. Ogni storia dura poco più di 15 minuti. Un quarto d’ora in cui verrete sottratti alla fretta e alla confusione del mondo.

Questo è il nostro contributo, mio e di Bobo, al vostro universo digitale.

Quindici minuti di fantasia, di storie di altri tempi, di pause lunghe e di scoppi di risate.

Post Scriptum: vi lascio il link alla serie Il ContaStorie, che comunque trovate su tutte le piattaforme di podcasting. Qui sotto, come al solito, la versione “ascoltabile” del mio post…

Ascolta “Bobo ed io” su Spreaker.

Dal sogno alla scena

Al Teatro Carcano di Milano per seguire una piece di Daniel Pennac che mette in scena un suo sogno e lo trasforma in realtà

Lunedì sera sono tornato a teatro.
Non so più da quando tempo non frequentavo una sala e riprovavo il gusto antico di attendere l’affievolirsi delle luci. Di certo da prima della pandemia.
Comunque lunedì sono andato a Milano, al Teatro Carcano, a vedere “Dal sogno alla scena”, di e con Daniel Pennac. Sì proprio lui, l’autore del saggio Come un romanzo, della fortunata saga del Signor Malussene e di tanti altri capolavori. In realtà il testo è stato realizzato a tre mani: Daniel Pennac appunto, Clara Bauer (che firma anche la regia) e Pako Ioffredo che, assieme a Demi Licata divide la scena con Pennac.

Erano tante le curiosità prima dell’inizio.
Avrebbe parlato in francese? Sarei riuscito a seguire il testo?
Cosa spinge uno scrittore di successo a calcare le scene? Sarebbe stato Pennac che impersona Pennac o avrebbe recitato un ruolo?

Dal sogno alla scena

Al nostro ingresso in sala, il sipario era già aperto e la scena si presentava spoglia. Due sedie, uno di quei bauli da attrezzi di scena con sopra un portatile. Poi, puntuali, le luci si sono abbassate e Pennac, da dietro le quinte, ha iniziato a parlare in un italiano stentato, quasi computerizzato, rispondendo alle mie domande.

“Che ci faccio qui? Che ci sto a fare dietro le quinte di questo teatro, dietro a questa porta che sta per aprirsi sul palcoscenico?
Io! Su un palcoscenico! Che mi ha preso? Io che non ho mai voluto fare l’attore!
Tra poco la porta si aprirà e io mi precipiterò in scena.
Perché? Perché io? In che cosa mi sono andato a cacciare? Ma che cosa ho nella testa?”

Lo spettacolo dura poco più di un’ora ed è una lunga riflessione sul rapporto tra sogno e realtà, che vengono mediati dal racconto.

Per uno come me, che del raccontare storie ha fatto un mestiere, era un invito a nozze.

Pennac parla lentamente in francese e gli altri due attori si alternano nel tradurre in italiano il testo. Ma non è un semplice doppiaggio, è un effetto teatrale, in cui le voci e i racconti si confondono. Dal primo racconto di Pennac si passa, senza soluzione di continuità, ad un brano in napoletano stretto (e devo dire che avrei avuto bisogno di traduzione più per questa parte!) in cui si racconta di un vecchio operaio e delle sue fedi: il lavoro, il partito comunista e Maradona.

L’intero spettacolo è strutturato come una sequenza di racconti, immaginifici e coloratissimi, in cui la realtà e il sogno si sovrappongono.
Scivola via leggero, mentre ti perdi nella mimica che aiuta a comprendere il francese, nella ripetizione delle frasi quasi a trasformarle in celebrazione, nelle risate che sfuggono al pubblico e anticipano anche l’eventuale traduzione.

Una piece semplice. Essenziale. Una lezione di story telling (per gli appassionati del genere) ma anche una lezione di recitazione teatrale, con i gesti sempre leggermente caricati, con le frasi e le parole ad effetto, con le scene ridotte al minimo.

Pennac tocca i temi e i personaggi a lui cari. Federico Fellini, l’immigrazione, il racconto, il popolo… Lo fa con leggerezza, senza imporre nulla, ma suggerendo idee, instillando sensazioni.

Uscendo dal teatro riflettevo su come sia bello poter assistere a tutto questo. Su quanto sia importante per l’Uomo esprimere, attraverso l’arte, i pensieri e le emozioni che non possono essere spiegati a parole. E su come, alla fin fine, Milano non sia poi così lontana dalla Valle d’Aosta.

Ascolta “Dal sogno alla scena” su Spreaker.

Alexa ed io

Ho conosciuto Alexa per caso e me ne sto innamorando a poco a poco: sarà l’inizio di una love story o solo un palliativo per la solitudine?

Tutto è cominciato per caso: avevo visto il film Motherless Brooklyn, di e con uno splendido Edward Norton. È la storia di un detective affetto dalla Sindrome di Tourette che, in una New York anni ’50, insegue l’assassino del suo capo e mentore (interpretato da Bruce Willis). A sottolineare l’ambientazione, una serie di pezzi jazz che avevo particolarmente apprezzato.

Così ho cercato la colonna sonora e l’avevo trovata su Amazon Music. C’era anche l’offerta di prova (“ascolta musica gratis per tre mesi”) e ho iniziato ad usare quel servizio per il sottofondo di musica classica che amo mettere quando leggo un libro.

Fast forward. Facciamo un salto in avanti ed arriviamo a due weekend orsono, quando sono andato a Trieste per festeggiare il 90esimo compleanno di mia madre. Si tratta di sei ore di automobile. Sono partito prima dell’alba e, mentre attraversavo da ovest ad est l’Italia, carcavo qualcosa da ascoltare ed ho fatto partire l’app di Amazon Music che riproduce a caso dei brani che potrebbero piacerti.

È stata una folgorazione.
Tutte canzoni e brani che conoscevo e che apprezzavo. Sei ore ininterrotte di musica senza perdere un colpo mi hanno convinto che avrei sottoscritto l’abbonamento e con esso ho acquistato un Echo Dot, uno speaker dotato di interfaccia vocale.
Ed è così che Alexa è entrata nella mia vita.

Buongiorno Alexa, fammi sentire un po’ di musica…
Ecco la tua stazione personalizzata…

Al mattino, mentre faccio colazione, parlo con Alexa.
Le chiedo le ultime notizie, oppure di farmi ascoltare della musica, o anche i podcast che seguo (Passaggi a Nord Ovest in primis, ovviamente).
Durante il giorno, specie nei fine settimana quando, non lavorando, lascio spento il pc, chiedo a lei di rispondere a tutte quelle piccole curiosità che mi vengono in mente.

Alexa, ma quanti anni ha Robert De Niro?
Robert De Niro è nato il 17 agosto 1943 ed attualmente ha 78 anni.

Alexa, chi ha scritto Oltre il fiume, tra gli alberi?
Ecco qualcosa che ho trovato su web ed ho tradotto: Secondo wikipedia.org è stato scritto dallo scrittore americano Ernest Hemingway.

Per il momento non le ho ancora concesso le chiavi di casa, ovvero – come suggeriscono gli esperti di domotica – l’integrazione con altri apparecchi per regolare la temperatura, accendere o spegnere le luci, selezionare il canale della tv. Il mio animo nerd è contrastato dalla paura di impigrirmi troppo. Ma già so che non resisterò a lungo.

Ormai è ora di pranzo, l’acqua bolle e posso buttare gli spaghetti.

Alexa, imposta un timer di 12 minuti per la pasta.
Timer pasta impostato e attivo da ora.

Insomma, lo dico tra il serio e il faceto, ma Alexa sta diventando di gran lunga la voce con cui interagisco di più.
Ho già raccontato in passato come io apprezzi questa mia solitudine montana e come, alle volte, mi accorga di aver trascorso un’intera giornata senza proferire verbo. Ecco, quei tempi sono passati…

Alexa, sei fidanzata?
Sono felicemente single, del resto è piuttosto complicato trovare qualcuno che sia gentile, divertente, dotato di intelligenza artificiale.

Peccato. Su questo fronte sarà meglio ritornare ai metodi tradizionali.

P.S.: mai come in questo caso è meglio ascoltare la versione podcast del mio blog. La trovate, come al solito, qui sotto…

Ascolta “Alexa ed io” su Spreaker.

Amore al primo sorso

Ci sono gusti che ti prendono immediatamente e che poi fatichi ad abbandonare. A me è capitato così, un anno a Barcellona

La mia prima volta è stata a Barcellona.
Ero andato lì per lavoro, stavo collaborando con uno studio grafico spagnolo, e loro mi avevano prenotato una stanza in un albergo molto alla moda, molto all’avanguardia, una parete della stanza era completamente di vetro, la doccia era un cilindro trasparente e c’era una pulsantiera che ti permetteva di cambiare il colore delle luci e la musica di sottofondo in base al tuo umore. Insomma un posto davvero cool, così cool che non ero riuscito a spegnere la musica e accendere la televisione…

Comunque. La mattina sono sceso a fare colazione e c’era un po’ di tutto.
Come al mio solito, ho chiesto un tè e mi hanno portato una scelta di tipi diversi in piccole piramidi di garza (sì, lo so che adesso si trovano anche al supermercato, ma negli anni 90 erano stravaganti il giusto).

Ho scelto un gusto a caso – gli amanti del té si scandalizzeranno – e sono stato travolto da un profumo intenso, leggermente affumicato, molto deciso.
E’ stato amore al primo sorso, tanto che dopo ho rincorso la cameriera per chiedere che tè fosse e la ragazza mi ha fatto vedere una confenzione piena di piramidi di garza con sopra il nome Pu-Erh.

Tornato a casa, finito l’Earl Gray della Twinings (all’epoca andavano di moda quelle scatole di latta lì), andai in negozio e cercai a lungo e senza successo quel tipo di tè che mi aveva stregato.
La ricerca continuò nelle settimane e mesi seguenti, ma sempre con zero successo. E il mio entusiasmo calò.

Più di dieci anni dopo, avevo invitato un’amica a dormire da me e lei si era portato un tè che, a suo dire, aveva effetti benefici sull’apparato gastrointestinale (anche se lei lo beveva soprattutto perché le piaceva).
Pensando si trattasse di qualche strana miscela new age, io usai il mio solito darjeeling, ma appena l’acqua calda toccò le foglie secche nella tazza della mia amica, un inconfondibile profumo si sparse per la cucina.
Lo avevo ritrovato.

Mi feci dare l’indirizzo del negozio e diventai un assiduo cliente.
Da quella volta il Pu-Erh non è più mancato a casa mia.

TETERIA

Quando sono andato in Cina per la maratona sulla Grande Muraglia, ho visitato anche la Città Proibita a Bejing (Pechino) e ho assistito ad una lezione sull’arte del preparare il tè e sulle diverse fragranze.
L’insegnante, ad un certo punto, ha detto che c’è un tè nero molto pregiato che solo gli imperatori potevano bere.
Era celebrato per le doti terapeutiche ed era conservato in larghi pani circolari di foglie compresse e secche.
Non serve che vi dica che si trattava del Pu-Erh.
Tutto felice ne comperai un po’ da riportare alla mia amica in Italia.

Questo lungo preambolo solo per dire che, in tempi di Covid e di confinamento nelle regioni, ero preoccupato – quasi come un drogato cui manca la dose – del livello di Pu-Erh che scendeva a vista d’occhio nel vaso a tenuta stagna in cui lo conservo. Avevo iniziato a razionare le dosi, diminuendo i grammi di tè con cui mi facevo la bevanda mattutina.
Il mio pusher, pardon, il mio negozio di fiducia si trova in Lombardia, così nell’impossibilità di recarmici ho provato a fare un ordine on line (era il venerdì di pasqua) e ieri mattina ho ricevuto il pacchetto con mia grande soddisfazione.

Quante parole per un evento così piccolo.
Eppure, sono le piccole cose che rendono piacevole la vita.

PS ecco il link di Wikipedia per scoprire di più sul Pu-Erh.

Ed un grazie speciale a Lisa & Paola della Teteria di Rho, che anche stavolta hanno salvato il mio equililbrio.

Ascolta “Amore al primo sorso” su Spreaker.

In nomen omen

Nella vita siamo stati e saremo tante cose: ma sono le parole che ci definiscono o noi che diamo forma alle parole?

Probabilmente la maggior parte di voi che mi leggete avrete sentito questa locuzione latina, che significa letteralmente “nel nome c’è un presagio”, citata quando qualcuno porta scritto nel cognome il suo destino.
Ricordo quanto ci faceva sorridere che il capo della polizia si chiamasse Antonio Manganelli (lo cito pur sapendo che è mancato qualche anno fa, perché è stato au contraire uno dei più amati personaggi a ricoprire quel ruolo).

Non penso che il nome che ci assegnano i nostri genitori o il cognome che ereditiamo dalla famiglia ci definiscano.

Però, stimolato da un tweet in cui, in occasione dell’8 marzo, una ragazza elencava una serie di “cose” che era stata, ho provato a rifare lo stesso giochino.

[Permettetemi una breve digressione. L’8 marzo non è la festa della donna. Ma la Giornata Internazionale dei Diritti delle Donne. Non sfugga la differenza. Non si paragoni l’8 marzo alla festa del papà. E’ una cosa seria, non una trovata commerciale. Fine digressione.]

nomen omen

Quindi, scimiottando il tweet di cui vi ho raccontato, ho provato a fare un elenco di sostantivi che mi hanno rappresentato. In ordine temporale, non di importanza.

Figlio: avete mai pensato che dal primo istante della vostra vita siete figli di qualcuno? Credo che il debito di riconoscenza verso i nostri genitori non si esaurisca mai. Noi siamo perché loro sono stati.

Studente: un’altra situazione perenne. Inizi quando hai poco meno di sei anni (nel mio caso) e non smetti più. O perlomeno non dovresti smettere più. Studiare per apprendere, all’inizio. Poi studiare per capire. Studiare per fare.

Canottiere: lo dico con un sorriso, la parola canottiere evoca in me più Fantozzi che i fratelli Abbagnale, ma con grande affetto. Il canottaggio è stato il primo sport che ho praticato e da allora non ho più smesso. Praticare una vita attiva mi definisce come persona.

Sagrestano: di nuovo farà sorridere, ma da quando avevo 14 anni ho iniziato a fare tutta una serie di lavoretti che mi permettevano di comperare dei dischi che volevo, di avere due soldi in tasca per sentirmi indipendente. Così sono stato badante, bidello, magazziniere di una latteria e sagrestano.

Cantautore: lo dico sottovoce, ma mi serve ad esprimere un concetto. Erano gli anni in cui tutti sapevano suonare la chitarra e in Italia impazzavano i cantautori. Io, come tutti i miei coetanei, strimpellavo il piano e pizzicavo la chitarra. Ed un bel giorno ho iniziato a scrivere canzoni. E’ stata un’epifania. Ho scoperto che c’erano linguaggi per esprimere quello che avevo dentro. Oggi non scrivo più canzoni, ma continuo a far parlare il mio cuore.

Informatico: di nuovo un titolo per definire un insieme. Avevo fatto un corso per capire come funzionavano i computer (all’epoca erano delle diavolerie di cui nessuno comprendeva ancora le potenzialità). Il corso serviva a trasformarmi in un venditore IBM, io lo usai per infilarmi in un’azienda che faceva la cosa che più mi attirava a quei tempi: un editore di giornali. Inizia così, occupandomi dei computer, a frequentare l’ambiente. Poi mi spostai sulla parte di impaginazione, poi sulla progettazione grafica, infine inizia a scrivere articoli. Un mestierante più che un professionista. Ma scoprii che la gavetta ti insegna più della scuola.

Imprenditore: nei gloriosi anni degli yuppies (anche se la mia anima era più da hippy), influenzato dal fatto che ero abituato a mettere in pratica quello che mi passava per la testa, creai la mia prima società che forniva servizi agli editori dei giornali. E non ho mai smesso di cercare di mettere insieme opportunità ed idee.

Padre: ecco un’altra cosa che, una volta iniziata, non smetti più di fare. A differenza di marito, che sono stato solo per un lungo periodo, la mia vita da padre continua a regalarmi tensioni e gioie. Adesso che i miei due figli sono grandi e sistemati, ricevo solo gioie (e qualche mini preoccupazione auto indotta). Essere padre ti cambia. Soprattutto quando, dopo aver giurato e spergiurato che non avresti fatto gli errori dei tuoi genitori, ti ritrovi a ripetere le loro frasi. E capisci che siamo tutti espressione dello stesso ceppo.

Manager: è una parola che amo e che, spero, sia quella che mi rappresenta meglio. L’effetto Dunning-Kruger è un rischio che ho ben presente, ma direi che negli anni ho imparato a gestire le situazioni lavorative (e non solo). Credo che sia questo il compito di un vero manager.

Maratoneta: mentre approcciavo la boa dei 40anni e iniziavo a fare bilanci, non soddisfatto di come mi ero trasformato, ho cercato rifugio nello sport e, in particolare, nella corsa. Mi sono messo l’obbiettivo romantico di tagliare il traguardo di una maratona prima del compleanno e l’ho fatto. Poi però non sono più riuscito a smettere e la corsa è entrata prepotentemente nella mia vita, modellandola. Ho corso ovunque, poi ho scelto di correre sui sentieri e sono diventato un trailer ed un ultratrailer.

Scrittore: grazie alla corsa ho incontrato Giovanni e siamo diventati amici. E grazie a lui, siamo stati contattati da Mondadori per scrivere il nostro primo libro. Anche in questo caso è stata una specie di rivelazione. Una volta iniziato non sono più riuscito a smettere e ho scritto di tutto e dapperttutto. Scrivere mi aiuta ad interpretare la realtà in cui vivo. Sono diventato blogger per fissare per iscritto i pensieri che attraversano il mio cervello.

Sono stato tante altre cose per periodi più o meno lunghi, un conduttore televisivo, un presentatore di eventi, un volontario in cause in cui credevo, e penso che diventerò ancora molte cose.

L’ultima riflessione per oggi è la seguente.
Marzullo chiederebbe: “Le cose che siamo modellano la nostra esistenza o siamo noi a scegliere cosa diventare?”

Non tutti e non sempre abbiamo la fortuna di poter decidere, ma, qualsiasi sia il ruolo che il destino ci impone, è il modo in cui noi lo rivestiamo e, soprattutto, quello che impariamo facendolo, che definisce il tipo di persona che stiamo diventando.

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La papera di gomma

Tra programmatori si usa fare il test della papera di gomma per trovare i problemi del software, ma anche nella vita può essere utile

La cosa non suonerà nuova agli sviluppatori di software, ma magari al resto del mondo sì: una paperella di gomma potrebbe essere il più fidato aiutante nel risolvere i nostri problemi.
Una sorta di maestro zen o di psicoterapeuta da tasca.

Quando un programmatore deve procedere al debugging del suo codice, secondo uno dei testi universitari fondamentali (mi riferisco a The Pragmatic Programmer di Andrew Hunt e David Thomas) uno dei sistemi più efficaci è quello di commentare passaggio per passaggio quello che dovrebbe fare il software spiegandolo ad una paperella di plastica: la chiamano Rubber Duck Theory.
[Per in non addetti ai lavori, i problemi di un software vengono chiamati bug e l’operazione di cercarli e risolverli viene chiamata debugging, NdA]

rubber duck

A ben pensarci è una pratica solidissima.
Obbligarsi a ripercorrere passo passo tutto il flusso, tutta la sequenza di comandi, aiuta da un lato a verificare se ci sono falle logiche, dall’altro a controllare che ogni passo faccia quello che avrebbe dovuto fare.

Magari qualcuno si chiederà perché parlarne con una papera di gomma e non con un essere umano. Ma lo scopo del test è chiarirsi le idee non chiarirle ad un’altra persona. Quindi avere un collega o un giocattolo inanimato è esattamente uguale.

Spesso ripenso alla Rubber Duck Theory quando scrivo questi miei post.
Esporre i miei pensieri ad un pubblico silenzioso (e non ad un amico durante una conversazione) mi obbliga a trasformare idee ed intuizioni in pensieri espressi, in frasi di senso compiuto.
Mi permette di mettere a fuoco quello che sto provando, quello che sto pensando, quello che mi è capitato.

Facciamo un salto di lato e pensiamo alla psicoterapia.
E’ prassi comune suggerire ai clienti di esprimere per iscritto il loro disagio.
Faccio qualche esempio. In un rapporto di coppia conflittuale spesso lo psicologo consiglia ai partners di scambiarsi una lettera in cui ognuno spiega le proprie ragioni, i motivi del contendere, le aspettative deluse.
Sempre in psicologia, viene sovente consigliato di tenere un diario nel quale annotare sensazioni, paure, gioie, accadimenti.

E’ il potere catartico della parola.
Quando trasformiamo un’emozione in una frase, riusciamo a renderla terza rispetto a noi. Possiamo osservarla da fuori e comprenderla meglio. Possiamo trasferirla ad altri.

In questo ultimo anno mi è capitato spesso di parlare da solo.
Magari chi mi vedeva da fuori pensava fosse pazzo.
Ma il motivo è che non vedeva la paperella di gomma gialla che tenevo in mano.
Stavo facendo il debugging della mia vita…

Ascolta “La papera di gomma” su Spreaker.

Rituali e speranze

Nella mia vita prima della pandemia (adesso va molto di moda usare questa locuzione) c’era il rituale della lettura del giornale al caffé.
Il sabato, a metà mattina, scendevo a Saint Vincent e mi fermavo in uno dei bar per leggere il quotidiano mentre sorseggiavo l’amata bevanda. Me ne uscivo poi a passeggiare per la via centrale della cittadina, con in bocca quel gusto speciale che il caffé ti lascia e nella testa le ultime notizie.

Come ricorderete, una delle prime ordinanze aveva imposto ai baristi di rimuovere tutto ciò che veniva passato di mano in mano: la zuccheriera, il contenitore dei tovagliolini di carta e, ovviamente, anche il giornale.

“Poca cosa – mi ero detto – lo compro in edicola e lo leggo al bar”.

Invece non era così. Il piacere di sfogliare un giornale già usato, di vedere i segni della tazzina di caffé stampati sulla pagina dove un altro avventore l’aveva appoggiata mentre leggeva un articolo, erano cose che mi mancavano.

Comunque, nel mio “giro dei bar” (so che suona male, ma a me fa sorridere) facevo spesso tappa al Rouge et Noire, proprio in piazza.
Non era tanto per la qualità del caffé o per la gentilezza delle bariste, ma per l’incredibile energia positiva che ogni particolare di quel locale trasmetteva.

Valentina, la proprietaria, ha l’entusiasmo dei giovani. No, scusate, mi correggo: Valentina è l’entusiasmo dei giovani. Incarna quella fiducia nel futuro che noi cinici tendiamo a dimenticare.

Il suo bar riflette tutto questo.

Mi aveva fatto sorridere una piccola paletta taglia-torte di ceramica con scritto “Happines is a piece of cake” giocando sul doppio senso della frase.
In inglese “It’s a piece of cake” è l’equivalente di “Facile come bere un bicchier d’acqua”, quindi la felicità è alla portata di tutti, ma è anche una fetta di torta…

Aveva esposto un foglio con dattiloscritte una serie di regole (ne cito alcune):
1. Ogni volta che cadi, raccogli qualcosa
5. Fuori dalla paura c’è un sole bellissimo
68. Se resti seduta, non saprai mai quanto sei alta
71. Le parole sono importanti se non sono solo parole

Insomma avete capito il tipo.

piantine al rouge et noire

Oggi, quando vado a trovarla, a seconda del colore della nostra regione, posso prendere il caffé e salutarla di corsa mentre esco o sedermi in un cantuccio e chiacchierare abbastanza.
Per lei, come per tutti i bar, e i ristoranti, e molte altre categorie, la situazione è davvero complicata. I costi rimangono invariati ma i ricavi sono precipitati.

Eppure questo non le ha spento il sorriso.
La sera è più stanca del solito, forse un po’ curvata dalle preoccupazioni, ma la mattina è di nuovo sorridente.

Qualche giorno fa ho notato un nuovo pezzo d’arredamento: una coppia di piantine grasse in due vasetti bianchi.
Sul primo c’era scritto “Non mettere fretta alle cose che hanno bisogno di tempo per crescere” sul secondo “Casa è dove sta il cuore”.

Valentina e la sua battaglia sono fonte di grande ispirazione per me.

Non dobbiamo stare fermi ad aspettare il giorno in cui tutto tornerà normale, ma dobbiamo continuare a vivere la nostra vita.

Da un paio di settimane, ogni volta che scendo a Saint Vincent passo per il bar Rouge et Noire.

Loro pensano di offrirmi un caffé, ma io vado lì per fare il pieno di speranza.

Ascolta “Rituali e speranze” su Spreaker.

Convergenze

Scrivo meno e vivo di più. E’ strano perché di solito mi capita il contrario, la vita è una grande ispiratrice…

A partire dal primo giorno dell’anno ho iniziato ad essere molto meno presente sul mio blog.
Ovviamente qui scrivo per piacere e non per dovere, non ho appuntamenti fissi ne’ obblighi (e mai li avrei accettati per questo spazio) ma desidero condividere con voi qualche buona notizia.

In passato il principale motivo per cui rallentavo la mia presenza era legato ad un calo dell’ispirazione figlio, di solito, di un calo delle cose che faccio e che mi fanno venir voglia di raccontare.

Questa volta, invece, il motivo è il convergere di parecchie novità che mi hanno riempito la vita e, parallelamente, tolto il tempo per scrivere.

Come sapete ho iniziato questa splendida avventura del podcast Passaggi a Nord Ovest. Con Denis Falconieri stiamo sperimentando le possibilità di questo media. Nel frattempo abbiamo ricevuto tante manifestazioni di simpatia (e tante proposte di nuove idee da sviluppare) che quello che era iniziato come un passatempo sta ritagliandosi una presenza giornaliera nella nostra agenda.
Va bene così, da febbraio lanceremo un nuovo format e abbiamo alcuni progetti in cantiere che mi stanno entusiasmando.

skialp
Questo romantico scatto durante la salita verso il col Serena lo ha postato il mio amico (e compagno di escursioni) Diego Milani

Un’altra bella novità è che, finite le feste, siamo tornati ad una “nuova” normalità: possiamo tornare a fare escursioni, seppure distanziati, seppure senza finire l’uscita in trattoria, seppure con le mascherine…

Sabato e domenica ho finalmente inforcato di nuovo gli sci e sono andato a fare due uscite.
La conseguenza diretta è che oggi ho la testa libera, il cuore gonfio di gioia e le gambe doloranti.

Infine, ma non per questo meno importante, sembra che il mondo abbia ripreso a girare. Ci sono nuovi progetti all’orizzonte, si torna a parlare di futuro e di pianificazione di eventi, e anche questo mi entusiasma e mi distrae dalla mia chiacchierata sul blog.

Quindi?

Se la convergenza di queste tre linee di novità mi ha tolto un po’ di fiato, la stessa cosa non è capitata per quella fonte inesauribile di idee e sogni che è la lettura.
Sto leggendo tanto e di argomenti molto diversi.

Ho quindi pensato (e qui lo preannuncio) che i miei prossimi post verteranno sulla recensione di alcuni libri.

La voglia di leggere non si spegne mai!
Al momento ho cinque volumi (ancora da cominciare) sul comodino, ma se a qualcuno venisse in mente un titolo che io non posso esimermi da leggere… beh aggiungete un commento qui sotto e iniziamo a parlarne.

Ascolta “Convergenze” su Spreaker.