112 una storia vera

112, where are u, è un’app per le emergenze, utilissima ma sconosciuta. Proviamo a capire come funziona e perché nessuno la conosce

Di solito si dice: “I fatti e i personaggi narrati in questo film sono inventati”, beh in questo caso, invece, è tutto vero ed è una storia che mi ha fatto riflettere.
L’estate scorsa stavo passeggiando con degli amici lungo il ru Courtod in val d’Ayas. Camminavamo e chiacchieravamo del più e del meno, dei nostri lavori, delle gite che ci piacerebbe fare, delle nuove tecnologie applicate al trekking. E proprio a questo punto, Paolo se ne venne fuori con un’app di cui non avevo mai sentito parlare.

Qui è necessario fare una premessa. Il Paolo di cui sto parlando è Paolo Guarnaschelli, istruttore BLSD (che per chi non lo sapesse sono le tecniche di primo soccorso e defibrillazione) e fondatore della FoUr, una società che si occupa di diffondere la cultura del soccorso tramite la formazione all’interno delle aziende (FoUr, infatti, sta per Formazione Urgenze). Quindi uno che sa di cosa parla.

Bene, esiste un’app che si chiama 112 Where Are U, sviluppata in origine dall’Agenzia Regionale dell’Emergenza Urgenza della Lombardia, ma oggi funzionante in tutti le regioni dove funziona il NUE, il Numero Unico Emergenze, quello che sostituisce il 113 per i Carabinieri, il 115 per i Vigili del Fuoco, il 118 per la Sanità ecc. Insomma la versione europea del 911 che siamo abituati a vedere nei film.

Come funziona? Semplicissimo.

Installate gratuitamente l’app sul vostro smart phone e vi registrate. L’app vi geolocalizza, quindi sa sempre dove vi trovate, e se ne sta lì buona in attesa di esservi utile.

112 where are u

In caso di emergenza attivate l’app e cliccate sul tasto in basso selezionando di che tipo di emergenza si tratta (sanitaria, incendio, crimine) e l’app chiama direttamente il numero unico di emergenza più vicino, segnalando chi siete e dove siete. Esistono tre tipi di chiamata: normale, muta e per non udenti. La prima è quella che ho descritto e che vi fa parlare con un operatore. La seconda, muta, si adopera quando c’è un pericolo in corso (ad esempio una rapina, un’aggressione ecc), la terza è dedicata ai sordomuti (scommetto che nessuno ha mai pensato alla difficoltà per un sordo o un muto ad effettuare una chiamata di soccorso!)

In questo modo si sono risolti tutta una serie di problemi.

Chi è in pericolo e chiama, spesso è confuso o spaventato e dare informazioni anche semplici tipo chi è o dove si trova può essere un problema.

Il numero unico risolve il problema di ricordarsi chi chiamare e anche il problema di agganciare il centro soccorso più vicino.

Infine, risolve il problema di chiamare quando si è in montagna e non si sa dire esattamente dove ci si trova. Poi io ho detto montagna, ma a volte è difficile dire dove ci si trova anche se si è nel Grande Raccordo Anulare di Roma o in tangenziale a Milano…

L’app mi era piaciuta moltissimo e mi ero stupito che, nonostante fosse uscita molti anni fa, ancora nessuno ne aveva parlato. Nei  giorni successivi l’ho raccontato ad amici e colleghi, sollecitando l’installazione e la diffusione del messaggio.

Paolo, sorridendo, mi aveva dato due ultimi consigli: “Mettila nella prima schermata del telefono, così la trovi subito. E poi non chiamarla Centododici, ma Uno Uno Due.” E alle mie rimostranze mi ha spiegato che era capitato sovente che nella concitazione dell’emergenza quando si diceva di chiamare il centododici la persona digitasse 1,0,0,1,2… ricevendo in risposta il classico “Il numero chiamato non esiste”.

Bene, che senso ha questa storia?

Il primo è: andate su Apple Store o Google Play Store, scaricate l’app e registratevi. Sperando di non doverla mai usare.

Il secondo, invece, è una riflessione legata al mio mondo, quello della comunicazione.

È possibile che un’app utilissima e gratuita sia sconosciuta?

Se cercate su Google troverete alcuni articoli che sono usciti, ma non è mai stata fatta una campagna di comunicazione adeguata. Penso alle pubblicità progresso, quelle istituzionali, ai video che si vedono in televisione e su web. Possibile che in così pochi la conoscono?

La lezione da imparare qui è che non basta avere una grande idea, bisogna saperla spiegare bene e, soprattutto, farla arrivare al pubblico cui è destinata.

E la seconda lezione è in quel 1-1-2 che sostituisce il CentoDodici.

A volte basta cambiare appena qualche parola per evitare che il messaggio venga frainteso.

Ascolta “112 – Una storia vera” su Spreaker.

Revolution in progress

Le Big Tech hanno iniziato a muoversi e a cambiare il loro approccio al mercato. Un’occasione unica per noi utenti di ripensare a ciò che vogliamo

In Inglese suona meglio che in Italiano: Revolution in progress (cioè Rivoluzione in corso), sembra quasi un ossimoro, con quel “in progress” che richiama alla mente i cantieri dove si costruisce e “revolution” che invece suggerisce distruzione e sovvertimento delle regole. Eppure mi sembra il titolo più adatto all’argomento di cui vi voglio parlare.

A parte il fatto che la primavera è iniziata, nell’aria si percepiscono i sentori di un grande cambiamento.

Parlo delle Big Tech, le grandi società tecnologiche che dettano leggi nel mondo come solo le religioni hanno fatto in passato (e cercano di fare ancora).

GOOGLE ti impone le sue regole se vuoi farti trovare. Forse è evidente solo per gli addetti ai lavori, ma seguitemi un momento. Ciò che capita è che ormai Google è diventato l’elenco telefonico del web, se Google non ti trova allora significa che tu non esisti. Così la grande G può decidere il modo in cui vengono fatti i siti, il modo in cui vengono scritti i titoli degli articoli, la lunghezza dei testi e via dicendo. Tecnicamente sono le regole di ottimizzazione del SEO, Search Engine Optimization. Chiaramente non è obbligatorio seguirle, ma se non ti adatti nessuno ti troverà e tu sparirai nell’oblio.

Un altro esempio è META, la società di Mark Zuckerberg che è proprietaria di FaceBook, di Instagram e di What’sApp. Nelle scorse settimane si è molto parlato dello scontro con la SIAE, il monopolista italiano per la gestione dei diritti d’autore. Anche qui è una discussione tecnica. SIAE e META stavano trattando un prezzo forfait per le canzoni usate su Instagram (le colonne sonore delle stories e dei reels che pubblichiamo noi tutti) e META, visto che non si raggiungeva un accordo e che il precedente era scaduto a fine 2022, ha semplicemente rimosso tutte le musiche italiane dai post presenti nella sua piattaforma. Azione ineccepibile sia formalmente che strategicamente, ma gli utenti si sono trovati milioni di post silenziosi.

AMAZON, che con Prime è entrata prepotentemente nel mondo dello streaming tv, sta cambiando l’interfaccia in modo da spingere sempre di più a sottoscrivere abbonamenti anche su altre piattaforme (Now Tv, Infinity, Disney Channel ecc).

E di esempi come questi ce ne sono una moltitudine. Ma perché sta accadendo tutto cio?

Bisogna osservare il quadro generale. La pandemia è stata un fattore di crescita incredibile per queste società. In assenza di contatti sociali ripiegavamo sui social. Non potendo acquistare in negozio, comperavamo on line.

I fatturati delle Big Tech sono schizzati alle stelle. Hanno assunto sempre più persone per gestire la crescita di richieste. Ma oggi, post Covid, accusano una flessione significativa. Stiamo tornando alla realtà.

La finanza è una creatura bulimica: gli utili di un anno devono essere confermati se non aumentati l’anno successivo. Così i consigli di amministrazione sono corsi ai ripari, devono tagliare i costi (che significa licenziare migliaia di persone) e cercare altrove nuovi fatturati.

Immorale? Beh, direi proprio di no. Decidere la strategia è un diritto pieno di ogni azienda. Noi utenti siamo come gli ospiti non paganti di un albergo di lusso. Eravamo abituati ad abbondanti colazioni a qualsiasi ora, e adesso che ci offrono di meno e solo a certi orari non possiamo certo lamentarci.

laocoonte

Virgilio, nell’Eneide, fa dire a Laocoonte mentre i Troiani sulla spiaggia festeggiano l’apparente partenza dei nemici “Timeo Danaes et dona ferentes”, “Temo i Greci anche quando portano doni”. I Troiani non gli diedero ascolto, portarono il grande cavallo di legno all’interno della città, e tutti sappiamo com’è andata a finire.

Una regola di saggezza è diffidare sempre di regali immotivati. È chiaro che qualcuno deve pagare per quello che ci viene offerto.
Nel bel film “Social Dilemma” il concetto è spiegato con una frase iconica: “Se non paghi, il prodotto sei tu”

Quindi non possiamo lamentarci, ma abbiamo altre possibilità.
Possiamo ridurre la presenza sui social, possiamo decidere di pagare per non soggiacere ad un ambiente tossico.

Utopia? Io non credo, anzi, sembra stia già accadendo.

Io amavo e frequentavo Twitter: 130 caratteri per esprimere un pensiero erano una sfida all’intelligenza. Mi piaceva il clima ironico, l’ambiente multiculturale. Poi, un po’ alla volta, si è ridotto ad un club per nostalgici autoreferenti. Lo frequento ancora, ma con sempre meno passione.

FaceBook ormai è quasi deserto, popolato solo di pubblicità e contenuti a pagamento, sembra ReteQuattro d’estate, con gli stessi vecchi film. Persino Instagram inizia a mostrare i segni dell’invecchiamento.

Le Big Tech, come dicevo, hanno annusato l’aria e si preparano a cambiare.

Ed ogni cambiamento, in fondo, è una rivoluzione.

Noi restiamo alla finestra e proviamo a capire dove sia meglio dirigerci… tenendo a cuore il consiglio di Laocoonte e provando a ragionare su cosa veramente ci convenga fare…

Ascolta “Revolution in progress” su Spreaker.

Una proposta per la Crusca…

Una modesta proposta per integrare il dizionario della lingua italiana con parole che aiutino a districarsi nella giungla dei podcast

Ci sono parole generiche che definiscono un’intera categoria, ma che non vengono poi usate per definire i particolari. Per i podcast non è così.
Mi spiego meglio. Se al ristorante ci propongono un primo piatto, il 99% di noi chiederà maggiori spiegazioni: è una pasta? un risotto? una zuppa? una lasagna? e via dicendo. E la prima risposta non sarà ancora suffciente, vorremo dettagli sul tipo di pasta, sul condimento, sulla preparazione…

Questo approccio, che sicuramente condividete, mi porta alla mia battaglia personale con la nostra lingua: quando parlo di podcast non posso essere preciso.

Dire podcast non basta!

Podcast è un termine generico che definisce a malapena la categoria generale.

Nell’accezione comune, un podcast è un file audio che puoi ascoltare collegandoti ad internet. Deriva direttamente dal concetto di webcast (che individua programmi audiovisivi diffusi via web) e si riferiva, in origine, a programmi creati per la radio e diffusi anche via internet.

Ma oggi podcast indica tutto: è sia l’audio manuale di una lavatrice che la replica di un programma radiofonico, sia la registrazione di una conferenza che un radio dramma interpretato da attori meritevoli dell’Oscar.

E badate bene che non si tratta di pigrizia di chi espone, ma di una vera e propria mancanza della lingua italiana.

[Ho fatto un po’ di ricerche e sembra che lo stesso problema esista nelle altre lingue NdR]

Proviamo a fare chiarezza.

Professione podcaster

Nella concezione attuale, la prima grande divisione è tra podcast originali e repliche. I primi sono concepiti per essere fruiti in un podcast strictu sensu, i secondi sono riutilizzi di contenuti creati per altri scopi (programmi tv e radio, conferenze, eventi live, lezioni, libri ecc).

La differenza non sta tanto nell’originalità del contenuto (un programma radiofonico o un libro nella maggior parte dei casi sono originali), ma sul fatto che si tratti di contenuti pensati fin dall’inizio per essere fruiti via podcast.

E proprio qui è il problema: “podcast” è un modo di usufruire i contenuti, non i contenuti stessi.

Una commedia scritta per il teatro può essere ripresa e guardata in televisione, ma non è paragonabile ad una sit com pensata e realizzata per la tv.

Analogamente, un programma pensato per essere trasmesso alla radio non è paragonabile ad un testo pensato per il podcast.

Oggi viviamo nella giungla.
Chi produce podcast autoriali si trova nello stesso gruppo di chi usa i podcast per raggiungere gli ascoltatori che non erano presenti live. Si tratta sicuramente di uno scopo meritevole (io stesso fruisco di programmi quando ne ho voglia senza essere obbligato ad ascoltare la radio quando non ho tempo), ma aumenta la confusione.

A mio avviso, bisognerebbe che noi podcaster iniziassimo a usare un nuovo nome per la nostra attività, un nome che definisca quello che facciamo.

Ed ecco quindi, la mia umile proposta.
Mutuando la logica di radio show o tv show, potremmo usare:

  • pod show per i podcast di tipo talk
  • pod drama per i podcast di tipo narrativo
  • pod reportage per i podcast di tipo giornalistico o inchiesta
  • pod tutorial per le guide e i manuali
  • pod map per le guide geolocalizzate di tipo turistico
  • pod series per le serie podcast
  • pod news per la cronaca e le notizie
  • pod stories per i podcast che descrivono i personaggi

Insomma avete capito cosa intendo: aggiungere il prefisso pod che identifichi il media ad un termine che identifichi il genere.

Sarebbe un inizio. Piccolo ma importante. Perché, noi che viviamo di parole, sappiamo come la precisione del linguaggio aiuti a dissipare la confusione delle idee.

Ed ecco, come al solito, la versione “ascoltabile” di questo articolo:
Ascolta “Una proposta per la Crusca” su Spreaker.

Sogni e social

I social sono diventati parte del nostro mondo. Dobbiamo quindi impegnarci a renderli meno inquinati di polemiche sterili e pretestuose

In questi ultimi mesi ho notato che FaceBook (insieme ad Instagram, visto che sono entrambi di proprietà della stessa società) ma anche Twitter, recentemente acquistato da Elon Musk, hanno alzato il volume del rumore di fondo.

Se prima vedevo i post delle persone che seguivo e ogni tanto un annuncio pubblicitario (anche quello personalizzato, nel senso che parla di cose che ho cercato precedentemente su web), adesso vedo un numero maggiore di annunci e un numero spropositato di post facenti parti di gruppi che sono vicini agli argomenti di mio interesse (nel mio caso montagna, scrittura, libri, corsa ecc.)

Credo sia dovuto al calo di interazioni operate dalle persone.

Prima c’erano, ad esempio, sette/otto post originali di persone, due/tre rilanci di notizie da giornali o altri siti, un post di pubblicità e si ricominciava. Adesso le persone “normali” non postano quasi nulla, se non auguri di compleanno e panorami di vecchie gite; i giornali postano praticamente tutte le loro notizie (salvo poi chiederti di abbonarti se ci clicchi sopra), generando tra l’altro un sacco di rilanci con o senza commento da parte di persone normali; la pubblicità targhettizzata (sì lo so, qualcuno lo scrive senza h) è presente in modo massivo, ben superiore agli altri post.

E poi si lamentano se nessuno va più sui social… un po’ come la tv privata, un po’ di pubblicità va bene, ma poi preferisci pagare un canone a Netflix, Sky, Prime, EuroSport ecc e guardare solo quello che ti interessa. Ma questo è un altro discorso.

Bene, in questo rumore di sottofondo, gli unici post che continuano imperterriti ad arrivare sulla mia bacheca sono quelli polemici.

influencer

Mi piace la montagna?
È più probabile che veda un post cretino che paragona gli influencer di oggi a Messner e Bonatti che una notizia vera di qualche scalata.
È più probabile che di Alessandro Filippini, storico dell’alpinismo, esperto di Terre Alte e giornalista della Gazzetta dello Sport, mi arrivi la polemica contro le bandiere di Zani di Linea Bianca piantate su un 4000 che la segnalazione di un successo o di un fallimento himalayano.

Un problema dell’algoritmo? Decisamente no.
Il software mi propone le notizie che sono state più cliccate dalle persone che fanno parte della mia community (amici, altri membri di gruppi simili, persone con gli stessi interessi). FaceBook non sbaglia, è una cartina tornasole del livello dei frequentatori di FaceBook.

Quindi il vero problema sono le persone?

Qui spezzo una lancia per l’umanità: non siamo tutti cretini. O per lo meno, non lo siamo tutto il tempo. Quando navighiamo i social tendiamo a regredire verso l’uomo primitivo. Un po’ come succede quando sei in coda nel traffico. Oppure quando fai il tifo allo stadio.

Che senso ha pubblicare un post che si scaglia con ferocia contro una cosa che tutti sappiamo essere negativa?

“Basta con l’abbandono dei cani in autostrada!”

Lo pubblichi perché pensi di convincere chi sta per lasciare il vecchio Fido legato al guardrail o solo perché hai bisogno del coro di consensi che ti fa sentire un piccolo leader? (o magari meno solo?)

Eppure dovrebbe essere chiaro a tutti che lanciarsi in campagne su temi largamente condivisi, riaffermare i luoghi comuni, allinearsi al pensiero main stream senza contribuire in qualche modo, è inutile, se non persino dannoso quando eleva il livello della polemica, della rabbia.

È un po’ come quando, alzandoci la mattina, ci troviamo in testa i residui emotivi della notte. Possiamo essere spaventati, addolorati, rabbiosi perché qualcuno in un sogno ci ha minacciati, ci ha lasciati, ci ha trattati male. E ci resta una traccia di emozione contro quella persona.

Ma siamo stati noi stessi a creare il sogno. Non l’altro.
E siamo quindi noi a doverci liberare del sogno, dell’emozione residua, a svegliarci del tutto insomma.

Ecco quindi il mio pensiero mattutino: quando navighiamo i social, proviamo a svegliarci un po’. Impariamo a riconoscere le polemiche sterili dai problemi concreti. E soprattutto i fatti dalle rumorose esternazioni da essi provocati.

È un esercizio di ecologia sociale.

Un po’ come quando buttiamo la carta nel cestino e non per terra.
I social sono parte dell’ambiente in cui viviamo.

Facciamolo per noi stessi, quindi, per restare saldamente al comando delle nostre idee. Ma facciamolo anche per i social, per riportarli a quel livello iniziale che li ha resi parte integrante delle nostre vite. Un luogo di cazzeggio e spensieratezza, un luogo di ritrovo in attesa di trovarsi al bar, in palestra, al lavoro.

Ascolta “Sogni & Social” su Spreaker.