Avevo sentito parlare talmente tanto di Pinketts che covavo la curiosità di leggerne un romanzo da lungo tempo. L’occasione è stata un viaggio a Perugia, ero senza libri a portata di mano e ho trovato abbandonata una vecchia copia di “Il senso della frase”. Detto fatto, presa e letta mentre in treno scendevo in Umbria.
Diciamo che mi ha messo in guardia una frase di Fernanda Pivano sulla quarta di copertina, che osannava la scrittura di questo giovane autore. Non il romanzo, proprio la scrittura.
Ed in effetti è la cosa che ti colpisce come un pugno in faccia dalla prima all’ultima riga.
Andrea G. Pinketts scrive con un linguaggio rutilante, denso di giochi di parole, di salti logici che mi hanno ricordato un po’ Bergonzoni. E’ talmente affascinante questo suo gioco da rendere difficile seguire, anche solo intravedere, la trama. E questo, per un giallo, è un po’ un problema.
Poi ci sono i personaggi. Immaginifici, spettacolari, caratteristici, esagerati. Ognuno di loro è una storia nella storia. Funzionali al progetto, ma degni da soli, di prendersi la ribalta.
E’ un caleidoscopio surreale, in cui il protagonista, Lazzaro Santandrea, si muove disinvolto e garantisce attraverso la sua voce, quel minimo di coerenza narrativa che alla fine porta alla soluzione del caso.
La lettura, una volta abituati allo stile, è piacevole anche se – a fine libro – ti gira un po’ la testa.
A conti fatti darei al libro tre stelle piene su cinque, ma credo che non leggerò altri libri di Piniketts, almeno per un po’.
Il senso della frase
Andrea G. Pinketts
Universale Economica Feltrinelli