Ho frequentato un liceo scientifico sperimentale. Stiamo parlando di molti anni fa, erano i primi tentativi di creare una scuola che fornisse una cultura trasversale, che abituasse gli studenti a trovare i collegamenti tra le materie. Così il professore di storia dell’arte, quando ci spiegò i diversi tipi di architettura e, in particolare di arco, ricorse alla professoressa di fisica per farci capire come lavorasse la gravità e come gli antichi costruttori avessero padroneggiato con maestria forze che non conoscevano.
Ricordo in particolare il mio stupore quando appresi il ruolo della “chiave di volta” quella pietra scolpita in modo diverso dalle altre che non solo rappresenta l’ornamento al centro dell’arco ma che sostiene tutta la costruzione.
Adesso non mi occupo più di arte ma di informatica, dove esiste un altro concetto interessante. Quando si progettano sistemi complessi che devono restare sempre attivi (immaginate i siti web, ad esempio) si cercano e si limitano i single points of failure, cioé quelle funzioni o quegli apparati che, se smettono di funzionare, provocano la caduta del sistema.
Durante una lunga escursione dello scorso fine settimana, ho mutuato i due concetti appena esposti pensando alle nostre esistenze.
In psicologia si parla spesso di “stampelle” riferendosi al bisogno cha ha una persona di un sostegno esterno. Un esempio classico è la ricerca spasmodica dell’apprezzamento sui social (i famosi like) che è la versione digitale della necessità di ricevere approvazione per ciò che si fa.
Queste “stampelle” creano dipendenza.
Un altro caso interessante è l’uso smodato dei meccanismi di premio. “Se porti un bel voto nella verifica, ti regalo 10 euro”
Un sistema educativo basato sulla “retribuzione” si dimostra fallace sulla lunga distanza. Induce a pensare che una cosa è importante per quello che se ne ricava e non per la cosa stessa. Inoltre crea dipendenza da stimoli esterni all’individuo.
Io mi ritengo una persona equilibrata, raramente faccio uso di stampelle psicologiche, eppure – nella camminata di cui sopra – mi sono reso conto che ho corso un rischio ben maggiore. Ho creato un single point of failure, ho costruito la mia vita appoggiandola ad una chiave di volta sulla quale non avevo controllo, e ho rischiato di vederla andare a pezzi.
Non sono pronto a mettere in piazza una cosa così intima, e magari non interessa neppure alla maggior parte di voi, ma provo a trarre delle riflessioni generali da un’esperienza personale.
Se facciamo un esame di cosa conti davvero nella nostra vita; se cerchiamo quale sia la fonte della nostra serenità; se riflettiamo su quale sia il focus che guida le nostre azioni, allora scopriremo quale sia la chiave di volta della nostra esistenza.
In alcuni casi è il lavoro.
Siamo stati educati (specialmente in Italia) a pensare che il lavoro nobiliti l’uomo. Attraverso il lavoro ci realizziamo. Passiamo sul posto di lavoro la maggior parte del nostro tempo. Dal lavoro ricaviamo il nostro sostentamento. In moltissimi casi basiamo la nostra autostima sui risultati professionali, il lavoro è uno status symbol.
Eppure, come reso evidente dalle congiunture economiche degli ultimi anni, non abbiamo il controllo sul lavoro. Possiamo perderlo senza colpa. Può capitare che il nostro valore non venga riconosciuto o che la retribuzione venga arbitrariamente ridotta. Può capitare che ci venga chiesto di fare cose che non riusciamo a fare o che riteniamo sbagliate.
In tutti questi casi, quando il lavoro è la chiave di volta della nostra vita, possiamo esser messi in crisi da fattori che non controlliamo.
Un esempio che deve farci riflettere è il momento del pensionamento: c’è chi, quando smette di lavorare, va in crisi. Aveva basato la sua esistenza su un elemento che all’improvviso è scomparso.
In alcuni casi è una persona.
Nella grande maggioranza si tratta del partner; ma altre volte è un genitore o un figlio. A questa persona dedichiamo la nostra vita. Dipendiamo dal suo giudizio e dalle sue scelte personali. In alcuni casi annulliamo noi stessi per compiacerla o rinunciamo a qualcosa a cui teniamo per permettere a lei o a lui di ottenere qualcosa.
Sia chiaro che l’altra persona, molto spesso non ha colpe. Siamo noi ad investirla di un ruolo che è sbagliato. Ma quando capita che questa persona viene a mancare, vuoi perché muore, vuoi perché si stufa e volge la sua attenzione altrove, allora il nostro mondo crolla.
In alcuni casi è un progetto.
I grandi campioni, i grandi artisti, i grandi benefattori, insomma in una parola i grandi hanno tutti una caratteristica in comune: un’impressionante capacità di commitment (uno di quei termini inglesi che mi fanno arrabbiare perché è difficile da tradurre in italiano con una parola singola). Cioè la capacità di restare concentrati a lungo sull’obbiettivo a prescindere dal resto.
Molti di noi nutrono in cuor loro un progetto. Praticare uno sport a livello professionale, diventare uno scrittore, fondare una propria azienda. Ma anche comperarsi una Ferrari, o attraversare a piedi la Mongolia, o trasferirsi in Giappone.
Il lato oscuro del commitment è che trasforma il progetto in una chiave di volta. Più ti ci dedichi, più è facile che la tua vita dipenda dal progetto.
Anche in questo caso, forse persino di più che negli altri che ho esposto precedentemente, il fallimento è dietro l’angolo. E con esso il rischio di veder crollare la propria vita.
Domenica scorsa, dunque, camminavo e riflettevo.
Cose come il lavoro, la persona giusta, un progetto che ti entusiasma, sono spesso le principali fonti della nostra voglia di vivere. E non è un caso che diventino le chiavi di volta su cui costruiamo il resto della nostra esistenza.
Qual è dunque la soluzione per evitare di andare in crisi?
Ovviamente non ho una risposta che vada bene per tutti. Se l’avessi farei il guru delle star a New York. Ma per quanto mi riguarda, credo che la parola chiave sia consapevolezza.
Devo individuare le chiavi di volta e poi cercare di restare con i piedi per terra.
Non attribuire ad un singolo elemento troppe aspettative, ma dividere su più elementi il valore della mia esistenza.
E devo essere consapevole, alla fin fine, che non tutto dipende da me e, allo stesso tempo, che io non dipendo da nulla.
Caro Franz, mi sono resa conto che quando perdi autonomia fisica , indipendenza economica, lavoro anche volontario per incapacità fisica di svolgerne le mansioni, amicizie (la malattia fa paura ai più) mi è facile pensare che non tutto dipende da me ma difficile pensare che “allo stesso tempo non dipendo da nulla “ , ormai sono costretta a dipendere con un gran desiderio di indipendenza e “fame di vita”
Mah!
(riflessioni che forse esulano dal tuo spunto)
Baci
ciao Edda,
sì credo che esulano dal mio pensiero.
Ognuno di noi, chi più chi meno, ha bisogno di alcune cose e da queste dipende.
Io mi riferivo più a quelle costruzioni di pensiero (non quelle ahimé reali come la malattia).
Nel tuo caso (e in molti simili) ci vuole un gran coraggio e doppio sforzo per non farsi abbattere
Franz