Da ormai quasi tre anni, mi occupo professionalmente di podcast per conto di Borioula Media Company. Li scrivo, li interpreto, li produco, ma soprattutto li ascolto.
Ciò non deve stupire: così come lo scrittore di libri dev’essere anche un vorace lettore, parimenti chi scrive e produce podcast dovrebbe ascoltare, ascoltare, ascoltare.
Forte di questa premessa, mi aggiungo alla massa di chi si sente titolato per criticare e segnalo quello che, a mio giudizio, è un macroscopico difetto in cui incorrono moltissimi produttori.
I podcast sono fatti per essere ascoltati.
È una cosa evidente, è nella natura stessa del podcast, eppure ci sono moltissimi esempi di scarsa attenzione per chi ascolta.
La madre di tutti gli errori sono le registrazioni dei programmi radiofonici: inviti a telefonare o commentare in diretta, riferimenti ad altri programmi che seguono e che ovviamente non ci sono, riferimenti temporali assoluti (“stamattina i giornali sono pieni…”).
Poi ci sono le registrazioni in diretta di eventi live: una conferenza, un monologo a teatro, un dibattito. Nel 90% dei casi non si sentono le domande del pubblico, il protagonista del monologo, essendo un attore, affida parte del suo messaggio alla gestualità che, ovviamente, va persa nel podcast, nei dibattiti le persone intervengono senza dire chi sono e dopo un po’ non ti raccapezzi più.
Ma la cosa che più mi infastidisce sono i videocast, pensati per essere messi su youtube e poi convertiti in tracce audio. Danno per scontato che le persone li stiano guardando, indicano le cose sul tavolo e non le specificano, fanno espressioni buffe e smorfie per sottolineare dei concetti invece di argomentare, mandano “in onda” dei filmati per cui al loro audio si aggiunge un altro audio e la confusione è massima.
Lo so che “del maiale non si butta niente” e la tentazione di convertire un evento, un programma radiofonico o un video in podcast è tanta.
Ma l’ascoltatore finale subisce questa faciloneria e, di conseguenza, il mondo dei podcast viene, almeno parzialmente, squalificato.
La soluzione è aggiungere un commento audio che spieghi quello che succede.
È lavoro in più, ma non poi così tanto. E gli ascoltatori sapranno apprezzarlo.
Post Scriptum come già scritto in altri post, non riesco a pubblicare la versione acoltabile del mio blog a causa del trasloco in corso… ci sentiamo dopo l’estate
Partendo dalla frase di Marshall McLuhan, ecco un’analisi sfogo sullo stato della comunicazione dei nostri tempi.
Di certe grandi teorie si ricordano solo gli slogan. Tutti conoscono la scritta “E=mc2”, qualcuno sa che è la formula dell’energia di Einstein, qualcuno di meno sa che significa che l’energia è uguale alla massa moltiplicata per il quadrato della velocità della luce. In pochissimi, poi, sono in grado di spiegare cosa ciò voglia dire.
Similmente quando dico che “il mezzo è li messaggio” in molti riconoscono l’affermazione di Marshall McLuhan, qualcuno potrebbe indicare che si parla di “mezzi di comunicazione”, qualcuno ne semplificherebbe il significato spiegando che il sociologo sottolineava l’importanza dei media arrivando a postulare che il tipo di media e le sue regole influenzavano a tal punto il contenuto da diventarne parte e stravolgerlo.
Un po’ di storia (sì, sono noioso).
Non possiamo non pensare a questo quando riflettiamo su come i media ci hanno cambiato. Non solo oggi, ma da sempre.
La stampa a caratteri mobili (1450 circa) ha popolarizzato la Cultura (e la maiuscola non è una svista), il primo giornale in Europa è nato circa 100 anni dopo (1660, Germania) e subito dopo in Italia. Poi ci sono voluti circa 200 anni per arrivare alla nuova svolta: la televisione. In realtà l’apparecchio è stato creato nel 1883 ma solo nel 1925 si può parlare di trasmissioni televisive come le pensiamo noi. In Italia 1934 i primi esperimenti e 1954 il primo programma RAI. Similmente la tv a colori è stata inventata nel 1940, le trasmissioni hanno iniziato a girare solamente 15 anni dopo e, in Italia, addirittura nel 1977.
Altro giro di boa, finisce il monopolio RAI ed inizia la tv privata (siamo negli anni 80), intanto una cosa misteriosa usata dai professori universitari che si chiamava Arpanet (1969) si è trasformata nel web (il World Wide Web, quel www che ormai è sparito) negli stessi anni (intorno al 1990) e con l’arrivo degli smartphone (2005 circa) internet è in tasca a tutti.
Libri, giornali, radio, televisione, internet. Una progressione di media e un cambio drastico del loro impatto sull’umanità.
I libri hanno portato una maggior diffusione della Cultura e della scolarizzazione. La radio e la prima tv hanno diffuso la lingua superando le barriere dei dialetti. Giornali e tv volevano informare le persone. La RAI aveva (e non ha più) tra i suoi compiti quello di educare la gente. La tv commerciale si proponeva solamente di divertire la gente. Persino i suoi telegiornali sono diventati uno spettacolo (Striscia la Notizia), persino le sue inchieste (Le Iene), persino i dibattiti politici. Internet, all’inizio, era un media nato per cercare informazioni. Ma è stato presto trasformato in un media dove divertirsi: ecco i social e la loro deriva.
Abbiamo visto come i media si sono evoluti e come il loro scopo sia cambiato.
Ma come sono cambiati i contenuti?
Avete presente una noiosa tribuna elettorale anni ’80? I politici parlavano usando formule astruse: “la convergenza delle linee politiche”, “le sinergie ideologiche” ecc ecc)
Avete presente come parlano oggi Salvini o Gasparri?
Il media modifica il messaggio.
Pensate al SEO (un acronimo complicato che raccoglie le regole per essere trovato facilmente in rete), se le studiate appena un po’ vedrete che vi chiederanno di esprimere concetti semplici, in frasi brevi, con tutto quello che conta nelle prime 100 lettere. Potrebbe Omero scrivere l’Odissea ottimizzata per il SEO? E la nostra Costituzione?
Non lamentiamoci che i nostri figli e i nostri nipoti hanno soglie di attenzione basse: sono ottimizzati per le regole SEO.
Come al solito ho fatto un lunghissimo preambolo (il mio SEO’s specialist segna sempre tutto rosso) per arrivare al dunque.
Se accettiamo di parlare in modo adatto ai social non riusciremo a sviluppare nessun concetto.
Se accettiamo di cambiare quello che siamo per venire meglio in tv, risulteremo falsi.
Se semplificheremo i concetti per renderli comprensibili ai frettolosi, perderemo in qualità.
Se scriveremo per compiacere chi legge, risulteremo insipidi, già visti.
Ho messo giù una lista, perché quelle piacciono tantissimo al SEO (specie con un titolo del tipo “I dieci motivi per cui l* piaci più”, magari scritto con la schwa per essere politically correct).
Ma quello che voglio dire è che ci sarebbe bisogno di recuperare in credibilità, e per farlo non basta uno spot, ma impostare la comunicazione, che dev’essere conseguenza dei valori aziendali, in modo autentico.
Autentico, non solo originale.
Se vuoi sembrare Superman, per essere originali basta indossare le mutande sopra i calzoni. Ma per essere autentici bisogna volare e avere la vista a raggi x.
Nella vita di ogni giorno non serve bucare lo schermo o fare buona impressione nei primi 10 secondi. Quello che serve è avere un curriculum credibile alle spalle.
C’è un’altra cosa che mi fa diventare matto.
Il media è il messaggio, quindi, visto che parliamo a dei giovani facciamo una campagna su tiktok, se parliamo ai vecchi facciamo uno spot in tv.
Ma non è così. Puoi fare un bellissimo spot su Mediaset o Tiktok, ma se non ci sono le idee da comunicare, riuscirai solo a fare schifo.
Quando produco i miei podcast dicono che arrivo alle persone.
Ma funzionano non semplicemente perché sono un podcast e non un libro, ma perché contengono idee.
Le persone capiscono che ho fatto i compiti a casa, ho studiato l’argomento e torno da loro in modo onesto.
Non cerco mai di abbindolarle. Non mi piego alle regolette del marketing o dell’ABC della comunicazione.
Di certo è più faticoso, ma spero che lasci una piccola traccia.
Post Scriptum di solito alla fine del mio post c’è la versione ascoltabile. Ma sono in una fase della vita divisa tra la vecchia e la nuova casa, così tutto l’armamentario per registrare è diviso tra scatoloni in garage e bauli sotto il letto. Recupererò dopo l’estate.
Bobo ha fermato in un’immagine il senso profondo del progetto Conte dai monti: un gioco di specchi tra dettagli e indizi di un mondo fantastico
Tra me e Bobo funziona così: lui si esprime dipingendo e io cerco di raccontare a parole quello che abbiamo in testa. Si è creata una simbiosi particolare; una sintonia profonda, come succede raramente; e questa è forse la parte più gratificante del nostro progetto. Lavorare in modo autonomo ma arrivare assieme ad un risultato.
Qualche giorno fa, Bobo ha prodotto l’opera che vedete rappresentata qui sotto.
È un autoritratto di lui che dipinge.
Il viso concentrato, capelli e barba bianchi, la mano (come mi piacciono le mani che disegna Bobo!) che regge un pennello mentre sfiora un’opera che sta realizzando. Del “quadro nel quadro” non si vede praticamente nulla. Solo due mani aggrappate alla roccia. Un osservatore attento noterebbe che quelle mani sono un particolare di un’altra sua opera, La via dei monti, quella che fa parte del nostro progetto delle Conte.
Osservavo il quadro nel suo laboratorio e riflettevo. Ha colto in modo empirico il senso profondo del nostro lavoro degli ultimi mesi.
È come nei negozi dei vecchi barbieri di una volta, quando seduto sulla poltrona osservavi te stesso riflesso nello specchio di fronte e di nuovo in quello dietro, fino a quando ti perdevi in centinaia di immagini di te stesso.
È come in una scatola cinese, o in una matrioska. Continui ad aprire e a scoprire nuovi dettagli.
Il progetto Conte dai monti è esattamente questo. Un gioco continuo di rimandi, di autoreferenze, di immagini riprodotte a volte nei suoni, a volte nelle parole.
Adesso che tutti i pezzi iniziano a collimare, riesco ad apprezzare sempre di più i dettagli.
Ieri stavo inserendo nel cofanetto in materiale povero la riproduzione numerata ed autografata de La via dei monti e mi sono soffermato sulla fascetta intorno al libro. Cita una frase della prefazione dell’amico Franco Faggiani“Un libro non libro che è un irrinunciabile invito a un mondo fantastico…” e mi sono incantato a pensare come anche Franco abbia colto perfettamente l’essenza di questo progetto.
Dettagli. Particolari. Indizi. Per esplorare un mondo fantastico che è attorno a noi, ma che, per essere scoperto, richiede occhi nuovi. Occhi diversi.
I librai ci chiedono se si tratta di un libro per ragazzi. E noi rispondiamo sempre di no. È un libro per tutti. Ma i ragazzi, probabilmente, saranno agevolati nel seguire il nostro sguardo e scorgere quello che vediamo noi.
Ogni progetto è un viaggio. E mentre il calendario con le date delle presentazioni inizia ad infittirsi, penso che sono finalmente pronto a partire.
Per portare un po’ delle montagne a chi ha orecchie nuove per ascoltare e occhi nuovi per osservare.
Sto per compiere 60 anni e li esorcizzo lanciandomi in una nuova sfida, fuori dalla mia comfort zone: un nuovo libro che contiene mie canzoni
Forse potremmo considerarlo un luogo comune o una leggenda metropolitana, ma tutti noi che abbiamo superato i trent’anni sappiamo bene come, all’avvicinarsi della fatidica cifra che finisce con lo zero, si inizia a pensare all’età che avanza. Siano i 40, i 60 o gli 80, si sente sempre un piccolo brivido correre lungo la schiena mentre nel cervello si forma la classica domanda “E adesso? Cosa ne sarà di me?”
La risposta l’abbiamo intorno a noi. Il mondo è pieno di gente che gioca a tennis, va a ballare, scrive poesie, raggiunge vette, corre maratone e la cui carta d’identità sembra mentire. Eppure non ci fidiamo e siamo così spaventati che ci mettiamo in testa di esorcizzare il Tempo compiendo qualche pazzia che ci faccia sentire giovani: un tatuaggio, la motocicletta, un’avventura sentimentale con un partner più giovane.
Non sono esente da questa malattia. Per esorcizzare i miei 40 anni ho corso la mia prima maratona. Per esorcizzare i miei 50 anni ho divorziato. Ed adesso che si avvicinano i 60 ho deciso di uscire di nuovo dalla mia comfort zone, di lasciare l’alveo nel quale scorreva tranquilla la mia vita e provare a lasciare spazio alla cosa che amo di più: creare cose nuove.
Il mio compleanno è tra un paio di mesi, ma la vera festa la faccio il prossimo 15 ottobre, quando debutterà un nuovo progetto che si chiama Conte dai monti. Si tratta di un libro in cui sono raccolte 12 storie ambientate in montagna. Ogni storia può essere letta e può essere ascoltata su Spotify. Ci sono inoltre tre canzoni che ho scritto e che canto io, supportato da alcuni amici musicisti cui non sarò mai grato abbastanza. E c’è soprattutto Bobo Pernettaz, un grande compagno di viaggio, un pittore o, come preferisco dire io, uno scrittore per immagini.
Nei prossimi giorni o settimane, ne sentirete parlare ancora a lungo. Da me e, spero, da altri. Ma qui, nel mio blog, volevo raccontarvi il motivo che mi ha spinto a mettermi alla prova di nuovo.
Quando cammino in montagna, scelgo sempre percorsi circolari, per non dover ripetere due volte lo stesso sentiero. Se posso cerco escursioni diverse. E mi piace tantissimo cercare sentieri che uniscono due luoghi, sentieri che io non conosco ma che immagino esistere. Ho bisogno di provare nuove strade per sentirmi più vivo, per essere stimolato.
Ecco, in questo progetto faccio esattamente lo stesso: mi cimento in cose che non ho provato mai. Scrivo racconti e non un romanzo intero. Scrivo usando un linguaggio diverso, lasciando più spazio all’immaginazione, mi espongo di più sui temi che mi sono cari. E poi canto e suono, arti che non padroneggio, ma in cui – complice la pazzia dei 60 anni – ho deciso di cimentarmi pubblicamente.
Mi sono divertito moltissimo a lavorare con Bobo. A creare i paesaggi sonori per le storie che ha scritto lui o mettendo la mia penna al servizio di alcune sue idee. Sono stato molto influenzato e spero di aver lasciato anch’io il segno.
Adesso che la data di uscita è prossima, sento l’entusiasmo lasciare il posto all’emozione. Come un debuttante. Ed in fondo sono contento anche di questo: tutte queste emozioni, la gola secca prima di salire sul palco, la paura che le parole ti lascino, l’ansia dell’andare in scena, sono solo vita che scorre.
Qui sotto la versione “ascoltabile” di questo post:
112, where are u, è un’app per le emergenze, utilissima ma sconosciuta. Proviamo a capire come funziona e perché nessuno la conosce
Di solito si dice: “I fatti e i personaggi narrati in questo film sono inventati”, beh in questo caso, invece, è tutto vero ed è una storia che mi ha fatto riflettere. L’estate scorsa stavo passeggiando con degli amici lungo il ru Courtod in val d’Ayas. Camminavamo e chiacchieravamo del più e del meno, dei nostri lavori, delle gite che ci piacerebbe fare, delle nuove tecnologie applicate al trekking. E proprio a questo punto, Paolo se ne venne fuori con un’app di cui non avevo mai sentito parlare.
Qui è necessario fare una premessa. Il Paolo di cui sto parlando è Paolo Guarnaschelli, istruttore BLSD (che per chi non lo sapesse sono le tecniche di primo soccorso e defibrillazione) e fondatore della FoUr, una società che si occupa di diffondere la cultura del soccorso tramite la formazione all’interno delle aziende (FoUr, infatti, sta per Formazione Urgenze). Quindi uno che sa di cosa parla.
Bene, esiste un’app che si chiama 112 Where Are U, sviluppata in origine dall’Agenzia Regionale dell’Emergenza Urgenza della Lombardia, ma oggi funzionante in tutti le regioni dove funziona il NUE, il Numero Unico Emergenze, quello che sostituisce il 113 per i Carabinieri, il 115 per i Vigili del Fuoco, il 118 per la Sanità ecc. Insomma la versione europea del 911 che siamo abituati a vedere nei film.
Come funziona? Semplicissimo.
Installate gratuitamente l’app sul vostro smart phone e vi registrate. L’app vi geolocalizza, quindi sa sempre dove vi trovate, e se ne sta lì buona in attesa di esservi utile.
In caso di emergenza attivate l’app e cliccate sul tasto in basso selezionando di che tipo di emergenza si tratta (sanitaria, incendio, crimine) e l’app chiama direttamente il numero unico di emergenza più vicino, segnalando chi siete e dove siete. Esistono tre tipi di chiamata: normale, muta e per non udenti. La prima è quella che ho descritto e che vi fa parlare con un operatore. La seconda, muta, si adopera quando c’è un pericolo in corso (ad esempio una rapina, un’aggressione ecc), la terza è dedicata ai sordomuti (scommetto che nessuno ha mai pensato alla difficoltà per un sordo o un muto ad effettuare una chiamata di soccorso!)
In questo modo si sono risolti tutta una serie di problemi.
Chi è in pericolo e chiama, spesso è confuso o spaventato e dare informazioni anche semplici tipo chi è o dove si trova può essere un problema.
Il numero unico risolve il problema di ricordarsi chi chiamare e anche il problema di agganciare il centro soccorso più vicino.
Infine, risolve il problema di chiamare quando si è in montagna e non si sa dire esattamente dove ci si trova. Poi io ho detto montagna, ma a volte è difficile dire dove ci si trova anche se si è nel Grande Raccordo Anulare di Roma o in tangenziale a Milano…
L’app mi era piaciuta moltissimo e mi ero stupito che, nonostante fosse uscita molti anni fa, ancora nessuno ne aveva parlato. Nei giorni successivi l’ho raccontato ad amici e colleghi, sollecitando l’installazione e la diffusione del messaggio.
Paolo, sorridendo, mi aveva dato due ultimi consigli: “Mettila nella prima schermata del telefono, così la trovi subito. E poi non chiamarla Centododici, ma Uno Uno Due.” E alle mie rimostranze mi ha spiegato che era capitato sovente che nella concitazione dell’emergenza quando si diceva di chiamare il centododici la persona digitasse 1,0,0,1,2… ricevendo in risposta il classico “Il numero chiamato non esiste”.
Bene, che senso ha questa storia?
Il primo è: andate su Apple Store o Google Play Store, scaricate l’app e registratevi. Sperando di non doverla mai usare.
Il secondo, invece, è una riflessione legata al mio mondo, quello della comunicazione.
È possibile che un’app utilissima e gratuita sia sconosciuta?
Se cercate su Google troverete alcuni articoli che sono usciti, ma non è mai stata fatta una campagna di comunicazione adeguata. Penso alle pubblicità progresso, quelle istituzionali, ai video che si vedono in televisione e su web. Possibile che in così pochi la conoscono?
La lezione da imparare qui è che non basta avere una grande idea, bisogna saperla spiegare bene e, soprattutto, farla arrivare al pubblico cui è destinata.
E la seconda lezione è in quel 1-1-2 che sostituisce il CentoDodici.
A volte basta cambiare appena qualche parola per evitare che il messaggio venga frainteso.
La qualità del lavoro è diventato il mio punto cardinale nella scelta della professione, sia come free lance che come imprenditore.
Non so cosa scatti nella testa di una persona, perché si sia più portati a lavorare in un’azienda o si decida di mettersi in proprio, fare il free lance o addirittura creare la propria società. Non credo che il dipendente sia migliore o peggiore del libero professionista. Entrambi i modi di lavorare sono, appunto, solo modi di lavorare. La differenza sta nella qualità del tuo lavoro. Sta di fatto che io, fin da ragazzo, poco più di ventenne, ho preferito la libertà di sbagliare da solo.
In quasi 40 anni di vita professionale ho creato, venduto, gestito molte società negli ambiti più diversi.
Ho iniziato creando una società che si avvaleva di una tecnologia all’avanguardia per velocizzare e automatizzare il processo di creazione dei giornali. Ma poi ho spaziato con la creazione di una società che si occupava della digitalizzazione di grandi archivi, una piccola tipografia, una cooperativa che realizzava prodotti editoriali, uno studio che progettava giornali quotidiani, una software house specializzata in automatizzazione di flussi di impaginazione, un’attività di assistenza tecnica su macchine da stampa, una software house dedicata all’industria editoriale e così via.
Tanto lavoro, tante soddisfazioni, tanti anni dietro alle spalle.
Cosa avevano in comune? Un approccio tecnologico alla soluzione di problemi pratici connessi alla creazione di contenuti editoriali.
Alcune di queste società sono floride e continuano a lavorare, altre sono arrivate a fine corsa quando il loro core business è diventato vecchio.
Mi sono domandato il motivo per cui ho intrapreso così tante strade. E non c’è una risposta unica. A volte è stato perché volevo dimostrare che una cosa si poteva fare meglio, altre volte perché avevo un’idea in cui nessun altro credeva, una volta perché mi ero innamorato di un palazzo perfetto per una certa attività, a volte semplicemente per denaro.
Non sono mai diventato ricco (ancora) e non ho mai avuto problemi di soldi (ancora).
Eppure eccomi qui a ripartire con una nuova avventura.
Lo scorso autunno ho dato vita a Borioula Media Company, che chiamiamo BoMeCo. Se siete curiosi di sapere da dove viene il nome o cosa facciamo, visitate il sito (www.bomeco.eu) o seguiteci su LinkedIn.
Io oggi volevo spiegare perché, alla soglia dei 60 anni, mi sono rimesso in gioco. E i motivi sono sostanzialmente tre.
Il primo è che credo che la routine, il rifare per anni la stessa cosa, sia il primo passo verso l’immobilità. Ed io ho bisogno di muovermi per sentirmi vivo.
Il secondo è che ho bisogno di creare qualcosa. Non mi basta più operare nel mondo dei servizi o delle consulenze, voglio che, alla fine della mia giornata di lavoro, ci sia qualcosa di concreto che prima non c’era.
Il terzo motivo, ed è certamente il più importante, è che ho creato BoMeCo come una piattaforma, un hub, in cui lavorare assieme a persone che mi piacciono. E vale per le persone con cui collaboro ma anche per i clienti. Voglio essere felice di incontrarli. Voglio che alla fine della riunione ci sia il tempo per bere una cosa assieme o, ancora meglio, che mentre si passa del tempo assieme nascano idee su nuovi lavori.
Un’utopia? Può essere.
Ma c’è una lezione che ho imparato da un grande uomo, Gino Strada, cofondatore di Emergency che diceva “ogni utopia è un sogno non ancora realizzato”.
Io voglio credere che il mio sogno di lavorare bene grazie al fatto di essere fianco a fianco con persone che stimo sia realizzabile.
Sarà necessario usare tempo e determinazione, ma sono certo che i risultati, misurati in qualità della vita, qualità del prodotto finale e, anche, ritorno economico, arriveranno.
Post Scriptum: come ogni nuovo viaggio, la meta è chiara ma il vero piacere deriva dal viaggiare. Perché non dovrebbe essere così anche in un’attività imprenditoriale?
La storia di un’amicizia nata quasi per caso ma che mi ha aiutato a lavorare su un progetto che mi riempie di orgoglio, il podcast de Il ContaStorie.
Ci sono cose che succedono per un disegno superiore, chiamatelo karma (che è più di moda), chiamatelo dio (se avete la fortuna di crederci), chiamatelo destino (se non sapete che nome dargli).
In questi ultimi 15 anni, da quando frequento la Valle d’Aosta, prima come turista, poi come villeggiante e finalmente come residente, e la giro in lungo e in largo, sono stato colpito da alcuni quadri che mi coglievano sempre di sorpresa. Alle volte dalle pareti di un ristorante, altre esposte in un negozio, altre ancora usate come insegna. Lo stile era estremamente personale, un mix tra scultura e pittura, dei quadri a tre dimensioni e con tinte piatte e forti.
Quindi posso dire che ho imparato a riconoscere Bobo Pernettaz prima di conoscerlo.
Il mio amico Denis, che spesso mi ha fatto apprezzare angoli speciali della Valle (non a caso quelli della Lonely Planet gli hanno fatto scrivere la loro guida) aveva a casa un quadro di Bobo e così ho saputo che erano amici.
“Bene” – gli ho subito detto – “un giorno mi accompagni al suo laboratorio!” ma poi il tempo passava e non c’era mai l’occasione, io non ero ad Aosta o avevamo le giornate troppo piene.
Così è arrivato dicembre e Denis mi ha girato un vocale su WhatsApp: era un racconto che Bobo aveva registrato con il telefonino e parlava del natale di sua nonna Antoniette.
Ne sono rimasto stregato. Ho immediatamente compreso le potenzialità di quella storia; ho detto a Denis di contattare Bobo per farsela registrare meglio (nella prima versione si sentiva in sottofondo la lavatrice che girava!) e, dopo aver ottenuto il suo ok, ho creato un paesaggio sonoro scarno ed evocativo che valorizzava la voce caratteristica di Bobo, e lo abbiamo messo on line su Passaggi a Nord Ovest.
È così che sono diventato amico di Bobo.
Mi ha telefonato e mi ha detto: “Senti Franz, ogni tanto mi chiamano e vado con degli amici a raccontare le mie storie, perché non vieni anche tu e fai il rumorista?”
Il rumorista!
Poi da cosa nasce cosa, e mentre facevo i suoni a corredo dei suoi racconti, è finito che ho imbracciato la chitarra e ho cantato qualcuna delle mie canzoni, e soprattutto nelle cene che seguivano gli spettacoli sono entrato in sintonia con un gruppo di nuovi amici.
Con Bobo c’è stata intesa immediata. Siamo sulla stessa lunghezza d’onda, ci accaloriamo per le stesse cose, abbiamo le stesse priorità nella vita, ci scambiamo consigli su libri, su canzoni, su trattorie tipiche.
Così è stato naturale provare a creare qualcosa insieme, ed è nato Il ContaStorie, un podcast che sono fiero di produrre.
Ogni mese, a partire dallo scorso novembre, esce un nuovo episodio.
Sono storie che partono da ricordi di Bobo o che, anche nel caso di quelle di pura fantasia, sono arricchite con i suoi ricordi. Essendo lui un pittore, si esprime per immagini, ogni suo racconto potrebbe diventare un quadro. Ma restituiscono in modo vivido uno spaccato della vita in Valle d’Aosta subito prima del boom economico degli anni ‘90.
Il mio lavoro è quello di essere il più invisibile possibile.
Nei testi metto appena le mani, tanto per garantire scorrevolezza o per inserire qualche particolare che Bobo mi aveva raccontato in una delle tante cene assieme. Il commento sonoro è ridotto all’essenziale per lasciar emergere tutto il colore della voce di Bobo.
È uno dei lavori di cui sono più orgoglioso.
Sono convinto che mettere on line le sue testimonianze sia un modo di preservare un certo tipo di cultura che è differente da quelle main stream. Più ruspante, forse. Di certo più autentica.
Le storie sono un potpourrì di voli pindarici, di iperboli romantiche, di esagerazioni poetiche. Ogni storia dura poco più di 15 minuti. Un quarto d’ora in cui verrete sottratti alla fretta e alla confusione del mondo.
Questo è il nostro contributo, mio e di Bobo, al vostro universo digitale.
Quindici minuti di fantasia, di storie di altri tempi, di pause lunghe e di scoppi di risate.
Post Scriptum: vi lascio il link alla serie Il ContaStorie, che comunque trovate su tutte le piattaforme di podcasting. Qui sotto, come al solito, la versione “ascoltabile” del mio post…
Le parole sono gli elementi base per formare il linguaggio che è l’aspetto peculiare dell’essere umano.
Il linguaggio è ciò cha ha permesso all’umanità di progredire e di diventare, di fatto, la razza dominante del pianeta.
Ma non dobbiamo abusarne a discapito della vita vera.
Le parole sono gli elementi base per formare il linguaggio che è l’aspetto peculiare dell’essere umano. Il linguaggio è ciò che ha permesso all’umanità di progredire e di diventare, di fatto, la razza dominante del pianeta. Ma non dobbiamo abusarne a discapito della vita vera.
Le cose si fanno, non si raccontano. C’è una grande confusione sul ruolo delle parole scritte e su come usarle. Qui condivido una mia riflessione personale su come lo voglio fare io.
C’è una frase che, nel tempo, mi è venuta a noia. Dice: “La x_cosa è una metafora della vita”. E al posto della X_cosa potete mettere un soggetto a piacere: la corsa, il golf, la cucina, il ricamo, la falegnameria.
Vale per tutto e ha anche un fondo di verità.
Se dico: “La corsa è una metafora della vita. Come nella vita devi allenarti, perseverare, imparare dai tuoi errori, accettare le sconfitte e restare umile nelle vittorie. E via così”. Suona tutto molto giusto…
Ma in realtà la corsa non è una metafora della vita. È una parte di quel fenomeno complesso e multiforme che chiamiamo vita.
La vita va vissuta, non parafrasata. Contano le azioni, non le parole. O come diceva in modo molto più efficace e colorito Paolo Cevoli interpretando l’Assessore Palmiro Cangini, “Fatti, non pugnette”, ironizzando sulla tendenza alla masturbazione mentale che caratterizza chi vive in un mondo esclusivamente teorico.
Torno quindi all’incipit di questo post. Ha senso investire tempo nelle parole? La mia risposta è un sì forte e chiaro. E adesso ne spiego le ragioni.
Come prima cosa è importante effettuare un distinguo tra i diversi modi di usare le parole.
Se servono a raccontare dei fatti, si tratta di giornalismo.
Se servono a spiegare il perché delle cose, si tratta di istruzione, di scienza o anche di semplice informazione (i manuali della lavatrice che tutti ignoriamo).
Se servono a spiegare delle idee o a propugnarle, si tratta di filosofia, di cultura, di ideologia.
In tutti gli esempi che ho fatto, e l’elenco potrebbe andare avanti a lungo, le parole sono uno strumento, sono ancillari rispetto al loro scopo.
Ma quando le parole vengono messe al centro, allora acquisiscono nuova forza. Si trasformano da strumento a fine ultimo.
Accade in letteratura. Quando si smette di parlare di realtà e si lascia spazio alla fantasia. È il potere delle parole che diventano storie. Non si rivolgono più alla sfera intellettiva-cognitiva, ma a quella emotiva. Non parlano più al cervello di chi ascolta, ma al suo cuore e alla sua pancia. Generano emozioni, risposte profondamente umane.
Ed invece di spiegare le cose, le creano.
La letteratura è un’arte squisitamente creativa. D’improvviso appare qualcosa dove prima non c’era nulla. Un luogo, una persona, una situazione. Ed è così vera, che noi soffriamo o gioiamo insieme al protagonista.
Le parole sono come una cassetta degli attrezzi a nostra disposizione. Non sono ne’ il bene ne’ il male, dipende da noi l’uso che ne facciamo. Questo ci impone la responsabilità di usarle in modo corretto. Se sto raccontando dei fatti o spiegando un prodotto, non solo ho il dovere morale di dire la verità, ma ho anche il dovere di usare lo strumento appropriato.
Chiedere cosa sta provando ad una madre in lacrime al funerale del suo bambino non è giornalismo. Ma sciacallaggio.
Usare lo storytelling per innalzare artificialmente le aspettative del pubblico sulle caratteristiche di un prodotto non è marketing. Ma truffa.
Posso usare un lanciafiamme per asciugarmi i capelli o per arrostire il mio pollo allo spiedo, ma nel momento che lo faccio divento responsabile delle conseguenze.
Imparare ad usare in modo corretto le parole è un dovere per tutti coloro che di parole campano, ma è anche un impegno che ciascuno di noi dovrebbe prendersi.
Le Big Tech hanno iniziato a muoversi e a cambiare il loro approccio al mercato. Un’occasione unica per noi utenti di ripensare a ciò che vogliamo
In Inglese suona meglio che in Italiano: Revolution in progress (cioè Rivoluzione in corso), sembra quasi un ossimoro, con quel “in progress” che richiama alla mente i cantieri dove si costruisce e “revolution” che invece suggerisce distruzione e sovvertimento delle regole. Eppure mi sembra il titolo più adatto all’argomento di cui vi voglio parlare.
A parte il fatto che la primavera è iniziata, nell’aria si percepiscono i sentori di un grande cambiamento.
Parlo delle Big Tech, le grandi società tecnologiche che dettano leggi nel mondo come solo le religioni hanno fatto in passato (e cercano di fare ancora).
GOOGLE ti impone le sue regole se vuoi farti trovare. Forse è evidente solo per gli addetti ai lavori, ma seguitemi un momento. Ciò che capita è che ormai Google è diventato l’elenco telefonico del web, se Google non ti trova allora significa che tu non esisti. Così la grande G può decidere il modo in cui vengono fatti i siti, il modo in cui vengono scritti i titoli degli articoli, la lunghezza dei testi e via dicendo. Tecnicamente sono le regole di ottimizzazione del SEO, Search Engine Optimization. Chiaramente non è obbligatorio seguirle, ma se non ti adatti nessuno ti troverà e tu sparirai nell’oblio.
Un altro esempio è META, la società di Mark Zuckerberg che è proprietaria di FaceBook, di Instagram e di What’sApp. Nelle scorse settimane si è molto parlato dello scontro con la SIAE, il monopolista italiano per la gestione dei diritti d’autore. Anche qui è una discussione tecnica. SIAE e META stavano trattando un prezzo forfait per le canzoni usate su Instagram (le colonne sonore delle stories e dei reels che pubblichiamo noi tutti) e META, visto che non si raggiungeva un accordo e che il precedente era scaduto a fine 2022, ha semplicemente rimosso tutte le musiche italiane dai post presenti nella sua piattaforma. Azione ineccepibile sia formalmente che strategicamente, ma gli utenti si sono trovati milioni di post silenziosi.
AMAZON, che con Prime è entrata prepotentemente nel mondo dello streaming tv, sta cambiando l’interfaccia in modo da spingere sempre di più a sottoscrivere abbonamenti anche su altre piattaforme (Now Tv, Infinity, Disney Channel ecc).
E di esempi come questi ce ne sono una moltitudine. Ma perché sta accadendo tutto cio?
Bisogna osservare il quadro generale. La pandemia è stata un fattore di crescita incredibile per queste società. In assenza di contatti sociali ripiegavamo sui social. Non potendo acquistare in negozio, comperavamo on line.
I fatturati delle Big Tech sono schizzati alle stelle. Hanno assunto sempre più persone per gestire la crescita di richieste. Ma oggi, post Covid, accusano una flessione significativa. Stiamo tornando alla realtà.
La finanza è una creatura bulimica: gli utili di un anno devono essere confermati se non aumentati l’anno successivo. Così i consigli di amministrazione sono corsi ai ripari, devono tagliare i costi (che significa licenziare migliaia di persone) e cercare altrove nuovi fatturati.
Immorale? Beh, direi proprio di no. Decidere la strategia è un diritto pieno di ogni azienda. Noi utenti siamo come gli ospiti non paganti di un albergo di lusso. Eravamo abituati ad abbondanti colazioni a qualsiasi ora, e adesso che ci offrono di meno e solo a certi orari non possiamo certo lamentarci.
Virgilio, nell’Eneide, fa dire a Laocoonte mentre i Troiani sulla spiaggia festeggiano l’apparente partenza dei nemici “Timeo Danaes et dona ferentes”, “Temo i Greci anche quando portano doni”. I Troiani non gli diedero ascolto, portarono il grande cavallo di legno all’interno della città, e tutti sappiamo com’è andata a finire.
Una regola di saggezza è diffidare sempre di regali immotivati. È chiaro che qualcuno deve pagare per quello che ci viene offerto. Nel bel film “Social Dilemma” il concetto è spiegato con una frase iconica: “Se non paghi, il prodotto sei tu”
Quindi non possiamo lamentarci, ma abbiamo altre possibilità. Possiamo ridurre la presenza sui social, possiamo decidere di pagare per non soggiacere ad un ambiente tossico.
Utopia? Io non credo, anzi, sembra stia già accadendo.
Io amavo e frequentavo Twitter: 130 caratteri per esprimere un pensiero erano una sfida all’intelligenza. Mi piaceva il clima ironico, l’ambiente multiculturale. Poi, un po’ alla volta, si è ridotto ad un club per nostalgici autoreferenti. Lo frequento ancora, ma con sempre meno passione.
FaceBook ormai è quasi deserto, popolato solo di pubblicità e contenuti a pagamento, sembra ReteQuattro d’estate, con gli stessi vecchi film. Persino Instagram inizia a mostrare i segni dell’invecchiamento.
Le Big Tech, come dicevo, hanno annusato l’aria e si preparano a cambiare.
Ed ogni cambiamento, in fondo, è una rivoluzione.
Noi restiamo alla finestra e proviamo a capire dove sia meglio dirigerci… tenendo a cuore il consiglio di Laocoonte e provando a ragionare su cosa veramente ci convenga fare…
Nella nostra società il concetto di Tempo sta assumendo una valenza negativa, ma negare il giusto tempo alle cose porta solo guai
Giovedì sera sono andato a Milano, al Palasport di Assago, ad assistere al musical Grease, messo in scena dalla Compagnia della Rancia. Uno spettacolo travolgente, due ore di ritmo e risate, e per me che amo questo genere, una serata davvero speciale.
Poi, rientrando verso casa in auto, mentre canticchiavo le canzoni, ho provato a fare un po’ di conti.
Il film Grease, quello con John Travolta e Olivia Newton-John, è uscito nei cinema nel 1978, quindi quasi mezzo secolo fa. Eppure è ancora fresco e piacevole (tra il pubblico c’erano parecchi ragazzi), un vero evergreen.
Dopo averlo visto dal vivo, mi è tornata la voglia di rivederlo in originale, quindi – arrivato a casa – l’ho cercato on line. Però l’esperienza mi ha un po’ deluso. Come se i colori fossero stinti, come se il ritmo della pellicola fosse rallentato. Il ricordo era superiore alla realtà.
Questo succede molto spesso. Il Tempo è una potente lente deformante. Forse per un meccanismo di autodifesa, ogni esperienza viene mondata delle parti brutte mentre vengono conservati i particolari piacevoli. Se da un lato ciò ci protegge dai ricordi brutti, al contrario crea un’aspettativa esagerata sulle cose belle che abbiamo vissuto e che cerchiamo di rivivere. E queste aspettative rimangono deluse…
Ma c’era un’altra idea che mi frullava per la testa, un’idea che esprimo con un bisticcio di parole: “Il concetto di Tempo, con il passare del tempo, è mutato”.
Quando uscivano i grandi classici (almeno per quelli della mia generazione) tipo Grease o Guerre Stellari o I guerrieri della notte, si andava a vederli al cinema e poi se ne conservava il ricordo per alcuni anni fino a quando, finalmente, riuscivamo a rivederli alla televisione. E ne pregustavamo le scene salienti, magari facendo gruppo con quelli che non erano riusciti a vederli la prima volta.
Oggi i film escono in contemporanea nelle sale e nei canali a pagamento (anzi, alcune volte prima nei canali a pagamento). Quindi ci viene tolto il piacere sottile dell’attesa.
La stessa cosa capita in molte altre occasioni. Una volta attendevamo con ansia il compleanno o il natale per ricevere un oggetto cui tenevamo. Oggi lo ordiniamo su Amazon e il giorno dopo è a casa. Una volta si usciva a cena con gli amici solo per le grandi celebrazioni, oggi andiamo in pizzeria o al ristorante almeno una volta a settimana. Gli amici lontani tornavano a casa raramente, e allora ci si ritrovava al bar per sentirli raccontare le novità. Oggi, una call su Skype e il gioco è fatto.
Si sta meglio oggi o allora? Sicuramente stiamo meglio oggi.
Ma questo poter accedere a tutto subito, ha distorto il concetto di Tempo.
Una volta l’attesa (pur quando comportava una piccola sofferenza) era un moltiplicatore del piacere. Oggi è solo motivo di lamentela.
E se il Tempo acquisisce una valenza negativa, allora tutte le cose che sono connesse ad esso diventano il Male.
Per questo oggi vogliamo nascondere l’età che abbiamo e i segni del passare del Tempo sul nostro corpo.
Per questo cambiamo spesso vestiti, auto, smart phone o televisione. In una perenne ricerca di novità.
Per questo, magari, accettiamo il nuovo come positivo e il vecchio come superato, abbassando quella difesa che è il pensiero critico.
Ma rinnegare il Tempo ci fa commettere errori grossolani. Ogni cosa ha bisogno del suo tempo per maturare, che sia un frutto o un’idea. Ogni lavoro ha bisogno di un certo tempo per essere fatto bene, le scorciatoie sono un’illusione.
Provare ad ingannare il Tempo è una scelta foriera di guai.