Coppe & bidoni

Sono uno di quelli per cui il valore delle cose non è legato al valore materiale. E questo vale sia per gli oggetti che le persone.
Io do grande importanza ai sogni, ai progetti, al valore ideale e simbolico.

Provo a spiegarmi meglio.

Ieri sera, finito di lavorare, sono tornato in albergo e sono uscito a correre.
Era tardi, c’era buio, eppure le strade brulicavano di macchine e di persone.

Mentre mi avvicinavo al parco di Trenno, ho iniziato a pensare a quello che volevo fare.
Al momento non ho obbiettivi sportivi, corro per restare in forma. Anzi per ritornare in forma.
Correre è uno dei modi di affermare il controllo sul mio corpo, è piegare il mio essere ad un progetto di vita che ho per me stesso.

Ho deciso di dedicarmi ai bidoni.

il parco di trenno

Il circuito in asfalto di Trenno è lungo 4 km ed è punteggiato di cestoni per l’immondizia.
Sono sparsi un po’ a caso, in prossimità delle panchine, distanziati a volte di una ventina di metri a volte di un centinaio.
“Fare i bidoni” per me significa alternare un tratto di corsa veloce ad uno di recupero usando come partenza ed arrivo quegli affari verdi.
Un metodo per stimolare muscoli, cuore e polmoni in modo non cadenzato.

Sono partito prudente.
Oggi per me 4km di fartlek sono una sfida.
Via via che mi inoltravo nel parco prendevo confidenza e spingevo di più nei tratti veloci. Un po’ baravo (lo confesso) cercando con gli occhi il bidone successivo e regolando il mio passo sulla distanza che mi separava da esso.
Comunque ho terminato soddisfatto il mio anello e ho ripreso la strada verso l’hotel mantenendo una velocità dignitosa e, finalmente, facendo volare i pensieri.

Tra meno di una settimana esce il nuovo libro, “Niente panico, si continua a correre”, scritto ancora una volta con Giovanni Storti.
Si tratta del seguito di “Corro perché mia mamma mi picchia” che tante soddisfazioni ci ha dato, compresa la vittoria del premio Bancarella per la letteratura sportiva.

Così sono finito a pensare alle coppe che ho vinto in vita mia e come nessuna di esse trovi spazio nella mia vita.
Quella vinta da ragazzo ai campionati di canottaggio è stata buttata in uno dei traslochi, quella vinta alla Monza Resegone (quinta squadra mista) è a casa di un altro membro del team, e quella del premio Bancarella è a casa di Giovanni.

Più che le coppe a me piacciono i bidoni.

La coppa è un bel promemoria di quello che abbiamo ottenuto.
I bidoni del parco sono un obbiettivo per quello che vogliamo ottenere.

Correvo e provavo a mettere ordine nella mia vita.
Come per le coppe e i bidoni, riflettevo sul fatto che non bisogna fossilizzarsi su quanto si ha ma su quello che si desidera.

Mi piacciono le persone con una luce di desiderio negli occhi.
Quelle che non si preoccupano di dove cenare alla sera ma di cosa fare da grandi.
E quasi mai questo atteggiamento si fa mettere in gabbia dall’età.

Pensieri sparsi e 10 km a un buon ritmo.
Non male per un martedì sera qualsiasi…

#26W26M /4: What’s next?

Quando ho provato a scrivere della trasferta nella Grande Mela, ho scoperto ben presto che avrei avuto bisogno di dividere il racconto a puntate.
Ecco la puntata finale…

What’s next?
L’avventura è finita.
Il progetto #26W26M è concluso.
E adesso?

Ne ho già scritto subito dopo la maratona (clicca qui), alla fine c’è un senso di vuoto che fatichi a riempire.
Niente più tabella, niente più traguardo (fisico e metaforico) da tagliare.
Ci si sente un po’ sperduti.

La società per cui corro si chiama almosthere ASD ed è un prolungamento della almostthere srl che ha organizzato la trasferta a New York.
I due nomi, Almost there (quasi lì) e Almost here (quasi qui), sono stati concepiti proprio durante la New York City Marathon di qualche anno fa.
La gente, tifando, ti urla “C’mon man, you’re almost there” fin dal primo metro della gara.

Vuol dire – mi perdonino quelli che l’inglese lo parlano – “Forza Uomo, ci sei quasi”.
Ma il significato, per noi che vestiamo la maglietta almosthere, cambia parecchio.
Suona quasi come se ci incitassero a non mollare in quanto membri del team (“Forza Uomo, tu sei un almostthere!”)
Brividi extra lungo il percorso…

Però, alla fine, quando in fila stavamo procedendo al ritiro delle sacche, lo stesso mantra ripetuto dai volontari (“Keep moving, you’re almost there” – “Continua a camminare ci sei quasi”) diventava quasi irritante. Il furgone UPS con la mia sacca sembrava irraggiungibile.
Il “there” era un luogo quasi stregato che si allontanava mentre mi ci avvicinavo.

Ecco, a quell’accezione di almost there ho pensato in questa settimana.
Tutto questo mio muovermi dove è diretto?
Quale sarà la prossima tappa del mio viaggio?

Ho sempre pensato che è meglio partire che stare a casa a decidere dove andare.
Anche quando ho girato a caso per il mondo, sono sempre rientrato più ricco.
Persone, luoghi, esperienze.
E non dipende da quanto lontano vai, ma solo da quanto di te stesso lasci a casa.
Come se solo lo spirito vuoto potesse essere riempito.

Franz a New York
Felice dei risultati ottenuti, nella mia stanza all’Empire Hotel, dopo la maratona di New York

La foto finale mi ritrae medaglia al collo, maglietta di Emergency, grattacieli di New York alle mie spalle.
Ed è proprio così.

Sono felice dei due obbiettivi portati a casa: la medaglia e la raccolta fondi per il centro profughi di Arbat
[NdA: mancano 13 euro per superare i tremila euro, datemi l’ultima spinta, cliccate qui!]
Sono felice che lungo le 26 settimane mi sia rimesso in forma: era la condizione minima e necessaria per affrontare la gara.
Ma sono felice anche perché questa ritrovata forma mi permetterà di intraprendere nuove esperienze.

Non so ancora cosa farò.
Probabilmente cercherò i sentieri delle mie amate montagne.
Ma proprio per quello che ho detto prima, non voglio fare progetti.

Al blog non rinuncio.
E’ diventata una piacevole routine (necessaria allo scrittore più che al runner).

Quindi continuate a passare di qua, che di cose di cui chiacchierare ce ne sono sempre…

Post Scriptum: per chi ne avesse voglia, con Alessandro, Ippolito, Matteo e Pierpaolo, i cinque maratoneti del progetto #26W26M, faremo una serata di racconti e festa.
Appuntamento domenica 17 dicembre (alle 18:00) presso Casa Emergency, in via Santa Croce 19 a Milano. Passateci a salutare!

#26W26M /3: la maratona

Quando ho provato a scrivere della trasferta nella Grande Mela, ho scoperto ben presto che avrei avuto bisogno di dividere il racconto a puntate.
Ecco la terza di quattro…

“Ecco qua, finalmente ci siamo” pensavo tra me mentre, mescolato agli altri concorrenti della seconda wave entravo nel corral blue sezione F.

Fa paura quanto bene siano organizzati.
D’altronde mettere su strada oltre 50mila persone non è compito da poco.

Eravamo partiti dall’albergo alle 5:45, il tragitto ci aveva impegnato per oltre un’ora durante la quale mi consolavo dicendo “meglio stare un’ora sul pullman che al freddo in strada”.
Poi i controlli di sicurezza, attraverso il metal detector; la divisione dagli amici (ognuno verso la sua area); la curiosità delle mille offerte pre-gara, dalle decine di bagni chimici ai donut, dalla pet therapy al thé caldo.
Dagli altoparlanti gli speaker continuavano a scandire gli eventi, invitando i concorrenti a procedere verso la partenza.
Avevo lasciato la sacca con le mie cose, avevo salutato gli amici, e adesso – da solo con i miei pensieri – attendevo di salire il ponte di Verrazzano.

L’aria era gravida di umidità, qualche goccia e soprattutto il vento freddo, mi avevano fatto optare per tenere addosso la vecchia tuta.
Procedevamo incolonnati, ed intanto spiavo i volti degli altri, ne ascoltavo le conversazioni.
“E’ la mia prima NewYork” “Beato te, sarai eccitatissimo”
Dagli altoparlanti si spandono le note di “God bless America” e poi l’inconfondibile voce di Frank Sinatra riempie l’aria di “New York, New York“.
La gente freme, canta, aspetta. I sorrisi sono tanti, ma hanno una fissità che tradisce l’emozione.

E finalmente, liberatorio, il colpo di cannone.

La fiumana umana invade il ponte. Ho la fortuna di correre nella parte superiore, da dove posso osservare la skyline che si confonde nella nebbia.
Mi sforzo di andare piano, di non farmi trascinare.
Gli altri, intorno a me, sembrano impazziti.

Una ragazza corre con un’enorme bandiera americana per la gioia dei fotografi ufficiali e delle decine di runner che si fermano per immortalare il momento con lo smart phone.
Vola veloce e bellissima, con la tela a stelle e strisce che la ammanta. La rivedrò al 35esimo chilometro, ancora di corsa, ancora al centro dell’attenzione.

Dopo il ponte, riceviamo il primo vero abbraccio della folla.
Gridano entusiasti, adulti e bambini, uomini e donne, di ogni colore.
Il tifo resterà una costante (a tratti quasi opprimente) per tutte le 26 miglia.

Colorato e festante.
Ti strappa un sorriso con cartelli buffi (“If Trump can run this country, you can run this marathon”, oppure l’inquietante “Free your nips” corredato di disegno di capezzoli insanguinati che propone di correre senza cerotti o l’immancabile “Toenails are for pussies“); ti sostiene con spicchi d’arancio, caramelle, persino fogli di carta Scottex; ti impedisce di fermarti, nelle ultime miglia gridano come ossessi “Push man, push. Now!”.

Cinque quartieri attraversati, cinque diverse tipologie di pubblico e tifo.
Dal silenzio degli ebrei ortodossi che quasi non ti guardano, alla caciara di Queens; dall’ululato costante della First Avenue all’affetto strabordante di Central Park.
Tante diversità, architettoniche, paesaggistiche, umane. Un unico obbiettivo: tu.

Non il runner generico, ma proprio tu.
Tu che in quel momento stai passando e magari mediti di camminare.
Tu, con il quale sono riusciti a creare un contatto occhio-occhio, e adesso vogliono trasmetterti la loro energia positiva.
Tu, che squadrano alla ricerca di un nome o di una nazionalità da urlare per incitarti.

Attorno al 15esimo miglio c’è il ristoro che precede il Quensoboro, cioè il ponte per antonomasia (qui lo chiamano semplicemente The Bridge).
I volontari urlano “Fuel for the Bridge, c’mon guys” e ti propongono acqua e sali.
E’ l’ultimo contatto con la gente oltre le transenne.
Per i successivi 1500 metri correrai nel silenzio ritmato dai passi degli altri maratoneti (o forse sarebbe giusto dire maratonandi!).
Fino alla discesa liberatoria.

Tutti dicono che la gara inizia da lì.
Io non ci credevo, ma è vero.
La First, eterna, con i suoi leggeri saliscendi cosicché apprezzi i quasi cinque chilometri ininterrotti di serpentone colorato.
Il Bronx e le sue band rumorosissime che ti lanciano finalmente verso il rientro a Manhattan.

almost a new york
Con i compagni di squadra, foto di rito davanti al laghetto di Central Park durante una sgambata mattutina

Central Park è salita.
Mi avevano detto che erano saliscendi, ma la verità è che è tutta un’unica erta.
Sai che stai arrivando, ma soffri.
Il conteggio in miglia che fino a quel momento ti ha aiutato (26 sono meno di 42) ti si rivolta contro e capisci che un miglio è molto (troppo) più lungo di un chilometro.
Faccio i conteggi a mente, ma arrotondo sempre per difetto e i cartelli chilometrici (30esimo, 35simo, 40esimo) sono sempre un po’ più in là di quanto mi aspettassi.

Finalmente riconosco l’ultima curva, quella che ho percorso ogni giorno nelle sgambate mattutine in Central Park.
Il cartello dice 800 metri che è un’eternità. Molto più di mezzo miglio (!)
Lì riconosco Alessandro, che era partito con il mio stesso obbiettivo cronometrico ma nella wave successiva, e che adesso mi sorpassa.
Mentalmente gli faccio i miei complimenti e un po’ lo mando a quel paese. Decido di allungare per stare con lui fino al traguardo ma è già avanti e non lo raggiungerò fino alla finish line.

Tutto il resto è un mix confuso.
Sorrisi increduli, volti tirati per la fatica o il dolore, freddo che ti penetra attraverso il telo termico mentre sei in coda verso la tua sacca.
Sto con Alessandro fino a quando lui ritira la sacca e procede verso l’albergo.
Io ho un pettorale più alto e devo continuare nel parco.

Tornando verso l’hotel scelgo un percorso diverso, sulla Columbus Avenue, lontano dalla massa dei corridori.
La gente mi guarda e mi sorride, io ricambio solo il sorriso degli altri maratoneti, quasi fossimo membri di un club esclusivo di 50mila membri.
Rifiuto i passaggi sui ciclotaxi e procedo verso l’Empire, verso la doccia calda, verso la birra gelata.

Ippolito mi attende nella hall.
Mi abbraccia e si complimenta.
Sa tutto, il mio tempo e quello degli altri.
E’ bello non dover spiegare la delusione di un crono troppo alto e di poter solo raccontare le belle emozioni che ti sono rimaste dentro.
A lui l’onere, dopo un mese di digiuno, di offrirmi la prima birra: il vero suggello, insieme alla medaglia, della mia New York City Marathon.

#26W26M /2: La (mia) New York

Quando ho provato a scrivere della trasferta nella Grande Mela, ho scoperto ben presto che avrei avuto bisogno di dividere il racconto a puntate.
Ecco la seconda di quattro…

A chi mi chiede come possa io, amante delle solitudini montane, vivere in una città come Milano, rispondo senza dubbi che di Milano mi piace l’estrema vitalità.

Cammini per le strade e senti l’energia scorrere sotto i tuoi piedi.
E’ l’unico posto dove si abbattono i palazzi vecchi per farne di nuovi.
E’ l’unico posto dove la gente ha fretta, ma trovi sempre la persona giusta che ti ascolta.
E’ l’unico posto dove l’ambiente urbano è stato disegnato per includere la Natura (seppure sotto vetro).

Mi piace il poter decidere all’ultimo momento se andare a vedere la prima di un film o una mostra; poter scegliere cosa mangiare spaziando tra cibi di tutte le culture e per tutte le tasche; mi piace poter vagare per le strade senza incontrare alcuna faccia nota eppure non sentirmi solo.

In una parola, mi piace la sua eterna impermanenza.

A chi mi chiedeva dove avrei voluto vivere, rispondevo: se non a Milano, allora in un paesino di montagna (e poi aggiungevo a fil di voce… oppure a New York).

NewYork dal taxi
Cab’s pics: Un’infilata di immagini prese dal taxi mentre percorrevo la Seventh Avenue

Ecco, New York per me è sempre stata un simbolo, un luogo immaginario, lo sfondo naturale di film e romanzi.
Di certo l’ho mitizzata e, qualche giorno fa, affrontarla per la prima volta, mi spaventava.
Temevo che le mie aspettative sarebbero state deluse.

Invece no, è bella come immaginavo. E forse ancor di più.
E’ viva come immaginavo. Ed è cangiante e rutilante come me l’immaginavo.
E forse ancor di più.

Ho avuto la fortuna di girarla seguendo le ispirazioni di Paolo Cognetti (per chi va a New York i suoi libri “Tutte le mie preghiere guardano verso ovest” e “New York è una finestra senza tende” sono un must assoluto) e l’esperienza di Matteo che ci aveva vissuto per parecchio tempo.
Così ho fatto tutte le cose che nella mia immaginazione avevo già fatto.

Ho alzato una mano per fermare in corsa un taxi.
Ho visto una partita dell’NBA al Madison Square Garden.
Ho passeggiato per Central Park (dove correva Dustin Hoffman ne Il Maratoneta).
Ho stretto gli occhi, abbagliato dalle luci di Times Square.
Ho preso la metro scoprendo che conosco meglio le fermate di New York di quelle della linea verde di Milano.
Ho sofferto il caldo e la fame, cercando un posto dove mangiare, e osservando il mondo dalla High Line.
Ho visitato il MoMa e il Whitney, ma anche il Tenments Museum e il Chelsea Market.
Ho preso un battello e navigato nell’Hudson fino a sfiorare i piedi di “Grimilde di Manhattan” (per citare De André) mentre cercavano di farci ubriacare.

nba
Al Madison Square Garden, con Alessandro e Matteo, per tifare i Knicks contro i Phoenix Sun

E poi ancora il Greenwhich Village, Soho, Brooklyn, il lunapark di Coney Island…

Mi sono innamorato.
Anzi no, ho scoperto che questa città l’amavo già.
Grazie a Woody Allen, a Scott Fitzgerald, e a tutti gli altri artisti che l’hanno trasformata da città in sogno collettivo.

L’asticella di comparazione è stata alzata ad un livello che temo possa esser irraggiungibile.

New York è la città per antonomasia.
Mi resta la fuga nel mio paesino di montagna.

#26W26M /1: Il viaggio

Quando ho provato a scrivere della trasferta nella Grande Mela, ho scoperto ben presto che avrei avuto bisogno di dividere il racconto a puntate.
Ecco la prima di quattro…

Se qualcuno l’avesse capito, me lo può gentilmente spiegare?
Ogni volta che faccio un viaggio intercontinentale in aereo mi tocca fare delle levatacce.
A prescindere dal fatto che il volo parta tardi (tipo le 9 nel mio caso) tocca lo stesso puntare la sveglia alle 4:30.

Tre ore prima in aeroporto per farsi chiedere dalla ragazza al check in “ma quand’è l’ultima volta che è andato fuori Europa?” “e si è divertito?” “che posti ha visitato?”
E’ la nuova prassi per verificare con un breve interrogatorio (la chiamano intervista, ovviamente) la tua identità.
Poi ti chiedono cosa fai di mestiere e per che azienda lavori.
Danilo (che è un carabiniere) si è persino spazientito a sentirsi chiedere “Ma cosa fa un carabiniere?”…

Ci siamo imbarcati con 50 minuti di ritardo, e mentre ognuno di noi pensava come avrebbe potuto utilizzare meglio quei 50 minuti sotto le coperte, l’aereo è rullato sulla pista e l’avventura è iniziata.

Siamo arrivati al Kennedy (anzi al geieffcchei, come si dice qui) e le procedure di sbarco sono filate via lisce e veloci, nonostante la sera prima ci fosse stato l’attacco sulla ciclabile da alcuni considerato di matrice terroristica e di conseguenze tutte le misure di sicurezza erano state alzate.
Un po’ straniti dal troppo cibo, dalla troppa forzata inattività, da quella sensazione strana per cui il corpo ti dice che è sera ma il sole è ancora alto nel cielo, siamo saliti sul pulmino predisposto da almostthere e ci siamo infilati nella nostra prima coda americana.

New York ci si è palesata per simboli.
Dai vecchi scuolabus scassati, ai taxi gialli, dai truck giganteschi agli operai con elmetto e giacca gialla nei cantieri.
E poi sono apparsi i primi cartelli stradali che indicavano luoghi che risvegliano racconti e memorie.
Flushing Meadows con il più grande impianto per il tennis del mondo, QueensStaten IslandBrooklyn alcuni dei quartieri che attraverseremo nella maratona.

L’autista del pulmino ci regala un tuffo al cuore extra, quando decide di fare una deviazione e di portarci sopra il Queensboro Bridge (The Bridge, per i maratoneti) dove i senatori, quelli che avevano già corso a New York, avevano buon gioco a terrorizzare noi novellini “Passeremo nell’altra carreggiata” “Una salita eterna” “Dopo il ponte entri nel Maracanà”

Il riposo del viaggiatore (aka jet lag shock)
Il riposo del viaggiatore (aka jet lag shock)

Finalmente all’Empire Hotel, a due passi da Columbus Circle e dall’ultima curva prima del rettilineo finale in Central Park.
Sono stanco, ma mi bastano dieci secondi per entrare nella stanza, mollare tutto sul letto, fare un paio di scatti dalla finestra e riprecipitarmi fuori per esplorare la città.

I miei compagni di avventura (siamo ancora solo una decina, gli altri arriveranno il giorno successivo) si affidano alla guida esperta di Ippolito.
L’idea sarebbe di riuscire ad attendere fino alle 20 per mangiare qualcosa e poi tornare a dormire.
Ma dopo aver attraversato un paio di Avenues siamo già a caccia del Burger Joint (indicato come il posto migliore per mangiare un hamburger persino da Neil Carey, protagonista dei romanzi di Don Winslow).

Non faccio a tempo a capire che il grande edificio classicheggiante che ha attirato la mia attenzione è la Carnegie Hall, che vedo l’ultimo dei miei compagni infilarsi nella ruota girevole di un grande hotel.
Gente alla moda, seduta ai tavolini di una lussuosa sala da thé.
Vestiti che non sono pretenziosi, ma che pur nella loro semplicità fanno capire di essere costosi. Belle mamme, bei papà, bei bambini… tutto sembra bello in quel posto.
Arriviamo alla reception dell’hotel e proprio mentre io mi domando cosa siamo venuti a fare qui, Ippolito curva bruscamente a destra e sparisce dietro una tenda rossa.
Una porticina ci introduce in un antro, rivestito con perline di legno, alcuni tavoloni lungo i muri e un unico grande bancone dove le persone attendono paziente mente in fila.

E’ il paradiso del burger.
Un posto alla moda, che viene direttamente dal passato, incastonato in una delle gemme di Manhattan.
Si deve far baruffa per sedersi. Alcuni di noi fanno la fila, le ragazze le mandiamo avanti per prendere posto, ma interviene Ippolito per difenderle dalle mire di tre ragazzotte locali.
Io studio il menu (che è un foglio di carta da impacco scritto a pennerelli e appeso sul muro) cercando qualcosa di vegetariano.
Ordino, pago e aspetto che chiamino il mio nome.
Alcuni ragazzi si stringono e mi fanno posto in un bancone.
Scoprirò poi che sono italiani…

Il panino più buono della storia dei panini.
Invece della carne c’era il cheddar alla piastra, ma era unto il giusto e ricco di salse e cipolla.
Peccato solo che, a causa del mio digiuno alcolico, ho dovuto declinare la birra.

Fuori dal Burger Joint il gruppo si divide: gli atleti puntano l’albergo e il sonno ristoratore, noi irriducibili preferiamo un ultimo giretto a piedi.
Raggiungiamo Times Square e le sue insegne luminose, poi rientriamo verso l’albergo attraverso la Broadway dove riconosco (difficile ignorarla) l’insegna dell’Ed Sullivan Theater reso famoso dal Letterman Late Show.
Ancora immagini che si accavallano confuse nella mia memoria… ed infine il letto.

Il primo giorno a New York è andato.

Quello strano effetto di vuoto

E’ un’esperienza comune.
Dopo che hai preparato a lungo una gara, quando finalmente viene il momento di cullarne la medaglia, ti senti svuotato.
E’ come se, nelle 26 settimane che mi hanno portato al traguardo di Central Park, la preparazione alla maratona fosse stato il mio bastone da passeggio, il metronomo della mia vita.

radio

L’effetto finale, però, è stato che dopo il traguardo, insieme al senso di soddisfazione per aver fatto quello che mi ero ripromesso, è apparso anche uno strano senso di vuoto.
Come se tutto avesse perso un po’ senso.

Martedì scorso sono tornato in Italia.
Ho dato un po’ la colpa al fuso orario, un po’ alla giusta sensazione di godermi il riposo.
Ma mi sentivo svuotato, senza voglia di correre.

Oggi è passata una settimana e un giorno, così ho deciso di scuotermi da questa apatia.
Lo faccio pubblicamente, come ormai succede da più di sei mesi, sulle pagine web di questo mio blog.

Oggi si riprende.
Parto piano, con questo post.
Nei prossimi giorni vi racconterò di New York e della maratona.

Nel frattempo riprendo gli allenamenti.
Mi sono messo la Mezza di Milano che si corre il 26 novembre come tappa intermedia…
Poi vedremo a che cosa puntare.

Rimane un senso di gratitudine per questa bellissima esperienza.
E la voglia di dare continuità a questo progetto #26W26M.

Come dicono gli inglesi:
Stay tuned!

La maratona è una questione di rituali

Eccomi qua, in viaggio verso New York, concluse le 26 settimane di preparazione, iniziano la decina di ore di viaggio e poi, domenica, le poche ore della gara.

In realtà la cosa sarà un po’ diversa, e anche i prossimi giorni saranno ricchi di accadimenti (oltre alla visita della città).
Perché quando vai a New York ci sono tradizioni da rispettare.
Cose tipo la visita al centro maratona per il recupero pettorale del giovedì.
O la corsetta a Central Park sul percorso del Reservoir di sabato.
O la cena a base di pasta nel ristorante italiano la sera prima…

Rituali che ti avvicinano alla sveglia all’alba di domenica, con il viaggio verso Staten Island e la lunga attesa prima del colpo di cannone.

A ben pensarci, noi maratoneti, abbiamo tutta una serie di piccoli rituali.
Non solo per New York, ma per tutte le gare.

Ci sono i rituali legati all’allenamento.
I tre lunghi, con il terzo lunghissimo da 33/35 tre settimane prima della gara.
Le ripetute lunghe dell’ultima settimana o il diecimila tirato prima di iniziare la settimana di scarico finale.

Ci sono rituali legati all’alimentazione.
Lo scarico proteico della settimana prima e il carico di carboidrati della vigilia.
I gel da prendere al decimo alla mezza e al trentesimo.
La tazzina di caffé subito prima di partire, la mela o l’arancia subito dopo l’arrivo.

Ci sono rituali legati all’abbigliamento.
I capi da indossare nell’attesa e da togliere pochi minuti prima dello sparo.
I cerotti sui capezzoli, il cappellino o la bandana, i manicotti da arrotolare quando poi farà caldo.

Tutte piccole abitudini che hanno un fondo di saggezza e un profumo di scaramanzia.

Ma le abitudini sono una parte importante della vita del maratoneta.
Sono le abitudini che ti spingono fuori al mattino quando non hai voglia.
Sono le abitudini che ti fanno fare decine di chilometri a seduta e che ti fanno mancare la corse se ne salti una.
Sono le abitudini che fanno sì che non ti pesi sommare ai mille impegni quotidiani anche quelli legati al nostro hobby preferito… correre.

motivazione

Jim Rohn, famoso milionario e di conseguenza apprezzato oratore americano, usava dire:
“Motivation is what gets you started. Habit is what keeps you going”, la motivazione è quello che ti spinge ad iniziare, l’abitudine è quello che rende possibile continuare.

E noi maratoneti siamo la conferma vivente di questo assunto.

Da Trenno a Central Park

Domenica ultimo allenamento di rifinitura prima della partenza per New York.

Abbiamo partecipato al Trofeo Montestella, una sentitissima gara (ieri quasi mille arrivati nella prova agonistica e circa 400 nella non competitiva) che si corre in memoria di Cristina Lena una giovane e promettente atleta il cui sorriso aveva stregato tutto il mondo del running meneghino.

10 chilometri su strada, un giro di lancio nella pista di atletica dell’istituto omnicomprensivo di via Natta, poi veloci verso il parco di Trenno e ritorno alla partenza.
E’ una gara cui partecipano atleti molto forti (il primo arrivato, Ademe Cuneo, ha chiuso in 31’11”) ma anche molti di noi “amatori”, si corre sempre l’ultima domenica di Ottobre, quindi è la chiusura perfetta della tabella pre-maratona di New York.

Chi si prepara per la regina della distanze, si sgancia un po’ dalla realtà: quando indossi le scarpette non fai mai meno di una dozzina (meglio quindicina) di chilometri, quindi anch’io ieri mi sono trovato a fare un riscaldamento di oltre sei km prima di allinearmi sulla linea della partenza.
L’idea era di tenere un ritmo veloce ma non velocissimo (per me 5’00″/km) senza strafare.

Prima della partenza pensavo che la vera difficoltà sarebbe stata frenarmi, evitare di superare gli altri, e magari allungare negli ultimi due chilometri.
Invece, come al solito, la realtà è molto più crudele…

Trofeo Montestella
Patrizia ed io, immortalati dal grande Roberto Mandelli di Podisti.Net durante il riscaldamento…

Partiamo insieme ad un gruppo di compagni di squadra, ed in particolare io corro con Patrizia con la quale – teoricamente – dovrei correre la maratona.
Primo chilometro nel traffico della partenza (1000 persone in una pista d’atletica sono comunque una ressa) in poco meno di 5 minuti, al secondo chilometro un altro runner pesta la scarpa di Patrizia, novella Cenerentola, e gliela sfila. Ci fermiamo una 15ina di secondi, ma anche al passaggio del secondo chilometro misuriamo un 5′ scarso.

Poi finalmente prendiamo il passo regolare, sull’ampia strada che porta al parco.
Io fatico a tenere il ritmo, ho la sensazione di andare molto più veloce e sudo a profusione.
Patrizia corre leggera, ed ogni tanto si volta a cercarmi.

I cinque chilometri del giro del parco sono eterni, per me.
Evito di guardare il gps e vado a sensazione…
Poi si inizia la strada del ritorno e cerco solo di alzare lo sguardo, allargare le spalle, far girare le gambe, evitando di pensare al tempo finale.
Si rientra nella scuola, si percorre ancora una volta l’anello della pista e finalmente tagliamo assieme il traguardo.

Il mio crono dice 50’02”, quello di Patrizia 49’56”, il tempo ufficiale della classifica, ci aggiunge una decina di secondi.
Comunque, missione compiuta anche se con molta più fatica di quanto avrei voluto (e mi sarei aspettato).

Ancora due parole sul Trofeo Montestella.
Quest’anno hanno fatto fatica a trovare sponsor e hanno deciso, comunicandolo prima, di ridurre il costo dell’iscrizione a 10 euro e di non inserire nel pacco gara il classico capo tecnico.
Io ho apprezzato la decisione e la trasparenza.
Una bella gara, molto partecipata, organizzata bene (mancava solo l’acqua al ristoro finale)…
Hanno anche tentato di sistemare le cose, recuperando delle maglie tecniche di altre vecchie manifestazioni ed inserendole nel pacco gara (e questo forse l’avrei evitato: non è sempre vero che “piuttosto che niente è meglio piuttosto”).
In bocca al lupo agli organizzatori, si respira molta più gara di corsa in eventi come questo che la tanto paludata DeeJay10 dei grandi numeri!

E finalmente la luce fuori dal tunnel.

Ormai ci siamo.
La tabella questa settimana recita:
martedì: 15 risc + 25′ in progressione
giovedì: 40 minuti corsa lenta
sabato: 30 minuti corsa lenta a Central Park

Mercoledì voleremo a New York… e domenica sarà maratona.

Correre contro la guerra

Ho incontrato Alessandro Bertani, vice presidente di Emergency e compagno di avventura nel progetto #26W26M (“26 weeks for 26 miles“) che ci porterà a correre la maratona di New York del prossimo  5 novembre.
Alessandro è un runner convinto con già alcune 42,195 km alle spalle, ma come me alla sua prima esperienza alla maratona per antonomasia.
Il progetto #25W26M che stiamo raccontando fin dall’inizio su questo mio blog e sul sito della Repubblica dei runner si prefigge come scopo quello di testimoniare il nostro appoggio alla ong creata da Teresa e Gino Strada ma anche, e soprattutto, di raccogliere fondi che verranno utilizzati per fornire i medicinali nel campo profughi di Arbat in Iraq.

Alessandro, partiamo dall’inizio, come si coniugano Emergency e la corsa? Intendo sia nella tua vita personale che da un punto di vista più istituzionale.
“Trovo nella maratona una metafora significativa della ragione di esistere di Emergency. Nel nostro lavoro, abbiamo un traguardo chiaro da raggiungere davanti a noi: l’abolizione della guerra. La guerra è la più grande tragedia umana, il più grande crimine contro l’umanità, che provoca solo morte, distruzione e povertà. La cultura della guerra può solo creare le premesse di una prossima guerra. Nei conflitti contemporanei, oltre il 90% delle vittime sono civili. Stiamo andando incontro alla distruzione del nostro futuro, del genere umano. Abolire la guerra potrebbe sembrare un traguardo folle, utopico. Bene, pensavo la stessa cosa quando sognavo di correre una maratona: un obiettivo folle, utopico, che non avrei mai potuto raggiungere, pensavo. E, invece, un obiettivo ambizioso come tagliare il traguardo di una maratona si può raggiungere, l’ho fatto pure io. Come? Alleandosi, con costanza e determinazione, avendo deciso che quella è la strada da seguire, che passo dopo passo quel traguardo si può raggiungere, perché senza un traguardo non si arriva da nessuna parte. Così è, così sarà, per l’abolizione della guerra. Così è stato per altre follie umane che abolire sembrava in passato utopico, come la schiavitù, che era addirittura legale fino a poco più di un secolo fa: si tratta di ieri, nella storia dell’uomo. Come ci si deve allenare per correre una maratona, con il corpo ma soprattutto con la mente, per abolire la guerra bisogna imparare ad allenare le nostre coscienze, bisogna innanzi tutto volere raggiungere quel traguardo. E poi cominciare a muovere un passo dopo l’altro in quella direzione, nel nostro vivere quotidiano”.

Alessandro Bertani
Alessandro Bertani, vice presidente di Emergency, impegnato in una gara a Roma

Emergency ha tra i suoi testimonial diversi personaggi sportivi famosi…
“Emergency ha avuto e ha diversi personaggi sportivi come sostenitori. La ragione potrebbe forse essere perché lo sportivo ha una sensibilità particolare verso l’integrità del proprio corpo e sente quindi più vicina la minaccia del dolore, dell’infortunio, della menomazione che può compromettere il suo vivere quotidiano, come purtroppo succede alle vittime della guerra e della povertà. E’ una sensibilità simile a quella che condividono molti artisti vicini ad Emergency: l’arte, la bellezza, la poesia e la gioia della vita che rischiano di essere spazzate via in un secondo dall’orrore della guerra.

Un altro modo di raccogliere fondi, invece, è quello delle cosiddette charities, gare di corsa in cui i partecipanti si impegnano a fare fund raising per le ong. Nel mondo è piuttosto diffuso (New York, Londra, Vienna) ma in Italia si è cominciato da poco. C’è la maratona di Milano che con la sua prova a staffetta offre alle associazioni no profit un’occasione per farsi conoscere e raccogliere denaro. E poi ci sono altri organizzatori che devolvono a noi di Emergency una parte del costo del pettorale, mi viene in mente il Tor des Geànts, oppure la Strabologna o il circuito trail del Trofeo Malaspina. O le gare non competitive organizzate dai volontari di Emergency e il cui ricavato va tutto all’attività sul campo”.

Insomma, il running in prima fila…
“Il mondo della corsa che ho conosciuto, soprattutto negli ultimi anni, è portatore di un grande messaggio di solidarietà. Credo sia un modo per restituire qualcosa a chi non può permettersi la gioia di poter praticare sport, qualcosa che noi diamo per scontato, come numerosi comportamenti del nostro quotidiano, comportamenti che invece sono inaccessibili a moltissime persone nel mondo. Pensa a chi fugge dalla guerra e dalla povertà. O pensa addirittura a chi non può nemmeno permettersi di pensare di fuggire dalla guerra e dalla povertà che condizionano le loro vite. A Ostia abbiamo costituito un’associazione sportiva amatoriale, Runners for Emergency, che in soli tre anni è diventata una delle più importanti realtà della capitale. A Milano c’è X.Runners for Emergency, altra realtà impegnata da anni a sostenere Emergency correndo. Mi sembra un canale sano e importante per trasmettere il nostro messaggio di pace e solidarietà”.

Credo sia importante spiegare come funzionano la ripartizione tra i fondi raccolti e i costi per gareggiare
“Emergency pone sempre una grande attenzione alla trasparenza ed è guidata da un principio semplice. Tutto il ricavato deve servire alla missione di Emergency. Non copriamo le spese dei fund raiser, non copriamo i costi dell’organizzazione, tutto quello che raccogliamo serve al progetto specifico che viene dichiarato. Come nel nostro caso, Franz. Tu, Ippolito, Matteo, Pierpaolo ed io ci siamo impegnati in questo progetto di raccolta fondi, #26W26M, chiedendo alle persone di contribuire con una donazione a favore dei pazienti visitati nei centri sanitari di Emergency nel Kurdistan iracheno, facendoci carico noi dei costi di viaggio e di alloggio per la maratona di New York, che correremo insieme. Noi ci mettiamo questo, ci mettiamo la nostra passione e la nostra partecipazione diretta e chiediamo a chi non lo potrà fare personalmente di donare anche solo un piccolo contributo a sostegno del progetto che ci siamo posti come obiettivo: 15mila euro, per coprire il costo di tre mesi di farmaci per i centri sanitari di Emergency nel campo profughi di Arbat, nel Kurdistan iracheno. E io mi impegno a consegnare personalmente i fondi raccolti ai nostri colleghi e a documentare così anche questa nostra attività”.

Ma Emergency di cosa vive?
“Emergency può contare su numerosi piccoli sostenitori, che contribuiscono alla nostra attività come possono, attraverso donazioni occasionali, donazioni continuative (che rappresentano per noi la forma migliore di sostegno, perché ci consentono di programmare gli impegni con maggiore tranquillità), il 5 per mille, i lasciti testamentari, che sono una straordinaria testimonianza di continuità sui valori condivisi, da trasmettere alle future generazioni. Dei circa 50 milioni di euro che raccogliamo negli ultimi anni, il 92% circa viene direttamente utilizzato nella nostra attività istituzionale, la cura di pazienti vittime della guerra e della povertà in Afghanistan, nel Kurdistan iracheno, in Sudan, nella Repubblica Centrafricana, in Sierra Leone, in Italia, impiegando circa 3.000 dipendenti tra medici, infermieri, amministratori, logisti, personale di servizio e di supporto all’estero e nel nostro Paese, e promuovendo una cultura di pace, solidarietà e rispetto dei diritti umani. Dal 1994 ad oggi abbiamo curato oltre 8,5 milioni di persone, 900mila solo nell’ultimo anno”.

Mi sono reso conto che abbiamo parlato di tutto, ma non di quello che fa Emergency. Forse io do sempre per scontato che tutti lo sappiano.Mi potresti racchiudere in una frase lo scopo dell’associazione?
“Costruiamo e gestiamo ospedali e strutture sanitarie nel mondo e in Italia e lavoriamo perché un giorno la guerra venga abolita dal futuro dell’uomo”.

E, per quelli che sono disattenti, cosa c’entra questo con l’Italia? Perché so che siete presenti in modo ormai capillare anche qui da noi che con la guerra c’entriamo poco (fortunatamente!)
“Sei sicuro Franz, che la guerra non c’entri con il nostro Paese? Non solo perché noi, come parte del mondo occidentale civilizzato e benestante, esportiamo guerra e importiamo povertà. In Italia da undici anni ormai denunciamo l’esistenza di una guerra ai poveri, alle persone in stato di bisogno, che siano stranieri o italiani poco importa. Si tratta di persone dimenticate, alle quali è negato il diritto alla cura, un diritto fondamentale dell’uomo riconosciuto dalla nostra costituzione e dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Secondo il Censis sono ormai 12 milioni le persone nel nostro Paese che non hanno possibilità di accesso alle cure secondo i loro bisogni. 12 milioni, Franz. Una persona su cinque che si trova a vivere nel nostro civilissimo Paese. Un Paese che lascia per strada gli ultimi perde la ragione prima del suo esistere, perde il fondamento del vivere insieme. Perché accetta la logica – inumana – della sopravvivenza del più forte, che significa poi del più ricco. Il primo preambolo della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo stabilisce che ‘il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali e inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo’. Sai qual è il concetto che trovo più bello in questa affermazione di principi così alti? L’essere membro di una unica  famiglia umana”.

Per chiudere e tornando alla corsa: cosa ti aspetti da questa maratona di New York?
“Mi aspetto solo di raggiungere il traguardo, con te e con tutti gli amici che correranno con noi, mi aspetto che tagliare quel traguardo finisca per rappresentare per molti la dimostrazione che l’unico traguardo impossibile da raggiungere è quello che non ci si pone. E che se quindi ci poniamo tutti insieme – noi, famiglia umana – il traguardo di abolire la guerra, un giorno quel traguardo lo raggiungeremo, tutti insieme. Quando questo accadrà? Dipende solo da noi. Quanto prima ce lo porremo come traguardo, quanto prima cominceremo ad allenare le nostre coscienze e a muovere un passo dopo l’altro in quella direzione, tanto prima vedremo la linea di quel traguardo farsi sempre più vicina”.

Il progetto #26W26M vede cinque runner, Ippolito Alfieri (imprenditore veneziano prestato a Milano), Alessandro Bertani (vice presidente di Emergency – Roma), Matteo Caccia (attore e autore radiofonico, conduttore di Pascal su RadioDue – Milano), Pierpaolo Petruzzelli (avvocato – Bari) e Franz Rossi (scrittore e blogger – Milano) partecipare alla New York City Marathon sfidandosi tra loro non solo a piedi ma anche nella raccolta fondi.
Potete scoprire come va la sfida e potete sostenere Emergency e il vostro campione andando sul sito di Rete del Dono

Un filo d’ansia

Oh oh, ci siamo….
Manca un mese esatto alla fatidica data: 5 ottobre – 5 novembre.

Oggi tra un mese ci alzeremo all’alba, saliremo sul pulmino che ci porterà al ponte di Verrazzano, e l’ultima parte di questo fantastico viaggio avrà inizio.

Com’è strano il nostro cervello.
Un mese mi sembra pochissimo, ma se penso da quanti giorni sia formato e a quanti chilometri in allenamento dovrò ancora percorrere, allora le cose prendono un’altra prospettiva.
Eppure, a vedere questa data sul calendario, l’agitazione inizia a salire.

Mancano 31 giorni, un lungo (che correremo domenica 15), le settimane di scarico (il periodo più bello della preparazione).
Tutto è stato fatto come da manuale: sono in ottima forma fisica, non ho dolori, non sono particolarmente affaticato.
Tra l’altro la maratona è una gara che ho corso moltissime volte, nelle più diverse condizioni.

calendario

E allora?
Qual è il motivo di questa mia agitazione?

Il fatto è che la maratona incute sempre rispetto ai runner.

Chi non corre, dopo essersi accertato che anche NY sia lunga 42km, commenterà “Cosa vuoi che sia per te? Hai fatto la 100km, il Tor des Geants, questa è una passeggiata”.
Ma la maratona non è solo una distanza da coprire nel minor tempo possibile.
E’anche un mito da sfidare.

Ovviamente non si tratta della paura di morire (Fidippide, l’emerodromo che si narra morì dopo aver portato ad Atene la notizia della vittoria sui Persiani nella piana di Maratona, probabilmente è solo una leggenda).
Ma le nostre paure sono forse più piccole, ma molto concrete.

Come vestirsi, come alimentarsi e, soprattutto, che passo tenere.
Perché in maratona non c’è possibilità di errore.
Sbagli il ritmo alla partenza andando troppo forte e prima della fine salti e cammini fino al traguardo.
Sbagli il ritmo alla partenza andando troppo piano e quel numero che avevi in testa diventa irraggiungibile.

La maratona è, prima di ogni cosa, un progetto che parte mesi prima.
Poi è la capacità di tenere un ritmo stabilito.
Infine è riuscire a tener duro nel momento (immancabile) della crisi.

Ci vuole un ingegnere, un ragioniere ed un guerriero, tutti nelle stesse scarpe.

Manca un mese.
La sveglia stamattina è suonata come tutti gli altri giorni.
Oggi mi allenerò al campo (ripetute lunghe).
A cena starò ancora attento a cosa mangio.

E domani, dopodomani, la prossima settimana, farò lo stesso.
Quindi non ci sono motivi per essere in tensione.

Però oggi, solo oggi, osservando la data del calendario, lasciatemi essere un po’ in ansia.