Il paradosso della corsa

Ma davvero la corsa deve essere per forza sofferenza? Ovviamente dipende dai propri obbiettivi: se vuoi il successo devi essere pronto a soffrire

La giornata di ieri era partita con un programma ambizioso: sveglia alle 6:15, corsetta dalle 6:30 alle 7:30, doccia, colazione e alle 8 e spiccioli pronto alla scrivania…
Ma come tutti i programmi ambiziosi, si era subito scontrato con la dura realtà e alle 6 ero stato svegliato dal tambureggiare della pioggia sul tetto. Ho disattivato la sveglia programmata e mi sono girato dall’altra parte.

La colazione con tè caldo e lo sguardo perso tra le nuvole fuori dalla finestra e sul termometro che segnava 9 gradi, mi hanno confortato nell’idea di rinviare la corsa alla pausa pranzo. Però verso le 12 la pioggia continuava a scendere e io già mi cullavo nella scelta di cosa preparare da mangiare.

I programmi ambiziosi, come dicevo, muoiono infrangendosi contro i dettagli quotidiani.

asfalto

Un momento, ma cos’è quella luce strana? Un raggio di sole brilla sull’asfalto reso lucido dalla pioggia che ha smesso di cadere.
Cogliere l’attimo… mi cambio al volo e sono fuori.

Ho un’oretta scarsa, quindi giro solito.
So già che soffrirò, l’aria è gonfia di umidità e quindi sembra di non riuscire a riempire i polmoni fino in fondo.
Decido di ignorare completamente il cronometro: oggi mi limiterò a far girare le gambe.

Al primo cambio di pendenza inizio a sbuffare. Poi i muscoli si imballano, la salitina che di solito affronto prudente ma rilassato, stavolta sembra un muro.
Per fortuna inizio il tratto in asfalto che porta al giro di boa… ancora due-trecento metri e si torna a casa.
La strada del ritorno sembra scorrere più veloce: sono in leggera discesa ma faccio ugualmente fatica.
Finalmente gli ultimi cento metri, tanto vale allungare.
Mi fermo e fermo il cronometro. Leggo e rileggo il tempo che segna e mi scappa un sorriso: ho impiegato un paio di minuti meno del solito (e su 8 km fanno la differenza).

Questa cosa è davvero buffa, quasi un paradosso: meno ti godi l’allenamento, più soddisfazione ricavi nel vedere il risultato. E al contrario meno soffri durante, più sei insoddisfatto dopo.

Ovviamente è un falso paradosso, più un gioco che altro.
Il runner evoluto è soddisfatto proprio dal capire che ha messo sotto stress il proprio corpo.
Per ottenere un successo devi soffrire.

Però il fatto stesso che ne stia scrivendo, rende evidente che non sono più uno che cerca la soddisfazione in un allenamento ben riuscito, ma si gode una corsa ben riuscita.

Cambio di filosofia?
Mah, forse solo un po’ di pigrizia.

Per oggi archivio con gioia il risultato acquisito e mi godo la giornata di recupero.
Domani vedremo…

Continuare a correre

Siamo finalmente liberi di andare a correre, ma – almeno per me – le cose non vanno esattamente come avevo sperato. Tutto è più difficile

Avevano ragione gli autori di Niente panico si continua a correre quando hanno stilato la regola numero 99 che recita:

#99: Se allenarsi è faticoso, prova a riprendere

Riprendere a correre dopo un periodo di stop forzato è davvero difficile. Tanto che, appunto, è meglio non smettere mai.

Ma nel nostro caso siamo stati obbligati a fermarci a causa del distanziamento sociale e, dopo due mesi di inattività, abbiamo riguadagnato i nostri parchi, le nostre strade, le alzaie di navigli o fiumi, i lungomari, i monti… insomma non più legati al guinzaglio dei 200 metri dalla propria abitazione, abbiamo finalmente ripreso a correre.

Il 4 maggio, fatidica data di riapertura, sono uscito per il primo allenamento. E da quel momento non mi sono più fermato, alternando diligentemente corsa e trekking (a dire il vero, anche un’ultima uscita stagionale di scialpinismo).

Oggi, a due settimane di distanza, provo a tirare le somme. E devo dire che è stato (anzi che è ancora) tutto molto più difficile del previsto.

podista

C’è, ovviamente, lo scarso allenamento e i chili di troppo accumulati.
C’è anche un po’ di pigrizia che si è formata come ruggine intorno alla forza di volontà.
Ma il primo vero ostacolo è il cervello.

La corsa, per me, è stata da sempre libertà del corpo dalle regole imposte dalla mia componente razionale.

Non basta volerlo per andare a 5’/km o per finire una gara o per arrivare prima di un altro concorrente.
E’ necessario un sapiente mix di testa che guida, senza perdere il contatto con il corpo che deve eseguire.

Mai come nelle attività fisiche (specialmente quelle ritmate) il cervello regredisce ad una forza quasi istintuale (sembrerebbe una contraddizione). So cosa devo fare, ma è il corpo che detta le condizioni.

Ebbene, in lunghi anni di pratica, ho imparato bene la lezione e – in qualche modo – mi aspettavo che il team lavorasse ancora all’unisono.

Invece no. Il cervello, fidandosi delle tante altre esperienze simili, si aspetta che il corpo proceda al ritmo richiesto. Ma il tapino fatica e quello, invece di dargli tregua, si blocca ed interpreta i segnali di affaticamento come un collasso in corso.

Il risultato finale è che, in tutte le ultime uscite, le mie performance sono peggiorate.

Parto senza pormi obbiettivi (questo è il cervello razionale), appena esco dalla fase di riscaldamento mi aspetto di ingranare (e questa è l’esperienza che parla). Invece inizio a faticare sempre di più.

Lo so che è solo questione di risvegliare le abitudini, di ritrovare un minimo di smalto.
Ci vorranno ancora un paio di settimane, o di mesi. Ma non ho fretta.

Nel frattempo mi godo le mie uscite (specialmente quando arrivo alla fine, ad esser sincero), mi godo il calo di peso, e tutti i numerosi benefici connessi con la corsa.

Va anche detto, però, che in questi anni il mio modo di correre è cambiato.
Non c’è più l’interesse per la prestazione, ma il piacere dell’esplorazione dei luoghi che attraverso. Corro con tutti i sensi bene all’erta. Ascolto i suoni, apprezzo i profumi e i panorami.

Ma questo, invece che aiutarmi peggiora le cose. Appena sono stanco individuo subito un nuovo sentiero da esplorare o un albero da osservare. Insomma è facile trovare una scusa per fermarmi e tirare il fiato.

Sembra che io si diventato saggio.
Che abbia compreso il vero senso della corsa.

Invece sono il neofita di sempre: ad ogni fine allenamento interrogo il cronometro e calcolo la velocità media, i chilometri fatti, il dislivello guadagnato o perso… e ci resto male.

Se c’è una lezione da imparare, quindi, è che nulla cambia con l’età, con il coronavirus, con la saggezza: come dicevo all’inizio, non preoccupatevi, si continua a correre.

Allenamento 2.0

L’abitudine all’allenamento può aiutarci ad affrontre i tempi del Covid19

Premessa importante per tutti i miei amici corridori: questo non è un post sulla corsa, o perlomeno non in senso stretto.

Fino a qualche anno fa, correre per me significava anche gareggiare.
Non era lo scopo principale, non sono mai stato un atleta di punta, ma la gara era un modo concreto per verificare il mio livello.
Provavo a chiudere una maratona entro un certo tempo o arrivare in fondo ad una ultramaratona o ad un ultra trail.

Per raggiungere gli obbiettivi che mi ero prefissato sapevo che l’unica strada era quella di allenarmi seriamente.
In una parola essere rigoroso nel rispettare una tabella di lavori.

Oggi parlo di tutto questo perché mi sono convinto che io debba applicare lo stesso rigore nella mia vita in questi tempi di isolamento forzato.

John_William_Waterhouse_-_Dolce_Far_Niente_(1880)

Il corona virus ci spaventa.
Se non temiamo per noi stessi, temiamo per i nostri figli o i nostri genitori.

La vita come la conoscevamo fino alla fine di febbraio non esiste più.
Non possiamo più andare a bere un caffé, comprare un libro, tagliarci i capelli.

Mancano i rapporti sociali, il cazzeggio con i colleghi alla macchinetta del caffé, la pizza del giovedì sera tornando da Milano, l’aperitivo con gli amici, il corso di scialpinismo e via dicendo.

Mancano le strette di mano, le carezze, gli abbracci.

Per evitare il diffondorsi del Covid 19 l’unica strategia è evitare i contatti umani. Ma noi uomini siamo geneticamente disegnati per tessere rapporti con i nostri simili.
Il virus ci colpisce nel profondo della nostra essenza.

Allora, esattamente come quando dovevo affrontare una gara su una distanza che non avevo mai percorso, ho deciso di fare due cose.
La prima è creare un rigoroso e metodico programma di avvicinamento al traguardo.
La seconda è quella di spezzare il percorso in micro obbiettivi.

Ovviamente l’allenamento in senso stretto non si applica. Ma rimangono le regole generali dell’allenamento.
#01. Mangiare bene: evitare eccessi e sostanze inutili (alcol e dolci extra); mangiare senza alzarsi gonfi da tavola; rispettare la piramide inversa (colazione abbondante, pranzo regolare, cena leggera).
#02. Non rimandare: fare oggi tutto quello che c’era in programma di fare.
#03. Curare i dettagli: ogni cosa deve essere fatta cercando di farla nel miglior modo possibile.
#04. Rispettare le regole: in questo caso mi sono imposto di scrivere regolarmente sul blog, di informarmi senza subire l’ondata dei media, di telefonare regolarmente ai miei vecchi (in modo da tranquillizzarli) e ai miei figli (per essere tranquillizzato), di contribuire come posso ad informare senza generare panico o rabbia.

Il vecchio trucco dei micro-traguardi o traguardi intermedi non ha quasi bisogno di spiegazioni.
Un traguardo lontano o, come nel nostro caso, un traguardo che non sappiamo quanto lontano sia, ci blocca.
Molto meglio operare per micro obbiettivi.

Il mio primo obbiettivo è il prossimo weekend quando ho in programma di finire un lavoro in giardino.
Poi c’è il 4 aprile, data in cui sapremo come evolverà il periodo di isolamento.
Ed in base a come arriviamo a quella data ci saranno altri possibili obbiettivi, non temporali ma di risultato (e questi per il momento sono ancora top secret).

…senza titolo

-10. Buffi rivoli di acqua scendono a bordo strada

-9. Le foglie rese viscide dalla pioggia non danno appoggi sicuri al piede

-8. Un gruppo di ragazzini dalle rosse divise corre e chiacchiera

-7. Il passo degli amici, sempre dietro all’inizio, sempre davanti alla fine

-6. Freddo. Le gambe sembrano intorpidite

-5. Perché la luce del lampione sembra non illuminare il segno dei 100 metri?

-4. Al ritorno non basta il tempo per rifiatare

-3. Le mani adesso sono bollenti

-2. Perché la testa si stanca sempre un po’ dopo il corpo?

-1. La doccia bollente

Finito.

Dieci ripetute in salita.

Uno stato di sospensione

Et voilà.
La scorsa settimana la magia è stata replicata. Ancora una volta.

ore 7.30 – a Milano il cielo è sereno, ma al bar mi dicono che è prevista pioggia.
ore 12.00 – infatti un’acquerugiola fastidiosa bagna l’asfalto e i tetti delle macchine.

Devo decidere cosa fare.
Avevo previsto di correre, ma non ho voglia di prendere l’acquazzone serale, quindi salto il pranzo e vado al campo XXV Aprile.
Si corre in Montagnetta!

Il cervello registra automaticamente le sensazioni. Tutte negative.
Le gambe non girano; il fiato è corto; il mio corpo è una massa ballonzolante intorno allo scheletro.

Cerco di convincermi: Sono già qui, so che dopo starò meglio, e poi sfogo un po’ di tensione della giornata

correndo nella pioggia

La pioggia sembra aumentare, si mescola al sudore che mi cola negli occhi.
Scollego il cervello dalla corsa e lo metto a riflettere sulla mia vita, sulle scelte che sto facendo, sugli affetti.

Così le gambe entrano nel ritmo giusto.
Assaporo la fatica per quello che è.
La mente vaga libera e io mi diverto una volta in più.

Quando incontro un amico che mi saluta, mi spiace persino uscire da questo stato di sospensione.

Ma giro l’angolo, arrivo all’auto, fermo il cronometro.
Erano mesi che non riuscivo a correre 10 chilometri in progressione.

Sono di nuovo pronto a reimmetermi nella routine.
E il pomeriggio in ufficio è volato

Il metronomo

Era quasi estate, le ultime faticose settimane di scuola, probabilmente in seconda o terza media.
Mia madre, a colloquio con il professore di matematica, ricevette uno strano invito a farci provare il canottaggio.
Fu così che il sabato successivo, mio fratello ed io ci recammo presso la Canottieri Nettuno a Trieste e io feci i primi passi nello sport.

Ero un simpatico ciccione (d’altronde esistono ciccioni antipatici?) che non sapeva nulla di attività fisica.
Me la cavavo a scuola, suonavo la chitarra ed avevo qualche amico. Ma sport zero.
Mi ricordo che l’allenatore mi osservò e, toccandomi prima la pancia e poi il petto, disse: “Franzile (un vezzeggiativo sloveno che suonerebbe Franceschino) sposteremo tutto quello che c’è qui sotto, qui sopra” e se ne andò.

Poi iniziò il percorso fatto di corse (che scopersi di amare a differenza degli altri canottieri) e di vasca voga, dove apprendevamo i rudimenti dell’arte rematoria.
C’ero portato. Tanto che, dopo aver spostato i chili dalla pancia al petto, sono entrato nella squadra e mi sono tolto parecchie soddisfazioni in gara.

Una delle prime lezioni che imparai fu di sentire il ritmo della barca.

Il canottaggio è uno sport di potenza. I remi piantati in acqua spingono in avanti lo scafo sottile. E quando il vogatore si precipita verso poppa per piantarli di nuovo in acqua il più avanti possibile, contrasta il moto dell’imbarcazione.
E’ tutta una questione di ritmo. Se ce l’hai la barca vola, se non ce l’hai la barca si pianta.

Ben presto scopersi che il ritmo è fondamentale in ogni cosa.
Nella corsa il ritmo è tutto. Imbriglia la potenza e la trasforma in armonia e poi in performance.
Nella musica, trasforma le note in melodia.
Nella vita, se riesci a imporre un ritmo, gli accadimenti si mettono in fila e le tue azioni producono risultati.

metronomo

Riflettendo su questo ho deciso che, come fatto già molte altre volte in passato, assegnerò alla corsa un ruolo di metronomo.

Le chiederò di essere la regola costante delle mie giornate.
Questa volta non per arrivare ad un risultato cronometrico o per partecipare ad una gara, ma per rimettermi in riga, per riportare la mia vita nel ritmo che io vorrei avesse.

Ho ripreso a correre.

Non guardo il cronometro (anche perché temo sia impietoso specchio della mia attuale forma) ma cerco di correre con costanza.
Alterno le corse e le camminate in montagna (altrettanto stimolanti per l’apparato muscolare e cardiocircolatorio ma meno logoranti per le articolazioni).
E l’uscita di corsa è diventata la cadenza attorno alla quale faccio girare i miei altri impegni: il lavoro, la scrittura, le passioni.

Un piccolo esempio concreto è questo blog.
Cercherò di aggiornarlo con cadenza settimanale, il lunedì, tanto per partire con il piede giusto.
E se il miracolo si rinnoverà, corsa dopo corsa, settimana dopo settimana, mi rimetterò alla pari con il resto della mia vita.

Coppe & bidoni

Sono uno di quelli per cui il valore delle cose non è legato al valore materiale. E questo vale sia per gli oggetti che le persone.
Io do grande importanza ai sogni, ai progetti, al valore ideale e simbolico.

Provo a spiegarmi meglio.

Ieri sera, finito di lavorare, sono tornato in albergo e sono uscito a correre.
Era tardi, c’era buio, eppure le strade brulicavano di macchine e di persone.

Mentre mi avvicinavo al parco di Trenno, ho iniziato a pensare a quello che volevo fare.
Al momento non ho obbiettivi sportivi, corro per restare in forma. Anzi per ritornare in forma.
Correre è uno dei modi di affermare il controllo sul mio corpo, è piegare il mio essere ad un progetto di vita che ho per me stesso.

Ho deciso di dedicarmi ai bidoni.

il parco di trenno

Il circuito in asfalto di Trenno è lungo 4 km ed è punteggiato di cestoni per l’immondizia.
Sono sparsi un po’ a caso, in prossimità delle panchine, distanziati a volte di una ventina di metri a volte di un centinaio.
“Fare i bidoni” per me significa alternare un tratto di corsa veloce ad uno di recupero usando come partenza ed arrivo quegli affari verdi.
Un metodo per stimolare muscoli, cuore e polmoni in modo non cadenzato.

Sono partito prudente.
Oggi per me 4km di fartlek sono una sfida.
Via via che mi inoltravo nel parco prendevo confidenza e spingevo di più nei tratti veloci. Un po’ baravo (lo confesso) cercando con gli occhi il bidone successivo e regolando il mio passo sulla distanza che mi separava da esso.
Comunque ho terminato soddisfatto il mio anello e ho ripreso la strada verso l’hotel mantenendo una velocità dignitosa e, finalmente, facendo volare i pensieri.

Tra meno di una settimana esce il nuovo libro, “Niente panico, si continua a correre”, scritto ancora una volta con Giovanni Storti.
Si tratta del seguito di “Corro perché mia mamma mi picchia” che tante soddisfazioni ci ha dato, compresa la vittoria del premio Bancarella per la letteratura sportiva.

Così sono finito a pensare alle coppe che ho vinto in vita mia e come nessuna di esse trovi spazio nella mia vita.
Quella vinta da ragazzo ai campionati di canottaggio è stata buttata in uno dei traslochi, quella vinta alla Monza Resegone (quinta squadra mista) è a casa di un altro membro del team, e quella del premio Bancarella è a casa di Giovanni.

Più che le coppe a me piacciono i bidoni.

La coppa è un bel promemoria di quello che abbiamo ottenuto.
I bidoni del parco sono un obbiettivo per quello che vogliamo ottenere.

Correvo e provavo a mettere ordine nella mia vita.
Come per le coppe e i bidoni, riflettevo sul fatto che non bisogna fossilizzarsi su quanto si ha ma su quello che si desidera.

Mi piacciono le persone con una luce di desiderio negli occhi.
Quelle che non si preoccupano di dove cenare alla sera ma di cosa fare da grandi.
E quasi mai questo atteggiamento si fa mettere in gabbia dall’età.

Pensieri sparsi e 10 km a un buon ritmo.
Non male per un martedì sera qualsiasi…

La routine

C’è un’arma segreta per i corridori di lungo corso (intendo quelli che sono anni che corrono).

Nei giorni in cui la voglia cala puoi usare gli amici come stimolo, oppure – ed è quello che ho fatto io ieri sera – affidarti alla routine.

Il martedì sera, quando sono a Milano, tendo ad unirmi al TricoTracoTeam che è il nome in codice del solito gruppetto di amici.
Si corre al Parco Sempione (ne avevo già scritto qui), di solito un paio di giri esterni ed un paio di giri dell’Arena Civica.

Ieri sera, dunque, mi sono unito a loro, pur sapendo che lo stato di forma mi avrebbe messo in crisi.
Ma la scusa era buona per rivedere gli amici e poi, dentro di me, contavo sul Buzz e sul suo passo (“lento ed inesorabile”).
Purtroppo il Buzz ha dovuto dare forfait, privando il gruppo delle sue battute surreali e, soprattutto, privando me di una buona scusa per rallentare.

Primo giro, complice il riscaldamento, passa tranquillo.

Salutiamo un po’ di amici che incrociamo (non finisco mai di stupirmi della quantità di persone che corrono al Sempione, ormai ce ne sono più lì che alla Montagnetta), chiacchieriamo del più e del meno, loro mi aggiornano sulle ultime vicende personali e io faccio lo stesso con le novità dal fronte occidentale.

Alla fine del primo giro loro scalpitano per accelerare, io ansimo per la velocità, così decido di mollarli al loro destino e di anticiparli verso la doccia.

Ho corso poco più di tre chilometri e così subentra un leggero senso di colpa.
“Per tre chilometri potevi anche fare a meno di cambiarti” dico tra me e me.
Ma la voglia è poca… bisogna inventarsi qualcosa.

Ed ecco che entra in gioco la routine.

Yelena Isinbayeva
Una delle routine più famose in atletica era quella che usava l’astista Yelena Isinbayeva per concentrarsi tra un salto e l’altro…

Se pensate alla routine come il monotono susseguirsi dei fatti della vita, allora ha un’accezione negativa.
Ma se invece considerate la routine come una serie di movimenti che si ripetono per ottenere un risultato, allora cambia.

Avete presente i grandi meeting di atletica e le routine ossessive di alcune star?
I velocisti ai blocchi di partenza, oppure i saltatori mentre cercano la concentrazione…

Ecco, la routine è una confortevole coperta di Linus nella quale rifugiarsi.

E io ieri ho fatto così.
Ho staccato il cervello (o meglio mi sono messo a pensare ad altro) e ho lasciato che le gambe facessero il loro lavoro.

Ho continuato a girare intorno all’Arena, variando il ritmo, cercando di aumentare in prossimità dei due rettilinei e recuperare in curva, cercando la spinta corretta dei piedi e sforzandomi di evitare strappi.
Già da subito la tentazione di mollare e fermarmi se n’era andata.
Dopo qualche giro sono uscito verso la strada ed ho atteso il resto del gruppo per tornare con loro verso casa (e la doccia e la pizza).

Ed ho scoperto che, alla fine, avevo corso quasi la loro stessa distanza (una differenza inferiore ai 500 metri).

Non dimenticatevi la routine, dunque.
Qualche volta salva un allenamento!

Incontri ravvicinati del III tipo

Lunedì, al termine della giornata lavorativa, ho deciso di andare a fare una corsetta rigenerante.

Il percorso è quello che chiamo “Basso nel Bosco”.
Un anello che parte da casa e che amo particolarmente (non fosse altro perché è breve!)

Si parte con un tratto in discesa attraverso il paese fino ad imboccare una lunga sterrata in leggera salita.
Sono circa 4 chilometri, perfetti per scaldarsi bene.
Poi si lascia la strada e si imbocca il sentiero che con un continuo susseguirsi di salite e discese si inoltra nel bosco di abeti.
Si passano alcuni punti caratteristici, tra cui una pietraia gigantesca, fino a sfiorare un’altra frazione prima di rituffarsi in discesa e, attraverso un castagneto, rientrare a casa.

Se vogliamo dare i numeri:
Poco più di sette chilometri, poco meno di 400 mt di dislivello positivo, poco meno di un’ora per chiudere l’anello.

mucca volante

La magia della corsa ha iniziato a manifestarsi mentre attraversavo il primo bosco.
Ho lasciato alle mie spalle i problemi del giorno e ho iniziato a pensare ad altro.
Sulla pietraia stavo fantasticando su una possibile variante del percorso.

L’aria era tiepida e gonfia di umidità (aveva piovuto tutto il giorno).
Il sole giocava a nascondino tra le nuvole sui monti che chiudono la valle.
Ero circondato dai suoni della natura: il cinguettio degli uccelli tra i rami, il placido scampanio delle vacche al pascolo, persino il rintocco del campanile sembrava naturale.

Ho imboccato la discesa finale, la mente stava già pregustando la doccia.
Ho lasciato che la forza di gravità mi facesse accelerare.
Ho attraversato un pratone, saltato una poderale e sono piombato sul sentiero che taglia il castagneto.

Il fatto è che proprio quel bosco era stato scelto da una mandria di vacche e manzetti che stavano apprezzando il gusto pieno di quelle erbe montane.

Non so chi fosse più sorpreso, se io che non le avevo mai incontrate in quel tratto o loro che si sono viste precipitare addosso una macchia colorata, fulminea e silenziosa.
L’effetto è stato un fuggi fuggi generale.

Non potete immaginare quanto veloci si muovano quei quadrupedi.
Siamo abituati a pensarli placidi e ruminanti, ma se messi alle strette filano veloci come cavalli.
E non potete immaginare che strepito hanno fatto attraversando di corsa il bosco: era tutto uno schiocco di rami spezzati, un frastuono di massi rotolanti e un clangore di campane.

Superato il primo attimo di sbigottimento ho sorriso e proseguito la mia corsa, regalando un ultimo brivido a tre vitelli che non avevano fatto a tempo a seguire le madri attraverso il bosco.

Sono gli incontri che rendono così piacevole correre da queste parti.
A volte è il frullo d’ala di un falco che si alza in volo, a volte un lampo bianco della coda di un capriolo.
A volte una mandria di vacche in fuga…

Qui non ci si annoia mai!

Vecchie ciabatte

Era un bel po’ di tempo che non andavo al XXV aprile.
Mercoledì sera sono tornato.
Non a correre, ma solo per usarne lo spogliatoio e la doccia, prima e dopo una corsa in Montagnetta.

Faceva caldo. O meglio c’era afa.
Aveva piovuto fino a pochi istanti prima e l’aria era satura di umidità come solo a Milano sa essere.

Mentre attendevo l’arrivo di Sergio, ho fatto un paio di giri dei palazzoni.
Un po’ per riscaldarmi, un po’ per far vedere al mio amico che avevo già sudato.

Quando lui si è presentato, puntuale, all’appuntamento, abbiamo iniziato a girare facendo un vecchio percorso (l’anello di Moebius) che non facevo da anni.

Sei chilometri di collinare che puoi percorrere ad libitum.
L’avevo battezzato così perchè, come nel celebre anello, giri e giri e giri intorno alla Montagnetta senza mai ripassare dallo stesso punto.

Finito l’allenamento doccia, kebab e riunione al CAI.

campo XXV aprile a Milano
Uno scorcio della pista del XXV Aprile (ph. Franz Rossi)

Un tuffo nel passato in cui ogni gesto mi veniva automatico.

L’entrare in spogliatoio, cambiarsi, prendere il solito armadietto.
Uscire e percorrere ad occhi chiusi un anello abituale, senza necessità di sapere quanto avessi corso.
Il rientro al campo, la doccia di destra chè ha il getto più forte, l’ordine in cui le cose vengono riposte nella borsa…

E’ stato un po’ come per le ciabatte.
Sai che le nuove sono più belle, ma sei abituato alle vecchie e quasi preferisci usare quelle.

All’uscita, il campo XXV aprile era illuminato da un raggio di sole.
Ci ho corso per quasi vent’anni, sarà difficile togliermelo dal cuore.