E correndo la incontrai lungo le scale,
quasi nulla mi sembrò cambiato in lei.
La tristezza poi ci avvolse come miele,
per il tempo scivolato su noi due
“Ecco qua – pensò Ilaria con un moto di fastidio – 50 anni, una vita da ricominciare e l’unica cosa che so fare è usare versi di canzoni per cercare di fare chiarezza su quello che mi capita”.
Chiuse la porta dell’ascensore con un moto di fastidio, ma all’ultimissimo momento fece attenzione che non sbattesse per non dar noia alla dirimpettaia.
Si destreggiò a cercare nella borsetta le chiavi di casa, usando la gamba sollevata per appoggiare la borsa della spesa alla parete e non a terra.
Due mandate sopra, due mandate sotto, ed era dentro.
“Dovrei prendere un gatto, almeno ci sarebbe qualcuno che mi aspetta a casa”.
Senza accendere la luce arrivò in cucina e poggiò la spesa sul tavolo. Poi proseguì verso la camera, scalciando via le ballerine in prossimità della scarpiera dove le avrebbe riposte. Arrivò in bagno, abbassò con un unico gesto pantaloni e slip, sollevò il cappotto e si sedette sul water.
“Finalmente!”
Alzando gli occhi si vide nello specchio.
Arruffata, fatta su nel cappotto come quei barboni che si avvolgono nelle coperte per passare la notte vicino alla stazione. Gli occhi pesti di chi non dorme abbastanza. La faccia magra, scavata, in alcuni giorni la rendeva orgogliosa del suo peso perfetto, ma oggi sembrava accentuare la profondità delle occhiaie.
Il sorriso che era stato la sua prima reazione, le si gelò sulla faccia.
“Cosa c’è poi da ridere… La situazione mi sembra tragica”
Niccolò. Quel figlio di puttana con un nome da bambino.
Con lui tutto era andato alla velocità della luce.
Si erano conosciuti da ragazzini, si erano sposati dopo meno di sei mesi e lui se n’era andato qualche settimana prima di festeggiare il primo anniversario delle nozze.
Aveva lasciato sul tavolo della cucina una lunga lettera piena di pensieri sugli errori e la necessità di ricominciare.
Aveva svuotato con maniacale attenzione l’armadio di tutti i suoi vestiti, il mobile del salotto di tutti i suoi dischi, e il cuore di Ilaria.
Poi c’erano state tante altre storie, durate tutte pochi mesi, fatte di innamoramenti fugaci, vacanze esotiche, cene e feste.
Come diceva quella canzone nel film con Madonna e Banderas?
I’m not talking of an hurried night
a frantic tumble and a shy goodbye
A lei quelle capitavano, notti veloci fatte di capriole frenetiche e vergognosi “ci-sentiamo-presto”.
Eppure non era quello che voleva. Lei sognava piuttosto una persona con cui restare a parlare a letto la domenica mattina.
Aveva sempre dato la colpa a lui.
Quel bastardo le aveva portato via alcuni mesi della sua gioventù e soprattutto l’ingenuità.
Non si fidava più degli altri, non avrebbe permesso mai più a nessuno di ferirla così.
Ma senza fiducia come poteva sperare di ricominciare una storia vera?
“Non ho bisogno di una relazione – pensò – anche se mi commuovo quando Jovannotti canta quella canzone ruffiana, non vuol dire che ci credo”
A te che sei il mio grande amore ed il mio amore grande,
a te che hai preso la mia vita e ne hai fatto molto di più
Chissà come doveva essere sentirsi amata così. Incondizionatamente, pubblicamente, una dichiarazione d’amore fatta su milioni di dischi, rilanciata da tutte le radio, invidiata da milioni di donne.
Ma si costrinse a tornare con i piedi per terra. Sapeva che queste cose non esistevano.
Dietro Jovannotti c’era un Lorenzo Cherubini qualsiasi che al mattino probabilmente era di pessimo umore, che magari la faceva ingelosire perché faceva il cretino con le fans teen ager.
Siamo qualcosa che non resta,
frasi vuote nella testa,
e il cuore di simboli pieno
Ecco che tornava il vecchio Guccio, e aveva ragione. Frasi vuote per la testa e simboli per il cuore.
Eppure quando quel pomeriggio aveva rivisto Niccolò al Libraccio di via Santa Tecla, passato il primo istante di sorpresa, si era stupita di quanto poco provasse per lui.
L’uomo che le aveva cambiato gli ultimi 25 anni di vita era in fila alla cassa, lei gli aveva sorriso, aveva scambiato un paio di frasi di circostanza e se n’era andata.
Non contava nulla. Di lui era importante l’assenza non la presenza (“E questa da che canzone viene?”)
Decise che quella sera doveva uscire.
Voleva dare una possibilità a Paolo, il collega dell’IT con il quale da anni parlava di tutto, l’unica persona decente in quella banda di arrivisti rintronati con i quali passava otto ore al giorno cinque giorni alla settimana.
L’aveva invitata al cinema, per una rassegna sui film di montagna. La Paola della contabilità, quella che sapeva sempre tutto di tutti, diceva che era un tipo strampalato, da gite CAI più che da happy hours, ma in fondo a lei piaceva.
Si spogliò.
Fece scorrere l’acqua della doccia, e mentre aspettava che diventasse calda, accese la radio.
Una vecchia canzone di Brassen reinterpretata da De André:
Alla compagna di viaggio,
i suoi occhi il più bel paesaggio,
fan sembrare più corto il cammino
e magari sei l’unico a capirla,
e la fai scendere senza seguirla,
senza averle sfiorato la mano
Ilaria prese il telefonino e digitò rapida un sms per Paolo.
“Sono contenta di uscire con te stasera”
Gli uomini sono creature semplici, hanno bisogno di conferme.
Era stufa di cercare altrove la felicità.
[NdA] Questo pezzo fa parte del progetto Frammenti urbani