Durante uno dei miei giri in montagna sulle tracce del Sentiero Italia CAI, sono finito in Val Codera e ho passato la notte all’Osteria Alpina, uno dei rifugi che è punto d’accoglienza del SIC.
Il rifugio è gestito da una Cooperativa di volontari, e quella sera a servire ai tavoli c’era Nico, un giovane ragazzo barbuto che avevo già incrociato mentre giravo per il paese: io a visitare il Museo Etnografico, lui a chiudere le galline, a recuperare gli “odori” dall’orto, ad accompagnare un ospite in una delle case (l’Osteria Alpina è un albergo diffuso).
La Cooperativa è una costola dell’Associazione Amici della Val Codera, che raggruppa alcuni abitanti e molti simpatizzanti della valle e promuove, tra le tante cose, un interessante calendario di manifestazioni.
Tra esse, mi hanno colpito soprattutto quelle che mirano al recupero di alcune arti perdute (ad esempio, lo SfalciaCii o SfalciaSalina o SfalciaSanGiorgio che prevedono il taglio dell’erba nei prati di una delle frazioni di Codera, oppure la Di Muro in Muro, che verte sulla costruzione o la riparazione di muri a secco). Chiacchierando poi con il presidente dell’Associazione ho scoperto che queste iniziative (un po’ come il Campo di Lavoro Internazionale) servono a recuperare terreni da dedicare alla coltura dei prodotti tipici locali (fagioli, patate ecc).
La montagna, in particolare nelle piccole località chiuse come la Val Codera, richiede un impegno costante di manutenzione delle opere dell’uomo per evitare che la Natura si reimpossessi di prati e campi.
Questo impegno faceva parte delle tradizioni popolari, e gli abitanti erano abituati a scandire il passare delle stagioni con le attività rurali: lo sfalcio, l’alpeggio, la pulizia dei rii di irrigazione.
Il mattino dopo, mentre facevo colazione prima di ripartire, ho chiacchierato con Nico e mi ha raccontato che è laureato in Agraria all’Università di Edolo (la cosiddetta Università della Montagna) con una tesi sulle biodiversità degli orti in Val Codera e adesso sta seguendo la magistrale.
Per lui venire in Codera è diventata un’abitudine. Passa qui almeno tre volte all’anno, in primavera, in estate ed in autunno. Una specie di laboratorio vivente.
Parlando con Nico di api, di ortaggi e di recupero di vecchie coltivazioni, è venuto fuori anche il discorso dei castagni che rappresentano una delle risorse più importanti della zona. La castagna si presta a mille usi: secca si conserva a lungo, macinata dà una farina da usare per gnocchi e pasta, fresca può essere servita lessa o arrosta.
Ma pochi sanno che è necessario innestare gli alberi per mantenere le qualità delle castagne.
I castagni si riproducono naturalmente attraverso le castagne che cadendo e finendo sotto terra creano una nuova pianta. Però le piante cresciute “naturalmente” tendono a perdere alcune caratteristiche importanti per noi uomini (la qualità della castagna, la resistenza alle condizioni meteo) e, soprattutto, impiegano molto più tempo a fruttificare.
Quindi bisogna prelevare un ramo di un castagno “buono” e innestarlo su un nuovo ceppo. In questo modo si salvaguardano le caratteristiche originali.
Mentre ascoltavo Nico spiegare queste cose, mi è tornato in mente che avevo visto fare la stessa cosa al mio paese. C’è una giovane e numerosa famiglia, nel villaggio in cui abito, che possiede un fazzoletto di terra di fronte alla mia finestra. Al centro del terreno due immensi castagni secolari.
Un giorno avevo visto il padre (un 40enne) che stava lavorando alla base del tronco mentre i bambini giocavano intorno a lui, così avevo chiesto lumi. Mi aveva raccontato che stava facendo gli innesti. E quando gli avevo fatto notare che prima che mangiasse le nuove castagne i suoi figli sarebbero stati adulti, mi aveva risposto sorridendo che suo nonno e suo padre lo facevano prima di lui, e che gli sembrava giusto continuare quella tradizione, anche perché – altrimenti – quella castagna buona sarebbe andata persa.
Penso che abbiamo tutti molto da imparare, viaggiando ed ascoltando.
Chi di noi, oggi, si impegnerebbe per un risultato che verrà tra 15/20 anni?
Chi si impegnerebbe in una attività i cui benefici ricadono non sull’individuo ma sull’intero territorio?