Il Magoo mascherato

Ritroviamo il vecchio Mr.Magoo e scopriamo le sue idiosincrasie da mascherina durante l’isolamento da Corona Virus

Forse ricorderete che avevo già parlato di Mr.Magoo quando avevo raccontato il suo difficile rapporto con il cibo ed il controllo del peso (altrimenti cliccate qui e trovate la storia), ma oggi voglio parlare di come l’adorabile vecchietto vive questo periodo di lockdown.

A marzo, la cosa che più infastidiva il buon Magoo era la mascherina.
Non la sopportava proprio!
Vivendo da solo in una casa isolata, non la indossava praticamente mai. Era costretto a mascherarsi solamente quando, una volta alla settimana, andava al supermercato per comperare le poche cose di cui abbisognava.
Anche in quel caso, però, parcheggiava vicino all’entrata, la indossava e poi si catapultava nel negozio, passava per tutte le corsie spingendo come un pazzo il carrello e raccattando generi alimentari e prodotti per la pulizia a caso, per poi frenare bruscamente alla prima cassa libera, pagare di tutta fretta e tornare in auto per potersi togliere l’odioso paramento.

Se incrociava un’altra macchina il cui conducente indossava la protezione, immediatamente scoppiava in una risata sgangherata e lo perculava dicendo “Ma guarda quell’imbecille: cosa te ne fai della mascherina se sei da solo? La indossi anche al gabinetto?” e felice di aver avuto la controprova della sua superiorità intellettiva, sgommava via seminando il panico tra i passerotti e i passanti.

Mr.Magoo sosteneva che la mascherina non gli permetteva di respirare. Aveva la netta sensazione che la gola si irritasse subito e così iniziava a tossire (attirando tra l’altro le occhiate malevole di chi gli stava attorno che lo considerava un untore).
Odiava a tal punto quell’oggetto di stoffa che tendeva a dimenticarlo dappertutto e aveva dovuto comperare un pacchetto da dieci pezzi per lasciarlo in automobile.

Magoo in auto

In questa seconda ondata, invece, l’amabile anzianotto ha invertito il senso di marcia.
Usa ancora la mascherina solo nei negozi o nei pochi metri di strada che deve fare per andare al bancomat o in libreria, però adesso la indossa felice.

“Signora, ma ha notato come tiene al caldo il viso?” dice ad un lampione che nella sua miopia ha scambiato per una passante.

Al supermarket, adesso, non corre più tra gli scaffali ma si dilunga nella scelta delle marmellate senza zucchero o dei cereali per la colazione.
Chiacchiera con le cassiere e ripone con calma la spesa nel bagagliaio.
Si è talmente abituato ad indossare la protezione che, anche salito in auto si dimentica di toglierla e, quando se ne rende conto magari dopo qualche chilometro, arrossisce, memore dei suoi sfottò primaverili, al pensiero che chi lo osserva da fuori lo prenderà per pazzo.

E un po’ pazzo, in questa seconda ondata, lo è diventato.
Gli manca la compagnia del nipote Waldo e così supplisce come può, parlando da solo, commentando ad alta voce le notizie del tiggì, ridendo alle battute trite e ritrite delle vecchie sitcom della tele o commuovendosi per le sdolcinate commedie romantiche di Hollywood.
Si è iscritto a tutti i seminari on line, a tutte le webzine, e sta meditando di comperarsi qualche attrezzo ginnico per rimettersi in forma prima della primavera.

Il nipote Waldo, che lo chiama di tanto in tanto per sincerarsi di come stia, pensa che il vecchio sopravviverà al CoronaVirus, ma non alla prossima maratona di Will & Grace su Mediaset.

In equilibrio lungo il filo

Non ricordo più come mi sia capitato tra le mani, ma fu amore a prima vista. Uno di quei libercoli che inizi a sfogliare annoiato e che poi ti cattura.
Perfettamente inutile: senza trama e senza nozioni da acquisire (nonostante si atteggi a manuale). Poesia sotto forma di prosa.

Mi riferisco a Trattato di Funambolismo, del francese Philippe Petit.

L’autore è un artista celebre soprattutto per aver camminato su una fune tesa tra le due Torri Gemelle a New York, passeggiata che, oltre a qualche grana con la polizia, gli ha regalato imperitura fama attraverso il documentario High Wire e il film The wire. Ma era anche un giocoliere, un mago, uno street performer (come sono chiamati oggi gli artisti di strada). E, da bravo francese, è orgoglioso di questa sua anima circense.

Trattato di Funambolismo

Tendo a divagare, come sempre…

Nel suo Trattato di Funambolismo, parlando della paura, dice: “Questo vuoto atterrisce. [omissis] Tale vertigine è il dramma della danza sul filo, ma di quello non ho paura”. Il vuoto è il motivo per cui è lì, sulla fune.
Ma teme la paura stessa. Sa che un giorno si impossesserà del suo cuore e gli impedirà di tornare a danzare sul filo.

Pensavo a tutto ciò mentre scorrevo i titoli dei giornali.

I deliri isterici dell’ex presidente Trump che arrivano dagli USA, la triste matematica dei contagi che è diventata un appuntamento fisso nelle nostre vite, le notizie dei morti (illustri e meno noti), la cronaca nera.

La nostra vita è un filo sul quale camminiamo. Amiamo farlo, pur con tutte le ansie e gli scossoni. E abbiamo trovato un nostro equilibrio, che ci permette di andare avanti. Nonostante queste notizie che ci destabilizzano.

La paura tende a prendere il sopravvento.
E come insegna Philippe Petit, una volta che ghermisce il nostro cuore, non rusciremo più a vivere.

Certo i media dovrebbero avere un maggior senso di responsabilità e dare le notizie per quello che sono, senza disegnarci attorno scenari apocalittici per guadagnare l’attenzione del pubblico. Il gusto per il macabro e per la tragedia vende più giornali dell’analisi pacata.

Ma noi dovremmo concentrarci sul nostro respiro, sul prossimo passo, sulla realtà che conosciamo e non su quella che ci viene raccontata.

Sarebbe triste smettere di vivere per la paura non di ciò che accade ma di quello che potrebbe accadere.

Mal comune…

Questo nuovo lockdown ci pone di fronte ad una scelta: rinchiuderci in noi stessi o guardare avanti?

Il rischio più grande connesso a questa pandemia (e a tutte le misure necessarie per contenerla) è che perderemo di vista il quadro generale e ci fisseremo su quello iperlocale.
Mi spiego meglio.

I problemi legati al Corona Virus sono sotto gli occhi di tutti.
E’ una malattia che ha colpito l’intero globo e che si è tentato di contenere con strategie diverse.
Al momento la situazione è ancora grave: l’Europa conta un numero di malati e di morti impressionante, ma soprattutto continua ad esserci una velocità di propagazione elevata che – se non si interviene – metterà in crisi (nuovamente) le strutture sanitarie.

Il virus passa da persona a persona, se le persone non si incontrano (o si incontrano meno) la velocità di propagazione cala o si ferma.
Quindi, in attesa di vaccino e cure, gli Stati hanno bloccato più possibile le persone.
Naturalmente queste misure hanno tutta una serie di controindicazioni: economiche (moltissime aziende sono in crisi e di conseguenza le persone perdono il lavoro o lavorano meno) e psicologiche (la tensione sociale è alle stelle e le persone soffrono di questo isolamento forzato).

Chi governa (in Italia e in ogni altro paese) è costretto a prendere decisioni impopolari e si alza potente il coro dei dissensi e delle proteste.
Gli scontri che abbiamo visto accadere (e torno a ripetere che ciò succede sia in Italia che all’estero) ci hanno riportato alla mente le rivolte del passato. Sono comprensibili anche se insensate. Per protestare contro la chiusura dei negozi se ne distruggono le vetrine?

Da domani saremo di nuovo in stato di blocco.
Le regole variano a seconda della gravità della situazione (regione per regione), ma sostanzialmente prevedono una ridotta mobilità (spaziale e temporale) e la forzatura del distanziamento sociale.
Non critico la scelta (e sono felice di non dover essere io quello che l’ha dovuta fare), ma vorrei sottolineare un potenziale rischio.

Ognuno si arroccherà nel proprio comune, nel proprio paese, nella propria casa.
Si ridurranno le occasioni per vedere altre persone dal vivo mentre salirà la preoccupazione per il nostro futuro immediato.
Inizieremo a rinchiuderci in noi stessi, a guardare il nostro ombelico, a fare comunità con chi ci è vicino.

monte bianco

E’ una reazione naturale e, tutto sommato, sana.
Immagino aumenteranno i gesti di piccola solidarietà quotidiana tra vicini di casa (almeno nelle comunità piccole come in quella dove vivo io) così come aumenterà l’ostilità verso chi viene da fuori (e non mi riferisco solo agli extra comunitari, ma anche ai nostri compatrioti che vengono da altre regioni).

Ripeto, credo sia una reazione naturale e, tutto sommato, sana. Ci permetterà di fare fronte comune verso un nemico esterno ed invisibile. Sarà d’aiuto per non scivolare nella solitudine e nella depressione. Aiuterà chi è più debole e più solo.

Ma si correrà il rischio di perdere di vista cosa sta succedendo in Europa e nel mondo.
Invece la dimensione globale di questa pandemia è un elemento fondamentale per avere un corretto senso delle proporzioni su quello che ci accade.

Non siamo oggetto di un attacco mirato.
Siamo in balia di qualcosa di incredibilmente grande.

Non ce l’hanno con me, o con i miei vicini, la mia regione o il mio paese.
E’ un problema dell’intero pianeta.

Non è l’Italia o i nostri governanti che stanno sbagliando.
Tutto il mondo naviga a vista.

Un vecchio detto recita: “Mal comune mezzo gaudio”.
L’ho sempre trovato insopportabile.
Se io sto male e mi consolo pensando che altri sono nella mia situazione sono un piccolo uomo.

Preferisco chi dice: “Un peso portato in due è più leggero”.
Dobbiamo tutti portare il nostro fardello, contribuire con un atteggiamento responsabile.

E per comportamente responsabile non mi riferisco tanto all’indossare una mascherina (spero che ormai tutti abbiano capito quanto sia importante), ma a continuare ad essere positivi.
Dobbiamo giocare questa partita con le carte che abbiamo in mano.
Inutile recriminare, dobbiamo vivere al meglio.

Cerchiamo di avere cura di noi stessi e di chi ci sta vicino.
Continuiamo a fare progetti e portare avanti le cose che possiamo fare.
Non seppelliamoci prima del tempo.

Guardiamo avanti.
Viviamo.

Un autunno asintomatico

La seconda ondata mi ha messo in crisi, ho paura di non saper fronteggiare un nuovo lockdown. Ma la risposta è nella nostra umanità

Vigliacca.
Questa seconda ondata mi ha preso alle spalle.
Sì, lo so che se n’era parlato. Ma io sono un ottimista e pensavo, dopo un’estate serena, che ci saremmo avviati verso un autunno controllato ma altrettanto sereno. Un autunno asintomatico.

Mi sono svegliato con un nodo allo stomaco.

Non mi pesa il fatto di fare smart working; intorno a casa ho un sacco di bei posti dove perdermi in compagnia dei miei pensieri. Certo, mi mancheranno le pizze e gli aperitivi, ma anche a questi posso rinunciare.

Però dover nuovamente passare del tempo senza la libertà di vedere chi voglio, di andare a trovare o farmi venire a trovare, mi spaventa.

Rileggo quanto ho scritto e mi rendo conto che sono parole dettate dall’egoismo.

Forse uno dei sintomi del CoronaVirus è proprio questo abbassamento del nostro livello di umanità.

Come faccio a pensare al poco a cui devo rinunciare io, quando ci sono persone che vedono venir meno l’unica fonte di guadagno?

Ho amici ristoratori, ho amici baristi, ho amici che lavorano a teatro, ho amici che gestiscono centri sportivi, ho amici albergatori, ho amici che lavorano sulle piste da sci…

Sfoglio i giornali, faccio zapping tra i canali della tivu, scorro le pagine di FaceBook e Twitter, e trovo solo livore. Commenti sguaiati e incazzature insensate.
E riconosco lo stesso nodo allo stomaco che mi ha accompagnato in questa mattinata.

Ognuno di noi guarda il proprio orticello.
E’ naturale, ma non è umano.

E’ una reazione naturale, perché risponde alla paura. Vediamo il virus come un nemico invisibile e imbattibile. Quindi attacchiamo. Non potendo combattere la malattia ce la prendiamo con chi governa, con chi non è toccato come noi, con chi sembra non capire…

Ma non è una reazione umana.
L’Uomo ha saputo sopravvivere ed impadronirsi del mondo grazie al controllo delle reazioni “naturali”. Ha saputo lavorare come tribù prima e come comunità poi. E’ riuscito a guardare al di là del proprio interesse personale e immaginare un bene comune, superiore al bene del singolo.

Questa foto l’ho scattata sabato, durante una passeggiata.
Questo è l’autunno. Non una stanza in cui devo restare chiuso, ma una valle che devo percorrere.

C’è la salita e poi c’è il premio del colle.
Come è sempre stato e come sempre sarà.

Un nuovo Rinascimento

La formula per ripartire è tornare alle piccole realtà. E, specialmente nel territorio, i politici locali avranno un ruolo chiave

Ogni giorno incontro una gran voglia di ripartire.
L’amico barista, nonostante non abbia percepito reddito per 4 mesi e ancor oggi veda il numero di clienti ridotto ad un terzo rispetto al pre-Covid, mi accoglie con un sorriso. Ha sfruttato il tempo del lockdown per rinfrescare il suo locale, per renderlo più arioso, più allegro.
Un negoziante mi parla dei suoi progetti di organizzare un evento sportivo per offrire ai runners la possibilità di tornare a gareggiare. Lui vuole sponsorizzare, essere d’aiuto, imprimere una spinta positiva al movimento. Perché sa che solo quando ripartiranno le gare anche il suo negozio tornerà a rivivere.
Un altro locale si ingegna ad organizzare degustazioni, serate letterarie, iniziative per i bambini.
Un bed & breakfast ha ampliato la sua offerta agli ospiti, ha creato una mini biblioteca ad hoc e sta lavorando a delle video guide sulle attività da fare nei dintorni della sua struttura.

Insomma, quella che respiro è un’aria positiva di rinnovamento, di proattività, di voglia di fare.
Chiaramente i privati sono motivati dalla necessità: se non si riparte dovranno chiudere ed andare ad ingrossare le fila dei disoccupati. Ma nessuno si tira indietro, anzi – come ho detto – affronta questo tempo difficile con il sorriso sulle labbra e la rinnovata voglia di fare.

Sembrerebbe quasi un nuovo Rinascimento.

E come nel passato, saranno gli individui a fare la differenza.
E’ necessario cambiare passo.
Dobbiamo passare dalla difesa (contro il coronavirus) all’attacco (contro i nefandi strascichi economici del lockdown).

Ma l’iniziativa deve passare dai grandi ai piccoli.

Le grandi aziende ragionano con i grandi numeri e le statistiche, sono le piccole imprese che oggi possono far rinascere l’Italia. Rischiando ovviamente, come tutti gli imprenditori (degni di tal nome) sono abituati a fare.
Nelle piccole aziende, lo sforzo dei singoli crea valore aggiunto.
Nelle grandi aziende, lo sforzo dei singoli non diventa mai corale.

leadership

La vera sfida, però, è di tipo politico.
Mai come oggi manca è la spinta dallo Stato, del Governo centrale e di quelli locali.
I politici sono più preoccupati a piantare paletti che a spianare le strade.

Capisco, ovviamente, che la prima responsabilità di un politico sia di salvaguardare la salute pubblica.
E’ stato fatto e, grazie alle indicazioni dall’alto e al corale sforzo dal basso, stiamo venendo fuori dalla pandemia.
C’è ancora bisogno di cautela, ed infatti indossiamo le mascherine in prossimità di sconosciuti e, ancor più importante, monitoriamo la nostra salute ed evitiamo di esporci (ed esporre gli altri) a possibili contagi.

Ma non possiamo più pensare a “sopravvivere” dobbiamo tornare a vivere.

Quindi anche qui dev’esserci una presa di coscienza dei politici locali.
Il governo centrale ha dettato le norme e guida prudentemente il Paese, ma i governi locali che sono a conoscenza delle loro micro-realtà possono adattare quelle norme di prudenza, allargando le maglie e spingendo per un pronto ritorno alla normalità.
L’assurdo meccanismo delle responsabilità (politiche ma anche penali) fa sì che chi ci guida sia più attento ad evitare i problemi che a procurare opportunità.
Ci voglio uomini coraggiosi che si mettano a capo dei volonterosi imprenditori e negozianti, offrendo un contributo (economico ma anche logistico e legislativo) per lanciare nuove opportunità, iniziative che riportino le persone per strada, i turisti sulle spiagge e sulle montagne, gli ospiti negli alberghi e nei ristoranti.

Mi appello a tutti i politici di buona volontà.

Cavalcate l’ondata di entusiasmo e di voglia di fare, non frenatela.
Così sarete a capo di una comunità viva e rinnovata che vi riconosce come leader.
In caso contrario sarete ricordati come i guardiani di un cimitero.

Continuare a correre

Siamo finalmente liberi di andare a correre, ma – almeno per me – le cose non vanno esattamente come avevo sperato. Tutto è più difficile

Avevano ragione gli autori di Niente panico si continua a correre quando hanno stilato la regola numero 99 che recita:

#99: Se allenarsi è faticoso, prova a riprendere

Riprendere a correre dopo un periodo di stop forzato è davvero difficile. Tanto che, appunto, è meglio non smettere mai.

Ma nel nostro caso siamo stati obbligati a fermarci a causa del distanziamento sociale e, dopo due mesi di inattività, abbiamo riguadagnato i nostri parchi, le nostre strade, le alzaie di navigli o fiumi, i lungomari, i monti… insomma non più legati al guinzaglio dei 200 metri dalla propria abitazione, abbiamo finalmente ripreso a correre.

Il 4 maggio, fatidica data di riapertura, sono uscito per il primo allenamento. E da quel momento non mi sono più fermato, alternando diligentemente corsa e trekking (a dire il vero, anche un’ultima uscita stagionale di scialpinismo).

Oggi, a due settimane di distanza, provo a tirare le somme. E devo dire che è stato (anzi che è ancora) tutto molto più difficile del previsto.

podista

C’è, ovviamente, lo scarso allenamento e i chili di troppo accumulati.
C’è anche un po’ di pigrizia che si è formata come ruggine intorno alla forza di volontà.
Ma il primo vero ostacolo è il cervello.

La corsa, per me, è stata da sempre libertà del corpo dalle regole imposte dalla mia componente razionale.

Non basta volerlo per andare a 5’/km o per finire una gara o per arrivare prima di un altro concorrente.
E’ necessario un sapiente mix di testa che guida, senza perdere il contatto con il corpo che deve eseguire.

Mai come nelle attività fisiche (specialmente quelle ritmate) il cervello regredisce ad una forza quasi istintuale (sembrerebbe una contraddizione). So cosa devo fare, ma è il corpo che detta le condizioni.

Ebbene, in lunghi anni di pratica, ho imparato bene la lezione e – in qualche modo – mi aspettavo che il team lavorasse ancora all’unisono.

Invece no. Il cervello, fidandosi delle tante altre esperienze simili, si aspetta che il corpo proceda al ritmo richiesto. Ma il tapino fatica e quello, invece di dargli tregua, si blocca ed interpreta i segnali di affaticamento come un collasso in corso.

Il risultato finale è che, in tutte le ultime uscite, le mie performance sono peggiorate.

Parto senza pormi obbiettivi (questo è il cervello razionale), appena esco dalla fase di riscaldamento mi aspetto di ingranare (e questa è l’esperienza che parla). Invece inizio a faticare sempre di più.

Lo so che è solo questione di risvegliare le abitudini, di ritrovare un minimo di smalto.
Ci vorranno ancora un paio di settimane, o di mesi. Ma non ho fretta.

Nel frattempo mi godo le mie uscite (specialmente quando arrivo alla fine, ad esser sincero), mi godo il calo di peso, e tutti i numerosi benefici connessi con la corsa.

Va anche detto, però, che in questi anni il mio modo di correre è cambiato.
Non c’è più l’interesse per la prestazione, ma il piacere dell’esplorazione dei luoghi che attraverso. Corro con tutti i sensi bene all’erta. Ascolto i suoni, apprezzo i profumi e i panorami.

Ma questo, invece che aiutarmi peggiora le cose. Appena sono stanco individuo subito un nuovo sentiero da esplorare o un albero da osservare. Insomma è facile trovare una scusa per fermarmi e tirare il fiato.

Sembra che io si diventato saggio.
Che abbia compreso il vero senso della corsa.

Invece sono il neofita di sempre: ad ogni fine allenamento interrogo il cronometro e calcolo la velocità media, i chilometri fatti, il dislivello guadagnato o perso… e ci resto male.

Se c’è una lezione da imparare, quindi, è che nulla cambia con l’età, con il coronavirus, con la saggezza: come dicevo all’inizio, non preoccupatevi, si continua a correre.

La condizione minima e necessaria

Ho reagito all’isolamento da corona virus facendo manutenzione delle mie emozioni e di tutte le piccole cose che ho scelto di portare con me nella mia vita

Farò outing.
Lo so che di solito questa parola è usata per un tipo specifico di ammissione. Ma in questo caso toglietevi dalla testa ogni tipo di pruderie e lasciate che io apra il mio cuore e vi confessi alcuni aspetti intimi e personali di questo periodo.

Probabilmente a causa della sovraesposizione alle notizie drammatiche provenienti da tutto il mondo, la mia corazza di cinismo si è andata vieppiù assottigliando e, dopo solo un paio di settimane di isolamento, ho notato che molte delle mie abitudini e dei miei gusti sono cambiati.

Ho smesso di guardare i telegiornali.
Le notizie le cerco per conto mio e sui siti che ritengo più affidabili, sia qui in Italia che all’estero.
Ho abbandonato tutti i talk show dove lo stesso fatto viene analizzato da ogni lato con un quasi lussurioso piacere per il macabro, per il dolore esposto, per la ricerca della tragedia.

La televisione, che – vivendo da solo – è l’unica voce che sento, la tengo accesa solo la sera per un’ora o poco più.
Ho iniziato a cercare i film comici o romantici, quelli stupidi e a lieto fine che a malapena sopportavo solo un paio di mesi fa.
Sono diventato dipendente dai telefilm. Non le serie, proprio i telefilm. Tra tutti, resto incantato a guardare i vecchi episodi di Big Bang Theory.
Non credo abbia bisogno di presentazioni. Quella comune di amici strani, con i personaggi caricaturizzati, dove i sentimenti sono semplici e la vita vera scorre lontana, non mi stanca mai.

chitarra

Ho ripreso a suonare la chitarra.
Sono andato a ricercare le vecchie canzoni che suonavo da ragazzo.
Tutto De André, moltissimo Bennato, e ancora Guccini, De Gregori, Dalla.
E poi ho cercato su Google e ho trovato un po’ dei grandi classici in inglese che 40 anni fa avevo ignorato per scarsa o nulla conoscenza dell’idioma.
Confesso che ho rispolverato anche alcune vecchie hit pop da spiaggia: Mare nero (che è il nome con cui conoscevamo la Canzone del sole di Battisti) o Il ragazzo della via Gluck e Azzurro di Celentano o persino Un mondo d’amore di Morandi.

Leggo tanto.
Molti gialli che filano veloci e ti distraggono dal resto.
Alcuni saggi, tutti inerenti al rapporto Uomo Moderno / Natura.
Alcuni volumi sulla montagna: storie eroiche dell’alpinismo classico o testi che trasmettono la passione per le Terre Alte.

Passo parecchio tempo al telefono.
Con gli amici, con i miei genitori, con persone che non sentivo da tempo.
La distanza fisica è un potente incentivo a creare ponti. Anche solo via cavo.

Ho iniziato a ricercare il piacere dei lavori manuali.
Il gusto di scrivere con la penna, di provare a fare qualche schizzo con matita e bloc notes.
Il bricolage, che poi significa semplicemente fare la manutenzione delle proprie cose, averne cura.
Quasi che ritornare ad usare le mani, a fare cose reali, mi offrisse una dimensione diversa della creatività.

Ecco, rileggendo quello che ho appena scritto mi rendo conto che tutto si riduce semplicemente a manutenere il mio mondo messo a repentaglio dal Covid19.
Non ho paura della malattia (forse scioccamente, penso che la supererei abbastanza facilmente) ma sono turbato dalla svolta cui mi ha obbligato.
Per la prima volta non sono io che decido cosa fare. Ci sono steccati a limitarmi, distanze da mantenere, viaggi proibiti.
La mia reazione naturale è di aver cura delle mie emozioni, dei miei pensieri, delle persone a cui tengo, delle cose che ho scelto di portare con me.

Una cosa semplice, in fondo.
La condizione minima e necessaria per continuare a vivere la mia vita.

Detto, fatto

Per noi runners, la vera fase due è rappresentata dal poter correre regolarmente, seguendo i ritmi dell’allenamento o della nostra voglia.

Lunedì 4 maggio, primo giorno della fase due, primo giorno in cui è stato possibile allontanarsi da casa per correre.
E io l’ho fatto. Anche se ritagliando solo poco più di un’ora alla giornata lavorativa, ma l’ho fatto.

E’ andato tutto come mi aspettavo.
Ben diverso da come avrei voluto… ma erano più di due mesi che non correvo e si è visto.

Sono partito baldanzoso, in leggera discesa, su asfalto.
La sensazione di volare è durata giusto il tempo di formulare il pensiero: “Beh però, pensavo peggio, non sono poi così inchiodato!”
La realtà dei fatti mi è piombata come un macigno sulle spalle a far compagnia alla bisaccia tremolante che mi è apparsa sul ventre in queste ultime 8 settimane di inattività compensata emotivamente con cibo e aperi-skype.

Io non ho avuto il coraggio di correre nel giardino e sulle scale di casa come hanno fatto in molti. Per me correre significa essere libero, e farlo in pochi metri quadrati era un controsenso. Ma oggi mi pentivo della mia scelta.

Appena è iniziata la sterrata in falso piano (non salita, falso piano!) ho avvertito la difficoltà di fiato.
Ho iniziato a sbanfare, ma non ho voluto rallentare il passo (anche perché se rallentavo mi avrebbero superato gli alberi).
Ho provato una fitta di residuo orgoglio quando ho trovato un altro podista* che si dava un tono leggendo un avviso del Comune sopra una transenna che bloccava il traffico. Ho raddrizzato le spalle e allungato il passo, come se mi sentissi al primo chilometro di una maratona, salvo continuare a guardarmi alle spalle nei successivi 10 minuti temendo di essere raggiunto.

[* E qui apro e chiudo una parentesi sul runner misterioso: dove vivo io ci conosciamo tutti, chi poteva essere quell’uomo di mezza età, vestito da runner professionale con fouseaux attillati, cuffiette e bandana in testa? Non era di qui, forse uno degli “sfollati” dalle città di cui si vocifera. In ogni caso sono molte più le volte in cui esco senza incontrare nessuno rispetto a quelle in cui incrocio altre persone e tra queste i runner sono comunque una minoranza. E’ proprio vero che il 4 maggio è stato il giorno della Festa della Liberazione per i podisti!]

faggeta del Cansiglio

Comunque rieccomi a correre con la sola compagnia dei miei pensieri che andavano via via facendosi più tetri.
Mi domandavo dov’era quella bellezza della corsa che ho tanto decantato, quelle sensazioni di libertà e di gioia del gesto.
Per fortuna sono arrivato alla croce che, nel mio anello abituale, rappresenta la boa del ritorno e l’inizio del sentiero vero e proprio.
Ho iniziato ad alternare cammino e corsa a seconda della pendenza del terreno e mi sono immerso nella natura.

Devo dire che i due mesi nella bolla dell’isolamento, dove il Tempo sembrava quasi fermo, mi hanno un po’ spiazzato.
Mi sono fermato ad inizio Marzo e mi sono trovato di colpo nei profumi e nei colori di un Maggio rigoglioso.
E anche la temperatura mi ha fregato.
Non so cosa mi sia passato per la mente, ma sono uscito con pantaloni a mezza gamba e maglia con la manica lunga sopra la maglietta.
Mi rimproveravo tra me e me (“azz! Franz ma i guanti? Perché non ti sei messo anche i guanti?”) mentre sudavo copiosamente.
Appena entrato nel bosco la leggera brezza che mi aveva accompagnato fino a quel momento si è spezzata tra i tronchi degli alberi, aumentando la sensazione di calore.

Sarà stato il contatto con la natura o, più probabilmente, il fatto che sapessi che stavo tornando verso casa, ma i pensieri tetri mi hanno abbandonato e ho iniziato ad apprezzare ogni passo.
Ho ritrovato i vecchi amici (il sasso messo sopra un gruppo di rocce a fare da sentinella, il pino abbattuto che spande intorno il suo profumo di resina, la strettoia muschiosa dove il passo sembra rimbalzare…) e piano piano mi sono perso dentro me stesso.

Nell’ultima lunga discesa che mi porta a casa non ho avuto il coraggio di controllare il crono per non provare una fitta di delusione.
Sulla soglia di casa ho fermato l’orologio, poi sono entrato, mi sono spogliato e infilato al volo in doccia.

Allora sì che ho apprezzato la bellezza della corsa!
Le sensazioni solite sono tornate a scorrermi nelle vene sotto forma di endorfine.
Seduto sul divano, mentre mangiavo una mela (niente come correre quando sei sovrappeso ti fa venir voglia di metterti a dieta!), ho guardato il gps e ho scoperto che non ero poi andato così male.

Il giorno dopo, 5 maggio, in onore della celebre ode manzoniana (“Ei fu, siccome immobile, dato il mortal sospiro…”) avevo le gambe dure come la spoglia di Napoleone Bonaparte (“…stette la spoglia immemore, orba di tanto spiro”).
Ma oggi si ripete il giro, non tanto per rosicchiare un minuto al tempo fatto lunedì, quanto per riprendere un po’ il controllo delle gambe.

Mai come adesso, per noi runners, la rinascita passa – prima che altro – dal tornare a correre con regolarità.

Chiasso mediatico

La mia personalissima Top Five delle cose che mi hanno rotto le palle nell’ultima fase dell’isolamento. E non è ancora finita

In questo giorno di inzio della Fase Due vi comunico ufficialmente (se a qualcuno dovesse interessare o semplicemente per sfogarmi) che inizio ad avere le palle piene.

Ecco la mia personalissima Top Five delle cose che mi hanno scocciato.

NUMERO UNO:
Pubblicità che con la scusa di dirci quanto siamo bravi e che l’Italia ce la farà, cerca di venderci qualcosa. Ragazzi, siamo consumatori ma non siamo scemi…

NUMERO DUE:
Inchieste giornalistiche, dibattiti, reportage sul Corona Virus. Eccheppalle! la vita va avanti, non so se ve ne siete accorti…

NUMERO TRE:
Discussioni eterne e ricorsive sui vari decreti del presidente del consiglio dei ministri (è questo che significa l’acronimo DPCM). Nelle varie versioni:
a. cosa si può e non si può fare
b. okkei per questa cosa, ma quella? Come avete fatto a non pensare a quella?
c. poteva scriverlo più chiaramente…

NUMERO QUATTRO:
Storie edificanti. Sappiamo tutti che Gramellini è il nuovo De Amicis, ma è un dilettante a confronto con la pletora di microfonati che ci inondano gli schermi di storie strappalacrime, di “nuovi eroi”. Il bimbo che rivede la nonna, la ragazzina a cui manca il cane, l’infermiere che torna a casa distrutto. Tutto vero, tutto commovente, tutto dolcissimo… mò basta però!

NUMERO CINQUE:
Gli ottimisti a prescindere. Che poi sono l’altra faccia della medaglia dei catastrofisti.
Sono morte 30mila persone, ma andrà tutto bene.
La gente non lavora, ma l’Italia è di esempio al mondo.
Chi ci guida (e non mi riferisco solo al governo centrale) procede anaspando a tentoni, ma uniti ce la faremo.
Non siamo bambini piagnucolosi che vogliono sapere quando si arriva! Voglio, non dico dati e strategie, ma almeno non essere preso in giro. Ammettete gli errori: state facendo un lavoro difficile che nessuno ha mai fatto prima. E’ normale sbagliare e riprovare.

Franz Rossi

Ah, che soddisfazione.
Mi sono tolto un po’ di sassolini dalla scarpa.

Adesso approfitto della fase due e me ne vado a correre nel bosco dietro casa.
Sì, perché nonostante tutto, io come molti altri, le regole le rispetto. Anche se non sono d’accordo, anche se “tanto non faccio del male a nessuno”.

Vado nel bosco, perché mi manca un po’ di quel silenzio che è il terreno fertile nel quale germogliano i miei pensieri.

Di questo chiasso mediatico ne ho davvero abbastanza.

Il senso della legge

Di nuovo su diritto di correre e sui limiti imposti dal Corona Virus. Ma non potremmo usare un po’ di buon senso?

Ai tempi in cui studiavo giurisprudenza (prima di mollare l’università e iniziare a lavorare) la materia che più mi aveva affascinato era Filosofia del Diritto.
Mi era piaciuta così tanto che avevo deciso di fare la tesi su un aspetto peculiare: come la legge si adatta al mutare della nostra società.
Come fa una regola scritta negli anni ’50 a valere ancora nel 2020?
Fondamentalmente ci sono due meccanismi: il primo sono i concetti generici (pensate ad esempio al “comune senso del pudore” o la “cura del buon padre di famiglia”) il secondo è la giurisprudenza, cioé l’interpretazione che i magistrati danno alla legge.

Il compito delicato dei tribunali è quello di non attestarsi al senso letterale delle norme ma perseguire la volontà del legislatore (la cosiddetta ratio legis).

Tutto questo mi è venuto in mente commentando il mio post di ieri (che trovate qui) quando parlavo con alcuni amici delle difficoltà che abbiamo in Valle d’Aosta a praticare l’attività sportiva.

posto di blocco dei carabinieri

E’ un problema comune che affligge tutta Italia, ma ovviamente andrebbe contestualizzato.

Se vivo in centro a Milano ed esco a correre andrò al parco e, come me, andranno le decine di altri runners che vivono nei palazzi attorno al mio.
Persino allenarmi sulle scale della mia abitazione potrebbe creare problemi di distanziamento sociale.

Se vivo in un paesino della Valle d’Aosta, è più probabile che incontri qualcuno restando nei 200 metri dalla mia abitazione che imboccando il sentiero dietro casa e inoltrandomi nel bosco.

Ci sono tutta una serie di considerazioni e precisazioni che vanno fatte.

  1. Il mio andar per boschi deve essere solitario e non in gruppo con altri.
  2. La difficoltà tecnica dell’uscita dev’essere minima per non rischiare di finire giù da una parete e dover chiedere l’intervento del Soccorso Alpino.
  3. Devo evitare i luoghi di possibile incontro con altri (niente passaggi per centri abitati ecc)
  4. Devo adottare un comportamento prudente (non allontanarmi troppo, non rischiare di ammalarmi, ecc), persino più prudente del solito.

Ma tutto considerato, mi sembra più sano allontanarmi da casa che girare nei 200 metri.

Dico questo perché in Valle (ma mi dicono anche altrove) ci sono pattuglie della forestale, a piedi, in auto, con elicotteri e droni, che controllano chi va a camminare in montagna.
Non lo trovo sbagliato, se lo scopo è quello di evitare situazioni a rischio.
Ma mi sembrerebbe un inutile perseguimento del senso letterale della norma qualora si cercasse chi sta soltanto beneficiando del vivere in una zona poco abitata.

In questo caso la giurisprudenza non si è ancora formata (norme troppo recenti), ma un gruppo di nove magistrati ha scritto una lettera (qui il link) in cui, parlando da privati cittadini, sostanzialmente chiede una revisione dell’applicazione della regola, una sua interpretazione più vicina alla ratio.

Un paio di giorni prima, in quasi 7.500 persone abbiamo firmato una petizione (qui il link per firmare anche tu) in cui si chiedeva di poter riavere le nostre montagne.

Non scordiamoci che, nonostante il tambureggiante ripetere dei media dell’hastag #stateacasa, non ci viene chiesto di rimanere nella nostra abitazione ma di non avvicinarci ad altri. L’hastag corretto dovrebbe essere #statelontani.
L’epidemia si combatte restando distanti dagli altri (in modo che il virus non si propaghi) ma la malattia si sconfigge con uno stile di vita sano che prevede, tra le altre cose, l’attività fisica.

Non sono qui a sobillare la gente, a proporre di uscire a qualunque costo.
Non voglio fomentare ribellioni e gridare alla violazione del diritto costituzionale di movimento (diritto sancito dalla Costituzione ma che può essere limitato da “maggiori interessi di salute pubblica”).
Vorrei solo che si usasse un po’ più di buon senso.

Un’ultima nota malinconica per i miei amici milanesi.
Mi spiace per voi. Davvero.
Io credo che se correrò quando voi non potete farlo, non sarà una mancanza di rispetto o di solidarietà nei vostri confronti.
Sono cose che capitano: questa volta è andata bene a me, la prossima toccherà a voi.
E speriamo davvero di poter ritornare tutti a correre al più presto.