Ieri sera sono tornato a Milano. Non la Milano del lavoro e della moda, ma quella Milano che ho imparato ad amare. La Milano dove le cose succedono. Dove il freddo della metropoli è temperato da una rete sotterranea ma percepibilissima di rapporti e valori umani.
Il 13 agosto scorso, in Francia, è morto Gino Strada. Il senso di stupore prima e di perdita dopo, è stato significato dalle decine di messaggi che ho ricevuto. Tutti uguali. E’ stato un uomo che ha saputo farsi amare oltre che ammirare.
Ieri sera, dunque, al Teatro del Verme nel cuore di Milano, Emergency – la creatura che Teresa e Gino Strada hanno fondato – si è stretta per ricordarlo.
Non è stata una cerimonia triste, ma di speranza. Sul palco si sono succedute qualche decina di persone (forse dovrei dire di personaggi, ma credo che ieri fossero prima di tutto persone). Dalla sala li abbiamo riconosciuti tutti, ma il loro nome veniva pronunciato a malapena: lo scopo era dare voce alle parole di Gino Strada. Per due ore l’aria è stata riempita di spezzoni tratti da libri, da articoli, da discorsi. Frammenti di frasi ma un unico grande progetto ben riassunto nel titolo della serata: “Non esistono scommesse impossibili”.
La scommessa sembrava impossibile, ma come diceva lui “Ogni cosa fatta è fatta. Per quanto piccolo, ogni passo ci avvicina all’obbiettivo”.
E il nuovo obbiettivo è incredibilmente sfidante: abolire la guerra. E questo è il lascito, il mandato, che Gino Strada ha affidato all’associazione e a tutti noi.
Non serve di certo che ricordi le cose che ha fatto. La creazione di Emergency e attraverso essa la creazione di decine di ospedali di eccellenza dove sono stati curati oltre dieci milioni di persone. Ma voglio dire cosa ha fatto per me.
Gino Strada era (ed è) uno dei miei punti di riferimento. Era la prova che con il lavoro e l’ostinazione i valori diventano fatti. Come diceva lui “ogni utopia è un sogno non ancora realizzato”.
La lucidità del pensiero di Gino Strada. La sua capacità di “sfrondare ogni progetto dalle difficoltà secondarie per attaccare il cuore del problema”. L’incredibile dirittura morale completamente scevra di ogni retorica o di secondo fine autocelebrativo. La capacità di non venire a compromessi per raggiungere il risultato. Sono queste le doti che io e moltissime delle persone presenti in sala cerchiamo di emulare.
Ieri Beppe Sala (l’amico di Gino Strada, non solo il sindaco di Milano) ha detto che in democrazia uno vale uno, ma che quando si guarda a realizzare i progetti, è raro che valga la stessa regola. Sono parole vere e bellissime. E danno il senso di quanto mancherà il contributo dell’uomo che ieri sera abbiamo celebrato.
Concludo questa brevissima riflessione con un’altra nota personale. Avrete notato che mi sono sempre riferito a lui citandolo per nome e cognome. Eppure mi verrebbe così naturale dire semplicemente “Gino”. Perché lo sento vicino a me. Mi sembra di conoscerlo e di riconoscere in lui una parte fondante dei miei principi morali. Ma non ho mai avuto la fortuna di incontrarlo di persona, di stringergli la mano. E non per questo il suo influsso su di me è stato minore.
Allora, mentre guidavo verso casa nella notte, riflettevo. La vera statura di un uomo si riconosce anche dal segno che lascia sugli altri. E per farlo non c’è bisogno di sorrisi e strette di mano, non c’è bisogno di copertura mediatica e di visibilità social. C’è bisogno di una persona vera. Una persona per cui parlano le sue azioni. Una persona che dice quello che pensa, che fa quello che dice.
E’ un’altra importante lezione che ho imparato ieri sera. Negli ultimi anni mi sono allontanato dal mondo artificiale creato dall’uomo per tornare al mondo reale. Il nuovo viaggio mi deve allontanare dalle persone artificiali per cercare quelle reali. E la prima persona da cambiare sono io.
Per un fortunato caso del destino, da quando vivo in Valle d’Aosta, ogni volta che vengo a Milano dalla finestra dell’ufficio riesco a vedere le montagne.
Oggi no. E c’è una nuova sensazione che mi opprime l’anima. Quasi un senso di claustrofobia.
Così ho deciso di andare a correre. Per sentirmi libero…
Domenica si corre la Milano Marathon. Ed io, nel mio piccolo, correrò una frazione di una staffetta per Emergency.
E’ record di iscritti: 3.700 staffette che si aggiungono agli oltre 7.000 maratoneti. Sono curioso di vedere come reagirò in mezzo a tanta gente.
Magari ci sarà di nuovo quel senso di claustrofobia.
In effetti quello che mi ha spinto verso il trail, la corsa in Natura, è stato il senso di libertà che mi dava correre senza essere costretto in percorsi definiti; correre in solitudine o in piccoli numeri.
Però ci sono dei lati negativi di questa visione romantica della corsa.
Nelle ultime settimane ho ripreso ad allenarmi con una certa regolarità (per evitare figuracce drammatiche domenica in gara). Ovviamente alterno uscite a Milano (quando sono in città) con uscite sulla sterrata sotto casa (quando sono in valle).
E ho scoperto che a parità di fatica, a Milano guadagno una quindicina di secondi a chilometro.
Bella scoperta! Direte voi. In montagna non ci sono tratti piani, a Milano fai fatica a trovare le salite. E’ vero, ma a volte abbiamo bisogno di sbatterci il naso per renderci conto delle cose.
Un altro problema, in montagna, è che devi trovare tutta la forza dentro di te. In città, invece, ci sono talmente tante persone a correre che è facile trovare “stimoli esterni”, che sia un runner da raggiungere, un amico che incontri per caso, o solamente la gioia condivisa di correre dove tutti corrono.
A fine corsa sono tornato in ufficio. La nostra prigione quotidiana. E ho apprezzato, una volta di più, quel senso di libertà che la corsa ti regala…
Ieri sera sono andato all’Old Fox Pub ad un aperitivo solidale per tutte le staffette che il 7 aprile correranno la Milano Marathon con Emergency.
Nell’occasione ho incontrato il Capitano (maiuscola d’obbligo) della mia squadra, i Larocks’n’Run, che mi ha consegnato un piccolo opuscolo con la storia di questo team. Prima partecipazione alla Milano Relay Marathon, anno 2013, la famiglia Larroux (padre e tre figli) forma una staffetta per Emergency e sceglie di storpiare il proprio nome in Larocks’n’Run perché quella gara è soprattutto divertimento (Rock’n’Roll baby!).
Nei successivi cinque anni la formazione cambia, con il variare della disponibilità di parenti e amici, ma il nome e la voglia di divertirsi resta. Tra un paio di settimane ci schieremo sulla linea di partenza per la settima volta. Come ogni anno ci sarà una caratterizzazione speciale, il 2019 sarà la sigla B.P.C. (Bonnie Prince Charlie, eroe scozzese), in onore dell’amico Jammie, rugbista e scozzese, che avrebbe dovuto correre la prima frazione ma che si è infortunato e mi ha quindi ceduto il posto nella famiglia.
Perché vi racconto tutto questo?
In effetti ho riflettuto dopo che l’amico Alessandro in un commento al mio precedente post, si era chiesto se io fossi un runner (visto che indulgevo alla pigrizia e faticavo ad uscire a correre).
Probabilmente Alessandro ha ragione, non sono un runner.
Ma chi sono i runners?
Parafrasando i grandi Enzo Jannacci & Beppe Viola, autori di Quelli che… Chi sono tutti quegli altri che, come me, si divertono correndo e non corrono se non si divertono?
Quelli che…
… corrono un’oretta al parco di domenica, ma solo se è bello … corrono agganciati al guinzaglio del loro cane … corrono e poi dicono orgogliosi che andavano a 6 all’ora (km non minuti!) … corrono con un bimbo a fianco su una bici con le rotelle … corrono lenti tra un ristoro e l’altro … corrono con le superga e i leggins colorati, saltellando sulla punta dei piedi … corrono solo con gli amici per andare a mangiare la pizza assieme … corrono per dimagrire, magari con il kway che li fa schiattare … corrono ogni giorno, e ogni giorno sono un po’ più lenti … corrono con le cuffie gigantesche, agitando la testa a ritmo di musica, con degli occhiali a specchio e la fascia tergisudore … corrono la maratona del paese, anche se è solo di 5 chilometri … corrono la corsa dei single, la corsa dei babbi natale, la corsa con il cane, basta che non sia una gara vera … corrono per far fiato e suonare la tromba … corrono per infilare di nuovo quei jeans che amano tanto
L’elenco è lunghissimo (aggiungete voi qualche categoria).
Io mi sento più vicino a questi che a quelli che si allenano e mentre si cambiano nello spogliatoio prima della doccia commentano il “lavoro” che hanno appena fatto.
Non sarò un runner, forse non lo sono mai stato, ma ho ancora voglia di stare assieme agli amici e se per farlo devo correre la Milano Marathon, allora ben venga. Appuntamento a Milano il 7 aprile (se volete Emergency cerca ancora staffettisti).
Quando ho provato a scrivere della trasferta nella Grande Mela, ho scoperto ben presto che avrei avuto bisogno di dividere il racconto a puntate. Ecco la puntata finale…
What’s next? L’avventura è finita. Il progetto #26W26M è concluso. E adesso?
Ne ho già scritto subito dopo la maratona (clicca qui), alla fine c’è un senso di vuoto che fatichi a riempire. Niente più tabella, niente più traguardo (fisico e metaforico) da tagliare. Ci si sente un po’ sperduti.
La società per cui corro si chiama almosthere ASD ed è un prolungamento della almostthere srl che ha organizzato la trasferta a New York. I due nomi, Almost there (quasi lì) e Almost here (quasi qui), sono stati concepiti proprio durante la New York City Marathon di qualche anno fa. La gente, tifando, ti urla “C’mon man, you’re almost there” fin dal primo metro della gara.
Vuol dire – mi perdonino quelli che l’inglese lo parlano – “Forza Uomo, ci sei quasi”. Ma il significato, per noi che vestiamo la maglietta almosthere, cambia parecchio. Suona quasi come se ci incitassero a non mollare in quanto membri del team (“Forza Uomo, tu sei un almostthere!”) Brividi extra lungo il percorso…
Però, alla fine, quando in fila stavamo procedendo al ritiro delle sacche, lo stesso mantra ripetuto dai volontari (“Keep moving, you’re almost there” – “Continua a camminare ci sei quasi”) diventava quasi irritante. Il furgone UPS con la mia sacca sembrava irraggiungibile. Il “there” era un luogo quasi stregato che si allontanava mentre mi ci avvicinavo.
Ecco, a quell’accezione di almost there ho pensato in questa settimana. Tutto questo mio muovermi dove è diretto? Quale sarà la prossima tappa del mio viaggio?
Ho sempre pensato che è meglio partire che stare a casa a decidere dove andare. Anche quando ho girato a caso per il mondo, sono sempre rientrato più ricco. Persone, luoghi, esperienze. E non dipende da quanto lontano vai, ma solo da quanto di te stesso lasci a casa. Come se solo lo spirito vuoto potesse essere riempito.
La foto finale mi ritrae medaglia al collo, maglietta di Emergency, grattacieli di New York alle mie spalle. Ed è proprio così.
Sono felice dei due obbiettivi portati a casa: la medaglia e la raccolta fondi per il centro profughi di Arbat [NdA: mancano 13 euro per superare i tremila euro, datemi l’ultima spinta, cliccate qui!] Sono felice che lungo le 26 settimane mi sia rimesso in forma: era la condizione minima e necessaria per affrontare la gara. Ma sono felice anche perché questa ritrovata forma mi permetterà di intraprendere nuove esperienze.
Non so ancora cosa farò. Probabilmente cercherò i sentieri delle mie amate montagne. Ma proprio per quello che ho detto prima, non voglio fare progetti.
Al blog non rinuncio. E’ diventata una piacevole routine (necessaria allo scrittore più che al runner).
Quindi continuate a passare di qua, che di cose di cui chiacchierare ce ne sono sempre…
Post Scriptum: per chi ne avesse voglia, con Alessandro, Ippolito, Matteo e Pierpaolo, i cinque maratoneti del progetto #26W26M, faremo una serata di racconti e festa. Appuntamento domenica 17 dicembre (alle 18:00) presso Casa Emergency, in via Santa Croce 19 a Milano. Passateci a salutare!
Ho incontrato Alessandro Bertani, vice presidente di Emergency e compagno di avventura nel progetto #26W26M (“26 weeks for 26 miles“) che ci porterà a correre la maratona di New York del prossimo 5 novembre. Alessandro è un runner convinto con già alcune 42,195 km alle spalle, ma come me alla sua prima esperienza alla maratona per antonomasia. Il progetto #25W26M che stiamo raccontando fin dall’inizio su questo mio blog e sul sito della Repubblica dei runner si prefigge come scopo quello di testimoniare il nostro appoggio alla ong creata da Teresa e Gino Strada ma anche, e soprattutto, di raccogliere fondi che verranno utilizzati per fornire i medicinali nel campo profughi di Arbat in Iraq.
Alessandro, partiamo dall’inizio, come si coniugano Emergency e la corsa? Intendo sia nella tua vita personale che da un punto di vista più istituzionale. “Trovo nella maratona una metafora significativa della ragione di esistere di Emergency. Nel nostro lavoro, abbiamo un traguardo chiaro da raggiungere davanti a noi: l’abolizione della guerra. La guerra è la più grande tragedia umana, il più grande crimine contro l’umanità, che provoca solo morte, distruzione e povertà. La cultura della guerra può solo creare le premesse di una prossima guerra. Nei conflitti contemporanei, oltre il 90% delle vittime sono civili. Stiamo andando incontro alla distruzione del nostro futuro, del genere umano. Abolire la guerra potrebbe sembrare un traguardo folle, utopico. Bene, pensavo la stessa cosa quando sognavo di correre una maratona: un obiettivo folle, utopico, che non avrei mai potuto raggiungere, pensavo. E, invece, un obiettivo ambizioso come tagliare il traguardo di una maratona si può raggiungere, l’ho fatto pure io. Come? Alleandosi, con costanza e determinazione, avendo deciso che quella è la strada da seguire, che passo dopo passo quel traguardo si può raggiungere, perché senza un traguardo non si arriva da nessuna parte. Così è, così sarà, per l’abolizione della guerra. Così è stato per altre follie umane che abolire sembrava in passato utopico, come la schiavitù, che era addirittura legale fino a poco più di un secolo fa: si tratta di ieri, nella storia dell’uomo. Come ci si deve allenare per correre una maratona, con il corpo ma soprattutto con la mente, per abolire la guerra bisogna imparare ad allenare le nostre coscienze, bisogna innanzi tutto volere raggiungere quel traguardo. E poi cominciare a muovere un passo dopo l’altro in quella direzione, nel nostro vivere quotidiano”.
Emergency ha tra i suoi testimonial diversi personaggi sportivi famosi… “Emergency ha avuto e ha diversi personaggi sportivi come sostenitori. La ragione potrebbe forse essere perché lo sportivo ha una sensibilità particolare verso l’integrità del proprio corpo e sente quindi più vicina la minaccia del dolore, dell’infortunio, della menomazione che può compromettere il suo vivere quotidiano, come purtroppo succede alle vittime della guerra e della povertà. E’ una sensibilità simile a quella che condividono molti artisti vicini ad Emergency: l’arte, la bellezza, la poesia e la gioia della vita che rischiano di essere spazzate via in un secondo dall’orrore della guerra.
Un altro modo di raccogliere fondi, invece, è quello delle cosiddette charities, gare di corsa in cui i partecipanti si impegnano a fare fund raising per le ong. Nel mondo è piuttosto diffuso (New York, Londra, Vienna) ma in Italia si è cominciato da poco. C’è la maratona di Milano che con la sua prova a staffetta offre alle associazioni no profit un’occasione per farsi conoscere e raccogliere denaro. E poi ci sono altri organizzatori che devolvono a noi di Emergency una parte del costo del pettorale, mi viene in mente il Tor des Geànts, oppure la Strabologna o il circuito trail del Trofeo Malaspina. O le gare non competitive organizzate dai volontari di Emergency e il cui ricavato va tutto all’attività sul campo”.
Insomma, il running in prima fila… “Il mondo della corsa che ho conosciuto, soprattutto negli ultimi anni, è portatore di un grande messaggio di solidarietà. Credo sia un modo per restituire qualcosa a chi non può permettersi la gioia di poter praticare sport, qualcosa che noi diamo per scontato, come numerosi comportamenti del nostro quotidiano, comportamenti che invece sono inaccessibili a moltissime persone nel mondo. Pensa a chi fugge dalla guerra e dalla povertà. O pensa addirittura a chi non può nemmeno permettersi di pensare di fuggire dalla guerra e dalla povertà che condizionano le loro vite. A Ostia abbiamo costituito un’associazione sportiva amatoriale, Runners for Emergency, che in soli tre anni è diventata una delle più importanti realtà della capitale. A Milano c’è X.Runners for Emergency, altra realtà impegnata da anni a sostenere Emergency correndo. Mi sembra un canale sano e importante per trasmettere il nostro messaggio di pace e solidarietà”.
Credo sia importante spiegare come funzionano la ripartizione tra i fondi raccolti e i costi per gareggiare “Emergency pone sempre una grande attenzione alla trasparenza ed è guidata da un principio semplice. Tutto il ricavato deve servire alla missione di Emergency. Non copriamo le spese dei fund raiser, non copriamo i costi dell’organizzazione, tutto quello che raccogliamo serve al progetto specifico che viene dichiarato. Come nel nostro caso, Franz. Tu, Ippolito, Matteo, Pierpaolo ed io ci siamo impegnati in questo progetto di raccolta fondi, #26W26M, chiedendo alle persone di contribuire con una donazione a favore dei pazienti visitati nei centri sanitari di Emergency nel Kurdistan iracheno, facendoci carico noi dei costi di viaggio e di alloggio per la maratona di New York, che correremo insieme. Noi ci mettiamo questo, ci mettiamo la nostra passione e la nostra partecipazione diretta e chiediamo a chi non lo potrà fare personalmente di donare anche solo un piccolo contributo a sostegno del progetto che ci siamo posti come obiettivo: 15mila euro, per coprire il costo di tre mesi di farmaci per i centri sanitari di Emergency nel campo profughi di Arbat, nel Kurdistan iracheno. E io mi impegno a consegnare personalmente i fondi raccolti ai nostri colleghi e a documentare così anche questa nostra attività”.
Ma Emergency di cosa vive? “Emergency può contare su numerosi piccoli sostenitori, che contribuiscono alla nostra attività come possono, attraverso donazioni occasionali, donazioni continuative (che rappresentano per noi la forma migliore di sostegno, perché ci consentono di programmare gli impegni con maggiore tranquillità), il 5 per mille, i lasciti testamentari, che sono una straordinaria testimonianza di continuità sui valori condivisi, da trasmettere alle future generazioni. Dei circa 50 milioni di euro che raccogliamo negli ultimi anni, il 92% circa viene direttamente utilizzato nella nostra attività istituzionale, la cura di pazienti vittime della guerra e della povertà in Afghanistan, nel Kurdistan iracheno, in Sudan, nella Repubblica Centrafricana, in Sierra Leone, in Italia, impiegando circa 3.000 dipendenti tra medici, infermieri, amministratori, logisti, personale di servizio e di supporto all’estero e nel nostro Paese, e promuovendo una cultura di pace, solidarietà e rispetto dei diritti umani. Dal 1994 ad oggi abbiamo curato oltre 8,5 milioni di persone, 900mila solo nell’ultimo anno”.
Mi sono reso conto che abbiamo parlato di tutto, ma non di quello che fa Emergency. Forse io do sempre per scontato che tutti lo sappiano.Mi potresti racchiudere in una frase lo scopo dell’associazione? “Costruiamo e gestiamo ospedali e strutture sanitarie nel mondo e in Italia e lavoriamo perché un giorno la guerra venga abolita dal futuro dell’uomo”.
E, per quelli che sono disattenti, cosa c’entra questo con l’Italia? Perché so che siete presenti in modo ormai capillare anche qui da noi che con la guerra c’entriamo poco (fortunatamente!) “Sei sicuro Franz, che la guerra non c’entri con il nostro Paese? Non solo perché noi, come parte del mondo occidentale civilizzato e benestante, esportiamo guerra e importiamo povertà. In Italia da undici anni ormai denunciamo l’esistenza di una guerra ai poveri, alle persone in stato di bisogno, che siano stranieri o italiani poco importa. Si tratta di persone dimenticate, alle quali è negato il diritto alla cura, un diritto fondamentale dell’uomo riconosciuto dalla nostra costituzione e dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Secondo il Censis sono ormai 12 milioni le persone nel nostro Paese che non hanno possibilità di accesso alle cure secondo i loro bisogni. 12 milioni, Franz. Una persona su cinque che si trova a vivere nel nostro civilissimo Paese. Un Paese che lascia per strada gli ultimi perde la ragione prima del suo esistere, perde il fondamento del vivere insieme. Perché accetta la logica – inumana – della sopravvivenza del più forte, che significa poi del più ricco. Il primo preambolo della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo stabilisce che ‘il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali e inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo’. Sai qual è il concetto che trovo più bello in questa affermazione di principi così alti? L’essere membro di una unica famiglia umana”.
Per chiudere e tornando alla corsa: cosa ti aspetti da questa maratona di New York? “Mi aspetto solo di raggiungere il traguardo, con te e con tutti gli amici che correranno con noi, mi aspetto che tagliare quel traguardo finisca per rappresentare per molti la dimostrazione che l’unico traguardo impossibile da raggiungere è quello che non ci si pone. E che se quindi ci poniamo tutti insieme – noi, famiglia umana – il traguardo di abolire la guerra, un giorno quel traguardo lo raggiungeremo, tutti insieme. Quando questo accadrà? Dipende solo da noi. Quanto prima ce lo porremo come traguardo, quanto prima cominceremo ad allenare le nostre coscienze e a muovere un passo dopo l’altro in quella direzione, tanto prima vedremo la linea di quel traguardo farsi sempre più vicina”.
Il progetto #26W26M vede cinque runner, Ippolito Alfieri (imprenditore veneziano prestato a Milano), Alessandro Bertani (vice presidente di Emergency – Roma), Matteo Caccia (attore e autore radiofonico, conduttore di Pascal su RadioDue – Milano), Pierpaolo Petruzzelli (avvocato – Bari) e Franz Rossi (scrittore e blogger – Milano) partecipare alla New York City Marathon sfidandosi tra loro non solo a piedi ma anche nella raccolta fondi. Potete scoprire come va la sfida e potete sostenere Emergency e il vostro campione andando sul sito di Rete del Dono
Ci sono dei periodi in cui sei un po’ confuso e ti sembra di girare a vuoto.
Qualche rogna di troppo al lavoro. Le cose che non girano come vorresti in famiglia o nelle relazioni. Idee che stentano a diventare progetti…
Mi è capitato in passato e mi ricapiterà in futuro. Nessuna tragedia. Solo un senso generale di essere fuori equilibrio.
A fine marzo attraversavo uno di questi periodi, complicato dal fatto che non correvo più. Ora i non corridori faticheranno a capire questo mio punto di vista. Ma quando corro regolarmente tutto si chiarisce, il mio corpo funziona meglio, il cervello è più lucido, il cuore più limpido. Però correre, quando sei in quei periodi, è difficile. Richiede uno sforzo di volontà maggiore. E’ come se l’inerzia ti tenesse sprofondato nel letto al mattino e in poltrona la sera…
Avevo bisogno di uno stimolo e quando me se n’è presentata l’occasione ho colto la palla al balzo.
26 settimane per 26 miglia A partire dall’8 maggio per 6 mesi mi allenerò per la più celebrata maratona del mondo, New York. 26 settimane per prepararmi a correre le 26 miglia che separano il Varrazano Bridge da Central Park.
Ho corso molte maratone in vita mia (NYCMarathon sarà la 35esima) quindi so cosa mi aspetta.
Io credo che la maratona meriti rispetto. E’ una gara diversa da tutte le altre. Devi prepararla con cura, progettarla come ritmo e strategia. Devi sfuggire alle sirene che nei primi chilometri ti invitano a tenere ritmi più veloci. Devi cacciare i demoni che dal 30esimo iniziano a correre al tuo fianco.
Non ho l’età per rincorrere un PB, il mio Personal Best, ma ho deciso di impegnarmi a correre seriamente la gara, al massimo delle mie possibilità e, soprattutto, senza accampare scuse e senza arrivare impreparato all’appuntamento.
26 settimane per 26 miglia è nato per me stesso, per rimettermi in equilibrio, ma fin da subito ho voluto che avesse anche un senso più alto. Correre serve a farmi star bene e può servire a far star bene qualcun altro. Quindi dedico (come faccio dal 2010) la mia attività podistica a supporto di EMERGENCY, l’associazione fondata da Gino Strada e, più in particolare, le loro attività in Iraq.
Questa è la prima delle 26 settimane. Troverete sul mio blog i resoconti degli allenamenti e, come faccio sempre, un po’ di annedoti legati a quello che mi succede. Troverete anche un report dei miglioramenti (spero) della mia forma fisica e in parallelo di come procede il progetto.
Stay tuned, il meglio deve ancora venire…
PS ovviamente se volete aiutarmi a sostenere Emergency potete contribuire anche solo con pochi euro attraverso la piattaforma di Rete del Dono
Il progetto* prende forma nella mia mente, ormai mancano pochi giorni al debutto, ed inizio a fare un mini bilancio delle settimane passate tra il 2 aprile (giorno in cui per la prima volta ci ho pensato) e questo 8 maggio inizio ufficiale del viaggio.
L’obbiettivo è tornare ad allenarsi per correre una maratona. Cosa si deve fare prima di iniziare? Alcuni amici spiritosi mi avevano suggerito di riposare il più possibile, ma io sapevo che la realtà è molto diversa: dovevo prepararmi all’allenamento. Ho iniziato a lavorare sulle due cose più urgenti: guadagnare fiato e perdere peso. Ho iniziato a regolarmi un po’ sul cibo, pizza e birra una volta alla settimana, il dolce dopo cena solo quando sono fuori con gli amici, niente extra pasti. Non ho rinunciato al cappuccio e brioche del mattino che, insieme alla lettura del quotidiano, incarnano il mio rituale di inizio giornata. E ho applicato una regoletta che a me serve tantissimo. Ho incollato un foglio sullo specchio del bagno e ogni mattina segno il peso… non c’è stimolo migliore che quel controllo diuturno per scoraggiarmi dall’ordinare la seconda porzione… so che il giorno dopo o quello successivo sarei inchiodato alle mie responsabilità.
E poi ho ricominciato a correre. Senza metodo ne’ forzature. Uscivo quando potevo, per quanto tempo potevo, senza preoccuparmi di velocità o di distanze. Sono partito da dietro casa, esplorando una zona che non conoscevo e da lì ho ampliato i miei giri verso i percorsi che mi sono familiari. Ho approfittato di amici compiacenti che accettavano di riscaldarsi un po’ più a lungo ai miei ritmi. Unica regola, non far passare tre giorni senza essere uscito almeno una volta, anche solo per 30 minuti.
E come per magia il mio corpo ha iniziato a risvegliarsi. Il peso ha smesso di salire, si è normalizzato e finalmente ha iniziato a scendere (lento ed inesorabile come le mie uscite di corsa). La corsa è tornata ad essere, da obbligo che mi imponevo, un’abitudine che accetto e che so mi premierà con una scarica di endorfine sotto la doccia [l’endorfina è un neurotrasmettitore prodotto dal cervello dopo uno sforzo fisico che provoca un senso di benessere ed appagamento, NdA]. Tutto sembra filare via più liscio…
Adesso sono pronto per iniziare davvero.
* lo so che non ne ho ancora parlato, ma abbiate pazienza fino all’8 maggio e tutto sarà più chiaro
Quante volte abbiamo smesso e poi ricomnciato? E ogni volta ci sono motivi diversi ma lo stesso senso di innadeguatezza.
Mentre raggiungo i pacers delle 4 ore e 45 intorno al trentacinquesimo chilometro della MilanoMarathon lo scorso 2 aprile, mi stupisco di come loro siano freschi e pieni di vita mentre io sto letteralmente boccheggiando.
Un particolare da non trascurare: loro erano partiti da Corso Venezia alle 9:30 di quel mattino, io – quarto frazionista della mia staffetta per Emergency – ero partito 5 chilometri e 30 minuti prima.
Eppure…
Flash back. Ho 53 anni, sono stato (pesantemente) contagiato dal virus della corsa quando ne avevo 39 tanto che mi ero prefissato ed ero riuscito a correre la mia prima maratona entro i 40 (a Milano, anche quella volta). Ho corso tanto e su tutti i terreni, ho provato dalla pista all’ultratrail, ma negli ultimi 18 mesi non ho più gareggiato e nelle ultime 5 settimane non ho proprio corso. Neppure quella canonica uscitina alla domenica che ti lava la coscienza.
Allora eccomi qui, in una calda domenica di festa, con 10 chili di troppo e il fiato corto.
Intorno a me la gente fa festa, i corridori e – strano a dirsi per Milano – anche il pubblico. Quella mattina, mentre percorrevo al contrario il percorso, avevo incitato e salutato e supportato decine di runners, volti noti e perfetti sconosciuti, e avevo riprovato quell’emozione che chi ha gareggiato ben conosce.
Eppure…
Bastioni di Porta Venezia, striscione del 42esimo chilometro, Barbara Q e Barbara C, due quarti della mia staffetta, saltano dentro al percorso per fare con me gli ultimi 195 metri.
La folla applaude i maratoneti e io ben conosco le loro sensazioni, quel misto di fatica estrema e appagamento per essere arrivati alla fine. Un po’ li compatisco e un po’ li invidio.
Noi staffettisti viviamo di gloria riflessa, i veri protagonisti sono loro, ma gli applausi scendono a pioggia su tutti. La staffetta 399 taglia il traguardo bucando il muro delle 4 ore, ma sono felice come un bambino e penso che forse dovrei considerare di rimettermi a correre con serietà…
Allo stand di Emergency ci ritroviamo con gli altri staffettisti che hanno corso per l’associazione di Gino Strada, siamo quasi 500, riceviamo e restituiamo sorrisi e complimenti, bottigliette d’acqua e pacche sulle spalle.
Sarà il poco ossigeno, sarà quella strana magia della maratona per cui quando ci sei dentro pensi “chi me l’ha fatto fare?” e quando l’hai finita pensi “quando la prossima?”, fatto sta che un’idea inizia a farsi spazio nella mia testa.
Ho un pettorale per correre come fund raiser di Emergency alla New York City Marathon di novembre. La mia società organizza una trasferta nella Grande Mela. Ho davanti più di sei mesi… quasi quasi si ricomincia.