Non so cosa scatti nella testa di una persona, perché si sia più portati a lavorare in un’azienda o si decida di mettersi in proprio, fare il free lance o addirittura creare la propria società.
Non credo che il dipendente sia migliore o peggiore del libero professionista. Entrambi i modi di lavorare sono, appunto, solo modi di lavorare. La differenza sta nella qualità del tuo lavoro. Sta di fatto che io, fin da ragazzo, poco più di ventenne, ho preferito la libertà di sbagliare da solo.
In quasi 40 anni di vita professionale ho creato, venduto, gestito molte società negli ambiti più diversi.
Ho iniziato creando una società che si avvaleva di una tecnologia all’avanguardia per velocizzare e automatizzare il processo di creazione dei giornali. Ma poi ho spaziato con la creazione di una società che si occupava della digitalizzazione di grandi archivi, una piccola tipografia, una cooperativa che realizzava prodotti editoriali, uno studio che progettava giornali quotidiani, una software house specializzata in automatizzazione di flussi di impaginazione, un’attività di assistenza tecnica su macchine da stampa, una software house dedicata all’industria editoriale e così via.
Tanto lavoro, tante soddisfazioni, tanti anni dietro alle spalle.
Cosa avevano in comune? Un approccio tecnologico alla soluzione di problemi pratici connessi alla creazione di contenuti editoriali.
Alcune di queste società sono floride e continuano a lavorare, altre sono arrivate a fine corsa quando il loro core business è diventato vecchio.
Mi sono domandato il motivo per cui ho intrapreso così tante strade. E non c’è una risposta unica. A volte è stato perché volevo dimostrare che una cosa si poteva fare meglio, altre volte perché avevo un’idea in cui nessun altro credeva, una volta perché mi ero innamorato di un palazzo perfetto per una certa attività, a volte semplicemente per denaro.
Non sono mai diventato ricco (ancora) e non ho mai avuto problemi di soldi (ancora).
Eppure eccomi qui a ripartire con una nuova avventura.
Lo scorso autunno ho dato vita a Borioula Media Company, che chiamiamo BoMeCo. Se siete curiosi di sapere da dove viene il nome o cosa facciamo, visitate il sito (www.bomeco.eu) o seguiteci su LinkedIn.
Io oggi volevo spiegare perché, alla soglia dei 60 anni, mi sono rimesso in gioco. E i motivi sono sostanzialmente tre.
Il primo è che credo che la routine, il rifare per anni la stessa cosa, sia il primo passo verso l’immobilità. Ed io ho bisogno di muovermi per sentirmi vivo.
Il secondo è che ho bisogno di creare qualcosa. Non mi basta più operare nel mondo dei servizi o delle consulenze, voglio che, alla fine della mia giornata di lavoro, ci sia qualcosa di concreto che prima non c’era.
Il terzo motivo, ed è certamente il più importante, è che ho creato BoMeCo come una piattaforma, un hub, in cui lavorare assieme a persone che mi piacciono. E vale per le persone con cui collaboro ma anche per i clienti. Voglio essere felice di incontrarli. Voglio che alla fine della riunione ci sia il tempo per bere una cosa assieme o, ancora meglio, che mentre si passa del tempo assieme nascano idee su nuovi lavori.
Un’utopia? Può essere.
Ma c’è una lezione che ho imparato da un grande uomo, Gino Strada, cofondatore di Emergency che diceva “ogni utopia è un sogno non ancora realizzato”.
Io voglio credere che il mio sogno di lavorare bene grazie al fatto di essere fianco a fianco con persone che stimo sia realizzabile.
Sarà necessario usare tempo e determinazione, ma sono certo che i risultati, misurati in qualità della vita, qualità del prodotto finale e, anche, ritorno economico, arriveranno.
Post Scriptum: come ogni nuovo viaggio, la meta è chiara ma il vero piacere deriva dal viaggiare. Perché non dovrebbe essere così anche in un’attività imprenditoriale?