Nei gialli di serie B si dice che il colpevole ritorna sempre sul luogo del delitto.
Mercoledì scorso, in occasione della terza uscita del gruppo Dis’ciùles, siamo saliti da Erve alla Capanna Alpinisti Monzesi, la parte finale della mitica Monza Resegone (che si correrà nuovamente il prossimo 23 giugno), una gara in cui squadre composte da tre elementi partono da Monza e salgono fino alla Capanna sul monte Resegone.
Il meteo era molto incerto. Nel pomeriggio aveva diluviato e sembrava che verso le 20 le cataratte del cielo dovessero spalancarsi di nuovo. Ad aggiungere problemi ai problemi, un mega ingorgo aveva rallentato non poco l’avvicinamento ad Erve, così alle 19 e qualche minuto stavamo vestendoci per intraprendere la salita.
Si parte attraversando un ponticello, poi l’ampia poderale prosegue fino ad un agriturismo e si trasforma in un sentiero. Ancora pochi metri e siamo al bivio per il Prà di Rat.
E’ incredibile come quella gara ti entri nel cuore e nella memoria. Si arriva a questa salita dopo aver percorso oltre 36 chilometri su asfalto. Ma da adesso in poi la strada si misura in dislivello, non più in sviluppo.
Percorrevo quel sentiero e contemporaneamente mi scorrevano nella testa le immagini, le sensazioni, delle cinque volte in cui avevo gareggiato. Le urla dei concorrenti nel bosco, l’odore delle fiaccole nella mia prima partecipazione (da quella volta sono state sostituite con le torce elettriche), l’umidità che ti si attacca addosso, la voglia di salire anche se sei intruppato dietro a quelli che sono stati più veloci nella prima parte della gara.
E poi l’ultimo strappo, con la Capanna Alpinisti Monzesi (il traguardo) in bella vista, e il vociare di chi ti ha preceduto che si fa strada tra gli alberi.
Il colpevole torna sul luogo del delitto forse spinto dalla curiosità di rivedere il luogo che gli ha cambiato la vita. E un po’ è stato così anche per me.
Non ripercorrevo di notte questo sentiero dalla mia ultima partecipazione alla Monza Resegone. E devo dire che si è accesa la nostalgia per quelle sensazioni.
Chissà che prima o poi non ci si torni a schierare sulla linea di partenza sotto l’Arengario di Monza!
Per adesso un pensiero ed un augurio a tutti i corridori che sabato 23 giugno affronteranno la 58esima edizione di questa meravigliosa competizione.
Nelle ultime due settimane ho viaggiato parecchio. Ecco alcuni brevi flash dalle città che ho visitato…
Corrono tutti. Qui a Londra, intendo, tutti sembrano correre.
Non mi riferisco a quella frenesia dei milanesi, per cui inizi a sbuffare se il barista non ti chiede l’ordinazione un minuto dopo che hai varcato l’ingresso, oppure che ti fa fremere con il palmo della mano appoggiato sul clacson non appena la luce vrde si accende. Qui a Londra no. La gente è tranquilla, pronta a far code ordinate per qualunque cosa, dall’entrare al ristorante fino alla fermata del bus che non arriva.
Ma quando parlo del fatto che tutti corrono mi riferisco proprio alla moda del running. Sabato pioveva eppure la Southbank del Tamigi o i sentieri lungo il Serpentine ad Hyde Park traboccavano di runners. Mi superavano da dietro, mentre vagavo con la macchina fotografica al collo, o mi venivano incontro solitari o a gruppetti.
C’erano i soliti impallinati, tutto cronometri ed andature, ma la stragrande maggioranza erano joggers. Procedevano tranquilli, senza parlare tra loro, direi anche affaticati, come se stessero pagando un tributo alla dea del fitness. Tantissime donne, di ogni età e forma, tutte fasciate in completi perfetti. E questo stile impeccabile – devo dire – era condiviso anche dai rappresentanti maschili. Fouseaux sgargianti all’ultima moda, scarpe fluorescenti, qualcuno osava la manica corta (persino la canottiera tra gli impallinati) ma la maggioranza preferiva la manica lunga della giacca della tuta.
E’ come se tenessero molto all’apparenza. Di certo spendono di più in sportswear che in vestiti normali (davvero i londinesi non brillano per eleganza: anzi quando si mettono in tiro per la sera riescono solo a mettere assieme in modo pacchiano dei capi improbabili). La sensazione è accentuata dal fatto che spesso vedi persone sedute al bar con scarpe e fouseaux da running che però sopra indossano un parka e magari fumano. Insomma qui l’abbigliamento sportivo è stato sdoganato come trendy anche da chi lo sport non lo pratica proprio.
Però, al netto di questi fenomeni di tendenza, rimane il fatto che a correre sono davvero tantissimi. La conferma l’ho avuta anche domenica mattina quando da Trafalgar Square è partita la London Winter Run una 10K per raccogliere fondi per la ricerca contro il cancro. Fin dal primo mattino avevo notato decine di persone, molte tra loro anziane e sovrappeso, confluire verso il cuore di Londra. Alle 9:30 è partita la prima wave, e poi di seguito le altre. Alla fine erano diverse decine di migliaia.
Città bloccata ma festante. Come al solito alcune persone erano vestite in costume, ho visto una renna di Babbo Natale correre fianco a fianco con un elfo, e persino qualcuno che vestito lo era davvero poco. Faceva freddo, ma non mi stupivo tanto del coraggio dimostrato nel correre i dieci chilometri così scoperto, quanto dalla sua innegabile faccia tosta.
Domenica ultimo allenamento di rifinitura prima della partenza per New York.
Abbiamo partecipato al Trofeo Montestella, una sentitissima gara (ieri quasi mille arrivati nella prova agonistica e circa 400 nella non competitiva) che si corre in memoria di Cristina Lena una giovane e promettente atleta il cui sorriso aveva stregato tutto il mondo del running meneghino.
10 chilometri su strada, un giro di lancio nella pista di atletica dell’istituto omnicomprensivo di via Natta, poi veloci verso il parco di Trenno e ritorno alla partenza. E’ una gara cui partecipano atleti molto forti (il primo arrivato, Ademe Cuneo, ha chiuso in 31’11”) ma anche molti di noi “amatori”, si corre sempre l’ultima domenica di Ottobre, quindi è la chiusura perfetta della tabella pre-maratona di New York.
Chi si prepara per la regina della distanze, si sgancia un po’ dalla realtà: quando indossi le scarpette non fai mai meno di una dozzina (meglio quindicina) di chilometri, quindi anch’io ieri mi sono trovato a fare un riscaldamento di oltre sei km prima di allinearmi sulla linea della partenza. L’idea era di tenere un ritmo veloce ma non velocissimo (per me 5’00″/km) senza strafare.
Prima della partenza pensavo che la vera difficoltà sarebbe stata frenarmi, evitare di superare gli altri, e magari allungare negli ultimi due chilometri. Invece, come al solito, la realtà è molto più crudele…
Partiamo insieme ad un gruppo di compagni di squadra, ed in particolare io corro con Patrizia con la quale – teoricamente – dovrei correre la maratona. Primo chilometro nel traffico della partenza (1000 persone in una pista d’atletica sono comunque una ressa) in poco meno di 5 minuti, al secondo chilometro un altro runner pesta la scarpa di Patrizia, novella Cenerentola, e gliela sfila. Ci fermiamo una 15ina di secondi, ma anche al passaggio del secondo chilometro misuriamo un 5′ scarso.
Poi finalmente prendiamo il passo regolare, sull’ampia strada che porta al parco. Io fatico a tenere il ritmo, ho la sensazione di andare molto più veloce e sudo a profusione. Patrizia corre leggera, ed ogni tanto si volta a cercarmi.
I cinque chilometri del giro del parco sono eterni, per me. Evito di guardare il gps e vado a sensazione… Poi si inizia la strada del ritorno e cerco solo di alzare lo sguardo, allargare le spalle, far girare le gambe, evitando di pensare al tempo finale. Si rientra nella scuola, si percorre ancora una volta l’anello della pista e finalmente tagliamo assieme il traguardo.
Il mio crono dice 50’02”, quello di Patrizia 49’56”, il tempo ufficiale della classifica, ci aggiunge una decina di secondi. Comunque, missione compiuta anche se con molta più fatica di quanto avrei voluto (e mi sarei aspettato).
Ancora due parole sul Trofeo Montestella. Quest’anno hanno fatto fatica a trovare sponsor e hanno deciso, comunicandolo prima, di ridurre il costo dell’iscrizione a 10 euro e di non inserire nel pacco gara il classico capo tecnico. Io ho apprezzato la decisione e la trasparenza. Una bella gara, molto partecipata, organizzata bene (mancava solo l’acqua al ristoro finale)… Hanno anche tentato di sistemare le cose, recuperando delle maglie tecniche di altre vecchie manifestazioni ed inserendole nel pacco gara (e questo forse l’avrei evitato: non è sempre vero che “piuttosto che niente è meglio piuttosto”). In bocca al lupo agli organizzatori, si respira molta più gara di corsa in eventi come questo che la tanto paludata DeeJay10 dei grandi numeri!
E finalmente la luce fuori dal tunnel.
Ormai ci siamo. La tabella questa settimana recita: martedì: 15 risc + 25′ in progressione giovedì: 40 minuti corsa lenta sabato: 30 minuti corsa lenta a Central Park
Mercoledì voleremo a New York… e domenica sarà maratona.
Danilo aveva deciso che voleva iniziare ad inserire qualche gara, tanto per abituarci all’idea, ma io non ero molto d’accordo. Pensavo che fosse più comodo fare lo stesso qualche chilometro tirato, ma nei nostri parchi.
Però c’era la Mezza di Monza, era l’occasione per correre dentro all’autodromo dove di solito sfilano Vettel e Hamilton, erano due anni che non mi cimentavo su questa distanza… insomma mi sono fatto convincere.
Domenica mattina, arrivato a Monza, ho iniziato a maledire me stesso. C’era la coda per avvicinarsi al parco, pioveva un po’ ma le previsioni davano acqua in abbondanza, d’altronde so benissimo che parte dell’allenamento è porsi un obbiettivo e raggiungerlo, così anche solo presentarsi al via quando sarebbe stato più comodo restare a letto, mi sembrava una piccola vittoria.
Così riflettendo, sono arrivato al punto di ritrovo con il mio gruppo. Sbrigate le formalità del ritiro pettorali, ho chiesto a Danilo che ritmo voleva impostassi.
Dentro di me, sulla scorta dei lunghi delle scorse settimane, temevo che avrei fatto fatica a tenere i 5’40″/km e chiudere in due ore secche. Ma il coach ha detto che sarei dovuto stare sui 5’10” al massimo 5’15” che fatti due rapidi calcoli significava 1 ora e 50 al traguardo. Alle mie rimostranze mi ha detto: “Cosa c’entra quello che fai in allenamento, questa è una gara, qui entra in gioco la magia”…
Pieno di dubbi sulla “magia della gara” sono andato a cambiarmi insieme ad Alessandro e Fabio (che doveva tenere un ritmo simile al mio).
Intanto Giove pluvio decide di ricordarci che è lui che comanda e scarica sulla massa dei partenti tutta l’acqua che si è tenuto in pancia negli scorsi mesi. C’è anche un po’ di vento e la temperatura si aggira intorno ai 14 gradi… insomma perfetta per correre!
Siamo in tanti alla partenza (che era comune per la 10K, per la 21 e per la 30) così saluto un po’ di amici e, partendo dall’ultima gabbia, inizio a risalire il gruppo.
E’ curioso correre sulla pista che hai visto tante volte in televisione. La chicane della partenza, le varianti, riconosci i pezzi di pista e non ti capaciti come mai quei bolidi della Fornula1 inpieghino un battito di ciglia a passare quei lunghissimi metri che noi percorriamo così lentamente.
Il gps non ha preso il segnale alla partenza, quindi lo uso solo come cronometro. Aspettavo il cartello del quinto per controllare il passaggio, ma mi scappa nella confusione. Intanto da dietro sentiamo i commenti ad alta voce di uno dei pacer dell’ora e 50. Siamo giusti, quindi…
Con Fabio decidiamo di stare davanti al gruppone che si è formato intorno alle lepri. Ci sono parecchie curve e strettoie, qualche discesa e salita, insomma meglio non restare imbottigliati.
Il mio gps si è ripreso e mi conferma la sensazione di andare veloce, più vicini ai 5’05” che ai 5’10″/km. Chiedo conferma a Fabio che annuisce. Ma ci sentiamo bene e decidiamo di proseguire così.
Si esce dal Parco di Monza e si rientra, fatico ad orientarmi ma riconosco molti dei posti dove passiamo. Il decimo chilometro arriva prestissimo, con Fabio decidiamo che stiamo bene e rimandiamo la decisione sulla strategia di gara al 15esimo.
Intanto la pioggia torrenziale si è trasformata in una normale pioggerellina autunnale. Correre è un piacere, temperatura perfetta. Ascolto il commento di una coppia venuta a passeggiare: lui le fa notare che abbiamo le scarpe bagnate e mi pare di cogliere una punta di rimprovero, come se dicesse che non si dovrebbe correre così.
In realtà ho i piedi caldi (anche se non asciutti) e sono felice. Sto spingendo ad un ritmo che mi fa provare l’ebbrezza della velocità senza uccidermi. Mi sembra di poterlo tenere fino alla fine. E questa sensazione mi rincuora.
Al quindicesimo siamo ancora dietro ai pacer. Il loro compito è di arrivare esattamente all’ora e cinquanta dallo sparo, significa che dovevano recuperare quasi due minuti e lo hanno fatto (ecco spiegato il ritmo più veloce). Adesso sanno di poter gestire il vantaggio, rallentano un po’ e ai ristori aspettano il loro gruppone.
Decido di tenere il ritmo più veloce cui avevamo corso fino a quel momento. Superiamo le lepri e affrontiamo gli ultimi sei chilometri.
Fabio sta molto bene, corre rilassato, ne ha più di me. Gli consiglio di attendere il 18esimo e poi di accelerare. Quando aumenta cerco di tenerlo nel mirino, in modo da aumentare anch’io.
Ultima curva e ultimo sottopasso prima di rientrare in pista per il traguardo, ma ci attende una sorpresa. La pioggia ha reso impraticabile il passaggio e bisogna salire una breve scalinata e ridiscendere dall’altra parte. Mi piace, mi ricorda le salite delle mie montagne, salgo correndo e scendo ancor più veloce.
Trovo due amici, Alessandro e Daniela, e ripartiamo per l’ultimo chilometro.
Aumento ancora. Come non avevo fatto mai. Non sono un agonista e non mi piace fare la volata dei poveri, ma oggi corro contro il tempo. Sento lo speaker annunciare lo scoccare dell’ora e quarantacinque, ma sono ancora molto lontano.
Finalmente vedo i gonfiabili e riconosco quello del traguardo. Cerco di tenere quel ritmo fino in fondo e chiudo persino un po’ più veloce di quanto Danilo mi aveva chiesto.
Fabio mi ha dato una trentina di secondi, gli altri compagni di allenamento sono davanti, ma io sono felice.
Non soddisfatto, proprio felice.
Felice per un crono inaspettato. Felice che gli allenamenti stiano procedendo in linea con quanto previsto. Felice di essere uscito dal letto domenica mattina ed essere venuto qui a Monza a dimostrare a me stesso che New York è un po’ più vicina.
Era uno di quei momenti che temevo. Tornare a gareggiare equivaleva a guardarmi allo specchio, fare il punto della stagione. Se aggiungete anche la classica domanda “E allora, com’è andata?” del lunedì mattina che ti fa sentire in un perenne stato da pre-interrogazione scolastica, beh allora la voglia di farlo era davvero poca…
Però, almeno questa volta, posso dire che è andato tutto bene. (E già lo so che ci sarà una prossima gara in cui pagherò questo ingiustificato atteggiamento festante).
Domenica sera, con il la mia società sportiva, abbiamo partecipato alla Magnolia Run. Una corsa di poco più di 6 chilometri intorno all’Idroscalo di Milano organizzata da “De ran clab” e “Purosangue Athletics Club” (un progetto davvero bello che seguo da qualche anno). E’ una non competitiva. Quindi niente pettorali, niente classifica finale e, oggettivamente, livello competitivo basso. C’erano alcuni atleti molto forti che hanno corso per il piacere della compagnia più che per far gara davvero.
Comunque, tutto ciò detto, alle 19 meno qualche minuto ci siamo messi in posa sotto il gonfiabile per le foto di rito (ed essendo in gruppo con Danilo, eravamo in prima fila). Mi ero riscaldato per bene, ma sentire il gruppo che scalpitava alle mie spalle ansioso di partire mi ha fatto concentrare sul primo problema: dove infilarmi per non essere schiacciato?
Lo speaker annuncia il conto alla rovescia, e siamo in gara.
Mi ero ripromesso di non guardare mai il gps, ma di basarmi esclusivamente sulle sensazioni. Conoscendo molto bene il giro, sapendo in anticipo dove si trovavano i tratti in leggera salita o lo sterrato, sapevo come dosarmi. E così ho fatto.
Dopo il cartello del secondo chilometro (il primo non l’ho neppure visto) mi sono assestato sulla velocità di crociera (o meglio sulla quantità di fatica che pensavo di poter mantenere fino alla fine).
Nel frattempo avevo iniziato a far conoscenza con gli altri concorrenti. Chi non corre stenta a crederlo, ma in gara – anche quelle super veloci in cui non si parla – si crea uno speciale rapporto con i “pari-passo“, cioé con le persone che corrono al tuo stesso ritmo. Io avevo individuato tre possibili lepri, persone da tenere nel mirino, un gruppetto di filippini con un signore anziano che era partito in prima fila, un ragazzino di 10/12 anni, e Fabio, mio compagno di squadra capace di ritmi ben più veloci del mio, ma che potevo cercare di tenere per avere uno stimolo in più. Poi nel corso della gara ero stato raggiunto e superato da un bel gruppo di persone. Alcune se ne erano andate, ma altre si erano assestate su un ritmo simile al mio.
Al secondo chilometro avevo raggiunto il signore anziano (ti piace vincere facile, neh?), nella salitella in prossimità della prima grande curva avevo raggiunto il ragazzo, Fabio invece progrediva inesorabilmente lasciandomi indietro. Mi raggiunge la prima donna in gara (ripeto non c’erano atleti di livello elevatissimo, di solito fatico a tenere il passo della 30esima delle concorrenti) e la osservo sfilare via. La seconda donna mi raggiunge al cartello del terzo chilometro, è accompagnata da un amico e decido di provare a tenere il suo passo. So che Claudia, altra compagna di società, è partita subito dietro di me e dovrebbe procedere più o meno al mio ritmo, quindi mi faccio un appunto mentale di contare le donne che mi supereranno per incitarla.
Sullo sterrato inizio a faticare. Decido di calare un po’ il ritmo e resisto alla tentazione di spiare l’orologio. Al quarto chilometro punto due ragazzi con la maglia filippina (erano presenti in gran numero) e cerco di non lasciarli andare via. Sembrano andare tranquilli, ma li avvicino in discesa e li perdo in salita.
Mi supera la terza donna, il suo compagno la incita “dai che al quinto andiamo via in progressione…” Provo a stare con lei, visto che sembra essere in difficoltà, ma il seguito proverà che avevo torto.
Insomma è un continuo attaccarmi a qualcuno che mi supera da dietro. Ma non riesco a tenere i loro ritmi. Un ragazzo con la barba mi supera, lo raggiungo e lo risupero, dopo 50 metri è di nuovo lui ad andare avanti. Intanto siamo arrivati ai due ponticelli che precedono l’arrivo. I due ragazzi filippini hanno magicamente in mano una bandiera che sventolano trionfanti. Un ultimo sforzo – mi dico – e finalmente raggiungo gli altri componenti della squadra sotto il gonfiabile dell’arrivo.
Danilo mi prende i giro: “perché non hai fatto la volata? sei davvero un maratoneta!” Io fermo il cronometro e non riesco a credere al tempo finale. Ritmo medio 4’38″/km meglio di qualsiasi più rosea previsione. Se mi avessero chiesto a cosa puntavo avrei risposto che sarei stato felice di stare di un paio di secondi sotto i 5’/km.
Ebbro di endorfine vado al ristoro ed incontro un sacco di amici, Claudio, Mauro, incrocio perfino Max Monteforte (fondatore dell’associazione Purosangue) con il quale mi complimento per la bella manifestazione. E poi di corsa alla macchina per tornare a casa e godermi una serata con mia figlia…
Anche se la gara era appena iniziata, la voce dello speaker aveva una forza ed una tonalità degna della segnatura di un goal in una finale della coppa del mondo.
“And out they go, leaving the stadium after one lap. Ten man fighting to get the head. Among them Nik The Snake Parenti. Will the local runner be able to compete against the strongest athletes of the country?”
In pochi mesi intorno a lui era cresciuto un tifo degno delle partite di rugby australiano. Era arrivato a Bunbury per caso. Una sera stava surfando sull’oceano a Biarritz in Francia e aveva incrociato una ragazza. Una faccia nuova, una biondina esile che cavalcava leggera le onde. Si chiamava Ana e veniva dalla Spagna.
Quella sera si era fermato con lei e i suoi amici sulla spiaggia. Avevano bevuto e mangiato delle salsicce bruciacchiate su un falò, discutendo di onde e di sogni. Il loro era di andare in Australia. Così seguendoli si era trovato sulla Bells Beach e dopo un paio di settimane e una gigantesca litigata con Ana li aveva mollati e aveva iniziato a girare il paese. Tornato sulla costa alla fine dell’estate, aveva scoperto che loro erano rientrati in Europa e lui aveva preferito cercarsi un lavoro.
La gara di oggi si preannunciava dura. Era la finale del campionato nazionale di corsa campestre. 8 chilometri (non si era ancora abituato a ragionare in miglia), partendo da dentro lo stadio, uscendo nel parco e percorrendo due volte un anello da due miglia prima di andare a tagliare il traguardo di nuovo nello stadio. Incitato dalla folla era riuscito a tenere la corda in pista e restare con i primi, ma era fuori giri. Forse si era scaldato poco, forse l’aveva presa con troppa foga. Di fatto i polmoni gli bruciavano e il cuore batteva impazzito. Però era davanti, nei cinque che facevano il ritmo.
Anche al campo di atletica era arrivato per caso. Lo vedeva ogni giorno mentre andava a lavorare al bar. Così si era informato e aveva scoperto che poteva entrarci gratis. Aveva deciso di riprendere a correre in modo da restare in forma durante l’inverno e per poter sfruttare la doccia calda. A casa sua c’era solo una piccola vasca nella quale faticava a lavarsi. Era entrato in un team e, grazie ai tanti allenamenti fatti da ragazzino alla Pro Patria di Milano, presto aveva scoperto di essere tra i più veloci della sua categoria. E dopo una trionfale serie di gare vinte, eccolo a disputare la finale.
Il biondino era l’osso duro. Nik gareggiava così. Individuava l’atleta più forte e ingaggiava con lui un corpo a corpo furioso fatto di scatti e controscatti. Un braccio di ferro di forza pura. E quando arrivava in vista del traguardo scattava e lasciava sul posto l’avversario esausto: questo gli aveva guadagnato parecchie medaglie e il soprannome The Snake.
Usciti sullo sterrato il gruppetto si era ulteriormente assottigliato. I velocisti puri avevano ceduto e solo in tre continuavano ad imprimere alla corsa un ritmo forsennato. Alla fine del primo giro erano rimasti in due, il biondino e lui. Nik attaccò di nuovo in salita, sentiva l’ansimare dell’avversario alle sue spalle, voleva liberarsene. C’era una curva secca e ne approfittò per verificare il suo vantaggio, una decina di metri, forse ce l’aveva fatta. Ma sulla discesa successiva il biondino gli fu di nuovo addosso e lo infilò in uno slargo. Costretto a sua volta ad inseguire Nik si arrabbiò con se stesso.
“Che cretino! Pensavo di avercela fatta e non sono ancora a metà gara. Mi sono preoccupato di come mi sentivo invece che continuare a spingere.” Ecco di nuovo lo stadio, poco più di un giro di pista li separava dal traguardo. Il biondo correva leggero e veloce, sembrava non far fatica, invece Nik ansimava pesantemente, le gambe erano di marmo ed ogni passo gli provocava una fitta al fegato. Sentì crescere dentro di lui la rabbia. Abbassò la testa, spense il cervello, ignorò il dolore e la fatica e si mise in scia.
Dentro lo stadio la folla rumoreggiava. Il cronista gridava nel microfono ma le parole si confondevano nelle sue orecchie al fragore generale. Ultima curva, rettilineo finale, meno di cento metri. Smise di respirare adesso doveva solo correre. Affiancò la canotta biancoverde dell’avversario e continuò ad accelerare. Ma non riusciva a superarlo. Venti metri, quindici, dieci, chiuse gli occhi tanto comunque aveva la vista offuscata e cercò di spingere un po’ di più.
Crollarono insieme oltre il filo di lana. Tossendo ed ansimando, distesi a terra, si scambiarono una stretta di mano ed uno sguardo. Non sapevano ancora chi aveva vinto, ma entrambi sapevano di aver dato il massimo. Ed era stata una grande gara.
Sul pullman che lo riportava a casa, Nik continuava a giocarellare con la medaglia. I suoi lo avevano festeggiato come se avesse vinto, ma dentro di lui sentiva crescere quell’ansia che conosceva così bene. Era una sensazione di insoddisfazione, di lavoro non finito. Sapeva che doveva andarsene da lì, dalla squadra, da Bunbury, dall’Australia. Doveva cercare nuovi stimoli.
Era una vita che andava avanti così. Aveva studiato chitarra classica al conservatorio e quando aveva capito che non poteva diventare un concertista aveva mollato. Aveva convinto Ilaria ad uscire con lui, a fidanzarsi, a sposarsi e, dopo qualche mese, era fuggito. Lo stesso valeva per il surf e per tutte le altre passioni che avevano costellato la sua esistenza.
Voleva essere il più bravo. Aveva necessità di essere il più bravo. Nella corsa ci era quasi riuscito. In fondo correre era un modo di fuggire. Per questo gli veniva così bene, ma alla fine aveva fallito. Di nuovo.
Continua a correre, succhiando l’aria inseguendo il lampo giallo della canotta dell’avversario. E poi insisti, sul rettifilo puoi aumentare e tieni in curva il passo conquistato.
Stagli sotto, aspetta l’attimo, e quando passi non lasciarlo attaccarsi alla tua scia. Ancora un giro e una schiena sudata che ti separa da un sogno dorato.
La campana. Non mollare. Non ora. E i passi dietro che senti sempre più forti. E il respiro che ti brucia la gola. E il sangue che pulsa nel cervello.
La tribuna e la gente a bordo pista si trasformano in un tunnel sfocato Il sudore negli occhi ingradisce la linea immaginaria da tagliare.
Poi due ombre colorate a sinistra, ed un’altra che ti butta giù dal podio. Disteso sopra l’erba in mezzo al campo Bevi il cielo con la bocca e con gli occhi.
E comprendi quanta vita può passare anche solo in un decimo di secondo.