Il bugiardo

Il sistema dell’informazione è in crisi. Colpa degli editori? Dei giornalisti? Difficile dirlo. Gli unici che non hanno colpa sono i lettori

Absit inuria verbis.
Metto i punti sulle i e sgombro il campo fin da subito: non cercate in questo post dei riferimenti ad una persona reale. Ho “creato” un personaggio mettendo insieme le caratteristiche e soprattutto i difetti di molte persone allo scopo di rendere più vivida l’immagine.

Ho un amico che è un grandissimo narratore. Ha proprio una dote innata.
Ha una voce profonda che arriva in tutta la stanza persino quando bisbiglia.
Ha una mimica facciale degna di un grande caratterista.
Quando parla sa calibrare il ritmo inserendo sapientemente le giuste pause.
Tiene agganciati gli ascoltatori con la voce e i movimenti delle mani.
Ogni barzelletta, raccontata da lui, diventa esilarante, e quando provi a ripeterla a casa, scopri che non funziona più.
Ma il meglio di sè lo dà quando racconta qualche aneddoto.
Gli sono capitate più cose che ad ogni altra persona. E sono tutte strane, emozionanti, commoventi.
Così che mi sono trovato a pensare che non si tratti veramente di ciò che gli capita, ma di come lo racconta.

Dovete capire che per uno come me, che aspira a vivere di parole, un personaggio di tale fatta è un libro da studiare.
Ho anche provato a rendere scrivendo quello che lui racconta, usando la punteggiatura e tutti gli strumenti retorici in mio possesso.
Un esercizio utile, che però si scontra con una realtà diversa, meno multicolor, quando scrivo qualcosa che è capitato a me.

Pinocchio

E il motivo è semplice.
Il mio amico è un bugiardo.
Usa la realtà fino a quando gli serve per imbastire la storia, ma quando deve prendere il volo non disdegna di travisarla o, persino, di inventarne una di sana pianta.
La verità ha tanti pregi, ma è prevedibile.
Per trasformare una storia normale, in una storia straordinaria, bisogna impreziosirla di svolte inaspettate.

In questo sta il discrimine tra narratore e giornalista.
Il narratore ha il dovere di tenere desta l’attenzione.
Il giornalista ha il dovere di non travisare mai la realtà.

Questa che è una distinzione ovvia, oggi si sta trasformando.
I giornalisti diventano filosofi e si autoassolvono discettano sui vari gradi della verità.
Le bugie bianche sono ammmesse, o persino date per scontate.
Le piccole spettacolarizzazioni a caccia di attenzione sono perdonate.

Ma c’è in gioco la credibilità (se ancora esiste) di un’intero sistema, quello dell’informazione.
Il quarto potere (per chi ama le citazioni roboanti) che bilancia gli altri tre poteri dello Stato, legislativo, esecutivo e giudiziario.
Ai giornalisti spetta l’ingrato compito di osservare e riportare. Ponendo le domande scomode, facendo il lavoro sporco della verifica dei fatti, sfuggendo alla malìa degli altri poteri.

Gli editori hanno ceduto.
Devono far quadrare i conti e ogni sistema è valido.
Compreso tagliare gli investimenti sull’asset (il capitale) più importante: la professionalità dei giornalisti.

I giornalisti, orfani di un editore che li metta in grado di fare il loro vero lavoro, hanno scelto altre vie: quella dello spettacolo, della notorietà, del vendere copie a qualunque costo.

E così è avvenuta la crasi tra narratore e giornalista.

Se l’editoria è in crisi non è colpa dei giovani che non leggono più, ma degli operatori dell’informazione che hanno accettato di svendersi.

Ascolta “Il bugiardo” su Spreaker.

La scelta di Mattia

Un tema pruriginoso per chi segue i media: Laura Boldrini e la sua lotta contro Vittorio Feltri tirando in causa il figlio Mattia

Il mondo dei media mi affascina.
Sono cresciuto con il mito del giornalismo di inchiesta, del ruolo del notista politico che squarcia il velo sui giochi di palazzo, del dovere di cronaca che si scontra con la coscienza dell’articolista.

Quindi sono stato subito attratto dalla discussione nata su Twitter sulla mancata pubblicazione da parte di Mattia Feltri di uno scritto di Laura Boldrini.

Entrambi i personaggi sono noti: Laura Boldrini, ex presidente della Camera dei Deputati da sempre impegnata sul fronte dei diritti delle donne; Mattia Feltri, giornalista e direttore dell’HuffPost una testata giornalistica on line, forse la più prestigiosa.

I fatti.

  1. Laura Boldrini, nel giorno contro alla violenza sulle donne, invia uno scritto all’HuffPost in cui (si immagina, lo scritto non è noto) prende posizione sul vergognoso articolo pubblicato da Vittorio Feltri su Libero (testata di cui Vittorio Feltri è direttore editoriale).
  2. Mattia Feltri le chiede di cancellare il riferimento al padre dallo scritto e, dato il rifiuto della Boldrini, decide di non pubblicarlo.
  3. Laura Boldrini rende pubblica la vicenda
  4. Mattia Feltri risponde pubblicamente a Laura Boldrini dicendo che è diritto e dovere di un direttore scegliere cosa va pubblicato o meno su un giornale.

Come potete immaginare, si è scatenata una bagarre.

Vorrei qui esporre alcune mie considerazioni.

Premetto che sono d’accordo con Mattia Feltri sul fatto che è prerogativa di un direttore dettare la linea editoriale della sua testata. Lo fa scrivendo, facendo scrivere, ma soprattutto decidendo cosa pubblicare e cosa no.

Quindi il vero tema sono le motivazioni (che peraltro il direttore non spiega nel suo scritto) per decidere di non pubblicare.

Feltri junior dice chiaramente che ha chiesto di rimuovere il riferimento a Feltri senior come condizione per pubblicare.
Ergo dobbiamo cercare in questa direzione cosa abbia guidato la scelta di Mattia.

Di certo c’è una punta di perfidia nella scelta della Boldrini di usare il giornale del figlio per attaccare il padre.
Peraltro, la Boldrini collabora regolarmente con l’HuffPost, visto che questo contiene un suo blog.
Feltri spiega che, essendo la Boldrini un’ospite dell’HuffPost a maggior ragione sarebbe tenuta al rispetto delle regole della casa (la frase esatta è “E gli ospiti, in casa d’altri, devono sapere come comportarsi.”).

Questo è il primo punto su cui sono in pieno disaccordo con Feltri.
I blog oggi portano lettori alle testate che li contengono. Anche se (ma ignoro se quello della Boldrini ricada nella fattispecie) si tratta di collaborazioni gratuite, non possono essere ridotti a “spazi concessi” dalle testate agli autori.
Non nego l’importanza fondamentale dei giornalisti che scrivono i pezzi all’interno del giornale, ma considerare i blogger “ospiti” è miope (se non presuntuoso).

La seconda cosa che mi fa storcere il naso nella scelta di non pubblicare è che avrebbe pubblicato se non ci fosse stato il nome di Feltri padre.
Quindi lo scritto era “ricevibile” ma creava una situazione di imbarazzo l’attacco ad personam.
Riconoscendo a Feltri junior l’onestà intellettuale di non rifuggire un conflitto di opinioni, mi trovo a considerare due scenari.
Il primo, più onorevole, suppone che il direttore abbia voluto evitare che il suo cognome venisse strumentalizzato per colpire un terzo (titolo del giorno dopo su Repubblica “Anche Mattia Feltri condanna il padre Vittorio”).
Il secondo, ahimè più umano, risiede nel non voler creare guai in famiglia.

Laura Boldrini, Mattia Feltri e Vittorio Feltri

Il terzo punto su cui mi trovo in disaccordo su quanto scritto da Mattia Feltri è la chiusa, il post scriptum della sua replica, in cui polemicamente aggredisce il presidente dell’Ordine dei Giornalisti per aver appoggiato la Boldrini.
L’Ordine ha tanti difetti e di certo andrebbe riformato. Ha perso credibilità e autorevolezza. Però è troppo comodo pretendere un “processo” con replica tra le parti per un fatto del genere e non scandalizzarsi quando l’Ordine non si erge a difesa dei diritti dei lettori in tutte le numerosissime occasioni in cui dei giornalisti fanno male il loro lavoro (per incapacità o, peggio, per calcolo).

Infine un quarto ed ultimo punto. Mattia Feltri decide di non pubblicare e facendolo ci permette un brevissimo sguardo dietro le quinte.
C’è una mossa (che già sopra ho definito perfida) della Boldrini per mettere in difficoltà i due Feltri.
C’è un (probabile) scontro tra lei e Feltri a colpi di “lo faccio sapere a tutti” e “non mi faccio ricattare”.
Ma soprattutto c’è una faccia pubblica diversa da quella privata.
Vittorio Feltri fa vendere copie del suo giornale prendendo posizioni iperboliche e roboanti. E’ un po’ il Vittorio Sgarbi del giornalismo (avrei potuto anche scrivere il Mauro Corona).
Probabilmente dice quello che non pensa.
Il figlio, che lo sa, si trova in conflitto tra l’attaccare il giornalista “pubblico” e difendere il padre “privato”.

Chiudo questo mio sfogo con una riflessione.

Esser figli di cotante padre dev’essere davvero difficile.
Imbarazzante il più delle volte.
E per questo (e per le tante cose condivisibilissime che Mattia Feltri scrive) che mi sento di esprimere solidarietà al direttore dell’HuffPost, pur non condividendone questa specifica scelta editoriale.

P.S.: aggiungo in coda il testo dell’articolo scritto dalla Boldrini, non pubblicato da Feltri ma accettato e pubblicato da Il Manifesto: clicca qui.


Aggiungo un commento (il 30 novembre).
Il giorno stesso in cui ho pubblicato questo pezzo, Mattia Feltri ha dato la sua versione dei fatti (qui) e mi sono ricreduto. Però il giorno successivo anche Laura Boldrini ha risposto al pezzo di Feltri (qui) e di nuovo sono tornato sui mei passi.
Forse io sono troppo dubbioso. O forse, temo, Mattia Feltri ha la tendenza a raccontare solo la “sua” verità; o un pezzo di essa…

Chiasso mediatico

La mia personalissima Top Five delle cose che mi hanno rotto le palle nell’ultima fase dell’isolamento. E non è ancora finita

In questo giorno di inzio della Fase Due vi comunico ufficialmente (se a qualcuno dovesse interessare o semplicemente per sfogarmi) che inizio ad avere le palle piene.

Ecco la mia personalissima Top Five delle cose che mi hanno scocciato.

NUMERO UNO:
Pubblicità che con la scusa di dirci quanto siamo bravi e che l’Italia ce la farà, cerca di venderci qualcosa. Ragazzi, siamo consumatori ma non siamo scemi…

NUMERO DUE:
Inchieste giornalistiche, dibattiti, reportage sul Corona Virus. Eccheppalle! la vita va avanti, non so se ve ne siete accorti…

NUMERO TRE:
Discussioni eterne e ricorsive sui vari decreti del presidente del consiglio dei ministri (è questo che significa l’acronimo DPCM). Nelle varie versioni:
a. cosa si può e non si può fare
b. okkei per questa cosa, ma quella? Come avete fatto a non pensare a quella?
c. poteva scriverlo più chiaramente…

NUMERO QUATTRO:
Storie edificanti. Sappiamo tutti che Gramellini è il nuovo De Amicis, ma è un dilettante a confronto con la pletora di microfonati che ci inondano gli schermi di storie strappalacrime, di “nuovi eroi”. Il bimbo che rivede la nonna, la ragazzina a cui manca il cane, l’infermiere che torna a casa distrutto. Tutto vero, tutto commovente, tutto dolcissimo… mò basta però!

NUMERO CINQUE:
Gli ottimisti a prescindere. Che poi sono l’altra faccia della medaglia dei catastrofisti.
Sono morte 30mila persone, ma andrà tutto bene.
La gente non lavora, ma l’Italia è di esempio al mondo.
Chi ci guida (e non mi riferisco solo al governo centrale) procede anaspando a tentoni, ma uniti ce la faremo.
Non siamo bambini piagnucolosi che vogliono sapere quando si arriva! Voglio, non dico dati e strategie, ma almeno non essere preso in giro. Ammettete gli errori: state facendo un lavoro difficile che nessuno ha mai fatto prima. E’ normale sbagliare e riprovare.

Franz Rossi

Ah, che soddisfazione.
Mi sono tolto un po’ di sassolini dalla scarpa.

Adesso approfitto della fase due e me ne vado a correre nel bosco dietro casa.
Sì, perché nonostante tutto, io come molti altri, le regole le rispetto. Anche se non sono d’accordo, anche se “tanto non faccio del male a nessuno”.

Vado nel bosco, perché mi manca un po’ di quel silenzio che è il terreno fertile nel quale germogliano i miei pensieri.

Di questo chiasso mediatico ne ho davvero abbastanza.

La difficile arte del titolista

Non è facile racchiudere in due righe il senso di un articolo. E lo è ancor di più quando il tuo social manager fa pressione per titoli che attirino l’attenzione (clickbaiting) del distratto lettore del web.

Ma si rischia grosso.

E’ capitato a Repubblica (e a molti altri giornali) a proposito della sentenza della Cassazione relativa al caso dello stupro di una donna alterata dall’alcol.

Il senso della sentenza (come spesso accade se a parlare sono i giudici) è non solo corretto ma anche eticamente condivisibile: hanno confermato che nei casi di abusi sessuali, se gli stupratori si avvalgono di armi o violenza fisica o sostanze (tra cui l’alcol) per riuscire più facilmente a forzare una donna bisogna applicare un’aggravante della pena.

Ma se la donna ha bevuto volontariamente e quindi non è in grado di difendersi, vale in toto l’accusa di violenza sessuale per cui gli stupratori saranno condannati, ma non si può applicare l’aggravante dell’alcol.

Si parla dell’uso dell’alcol come strumento per stuprare (che è inapplicabile) e non dell’aggravante dovuta all’essersi approfittati di una persona momentaneamente non presente a se stessa.

In quest’epoca in cui basta poco a scatenare gli istinti, c’è subito stato un coro unanime e bipartisan di biasimo per la sentenza.

Io vorrei che ci fosse un’altrettanto violenta reazione per ogni caso di stupro. Ancora oggi non c’è abbastanza attenzione alle violenze (verbali e fisiche) di cui le donne sono oggetto.

Incolpevolmente. Sempre e comunque.
Ho visto un bel grafico che indicava la principali cause di stupro: abiti provocanti, atteggiamenti disinibiti, alcol… ma erano tutte a percentuale zero. Il 100% delle ragioni di uno stupro sono gli stupratori.

E la sentenza della Cassazione non ha detto nulla di diverso da questo.

PS di seguito i link dell’articolo intero da cui (faticosamente) si evince il senso che ho testé raccontato.

http://www.repubblica.it/cronaca/2018/07/16/news/cassazione_stupro_gruppo_alcol-201944316/?ref=RHRS-BH-I0-C6-P3-S1.6-T1

La nostalgia

Oggi sul Corriere della Sera, Angelo Polito racconta di The Post, il film di Spielberg con Tom Hanks e Meryl Streep [un bel film, ma questa è un’altra storia NdA].

Lo fa con toni nostalgici. Parla (con cognizione di causa) di linotypes e rotative, di proto e di veline, accompagna i lettori in un viaggio della memoria. Di quando i giornali erano importanti, di quando le redazioni vibravano non tanto per le rotative ma per la passione che animava la Stampa, quel Quarto Potere che la storica sentenza della Corte Suprema dichiarò essere al servizio dei governati e non del governo.

Il pezzo è bello e tocca il cuore di chi è vissuto in quegli anni ruggenti. Ma si scorda di citare l’unico degli strumenti (ahimé in disuso) che sarebbe utile ancor oggi: l’inchiesta giornalistica.

Vivo e lavoro nel mondo della carta stampata e non mi capacito di come si faccia così fatica a comprendere che una Stampa impicciona e con la schiena dritta sia la vera protagonista del film di Spielberg.

In Italia i giornali sono un amplificatore del pensiero debole di una classe politica che confonde ideologia e marketing, linea politica e demagogia. Possibile che a nessuno venga voglia di fare domande scomode a questi signori?

The Post celebra un certo tipo di giornalismo, non la tecnologia dei bei tempi andati.

E con buona pace di Polito, io ho nostalgia di quello…