Abbiamo da poco celebrato il decennale della morte di Lucio Dalla.
Tra le tante canzoni che ha scritto, ce n’è una che è uscita nel 1979 e che io, allora quindicenne, mandai a memoria al primo o secondo ascolto e nella quale ritrovai un manifesto della condizione giovanile dell’epoca.
Mi riferisco ad “Anna e Marco”, prima traccia del lato B del long playing intitolato semplicemente Lucio Dalla. Un disco che conteneva, tra le altre, “Cosa sarà” in cui duettava con De Gregori, “L’ultima luna”, “Stella di Mare” e la suonatissima “L’anno che verrà” con quelle pennate strascinate sulla chitarra che ti facevano sentire un musicista vero quando la intonavi con gli amici.
Ma torniamo ad Anna e Marco.
In poche strofe tratteggia la storia d’amore di una giovane coppia che vive in periferia. Parla dei loro sogni e del confronto con la realtà.
In una frase racconta disillusione e voglia di evasione, così come, in una sola riga, racconta una giovinezza fatta di domeniche pomeriggio al bar e serate in discoteca, prima di rientrare in una realtà che aliena.
Dalla, come tutti i grandi artisti, era in grado di usare le parole per dipingere immagini.
E le parole erano scelte con cura: costrette nella metrica di una canzone, eppure così forti e così libere.
L’altra mattina ascoltavo quell’album e sono stato colpito da una strofa.
La canzone inizia descrivendo i due personaggi in modo simmetrico.
Entrambi hanno voglia di evadere, “andar via” come canta Dalla.
Trovano una moto e fuggono in città dove entrano in un bar e lì…
Anna bello sguardo, non perde un ballo
Marco che a ballare sembra un cavallo
In un locale che è uno schifo
Poca gente che li guarda, c’è una checca che fa il tifo
Così loro scappano via, innamorati e pieni di vita, per un giro sotto la luna e gli sguardi dei cani randagi, per poi tornare mestamente alle loro vite a fine serata.
La cosa che mi ha colpito è il particolare dell’omosessuale che nel bar li guarda ballare.
Possiamo pensare che si tratti dello stesso Dalla che si mette comodo in quella postazione di osservatore e da dentro la storia ce la racconta.
Quello che mi ha colpito è la scelta del termine “checca” per autodefinirsi.
Appena meno offensivo del termine “frocio”.
Ma in quella strofa non solo è perfetto come metrica, ma è anche perfetto come descrizione.
La parola “checca” non offende, anzi ha un che di bonario, di affettuoso.
È un tocco di colore in un quadro equilibrato.
Nel mondo di oggi si cerca una correttezza di facciata (è di questi giorni la notizia che Apple cambierà la voce di Siri, il suo assistente vocale, per renderla “gender free”) invece che un rispetto culturale.
Si purgano le parole invece che le idee, come se fossero queste il bene e il male.
La lirica di Lucio Dalla è equilibrata e perfetta. E sfido chiunque a sentirsi offeso dall’aver definito “checca” l’omosessuale nel bar.
Quando si parla si deve andare oltre al singolo termine, ed analizzare il contesto della frase.
Il messaggio arriva forte e chiaro, e solo un esegeta miope potrebbe criticare la scelta del poeta.
Eppure…
eppure è di questi giorni la polemica sull’iniziativa (fortunatamente subito rientrata) dell’università Milano Bicocca di sospendere un corso di Paolo Nori su Dostoevskij. Per opportunismo politico, non volendo suscitare polemiche antirusse in questi giorni delicati del conflitto con l’Ucraina.
C’è la famosa massima che viene attribuita a decine di diversi autori che recita: “Quando il saggio indica la luna, l’imbecille guarda il dito”.
Beh devo confessare che da un po’ ho la sensazione che siano gli imbecilli a gestire il mondo.
E adesso torno ad ascoltare Dalla…