Correre per una lacrima, una lacrima per correre

Ho scritto questo pezzo a dicembre 2011, il giorno dopo essere stato a Reggio Emilia in occasione della Maratona del Tricolore (la cui 24^ edizione si è corsa ieri). Non ero andato lì per partecipare alla gara, ma avevo lo stand di X.RUN (la rivista che ho fondato) e di Emergency.
Ma lo trovo ancora attuale…

partenza Maratona del Tricolore

Ero alla Maratona di Reggio Emilia.

Scrivo “ero” perché la mia presenza si è limitata a presenziare allo stand di X.RUN for EMERGENCY e non a correre la gara.
Se provo a definire le sensazioni che regnavano dentro di me in quel sabato premaratona, la parola che mi viene in mente è fastidio.
Fastidio per non poter correre, fastidio per sentirmi tagliato fuori da quel bel gioco che tanto mi prende, e invidia per questa folla di persone in tuta che stringe tra le mani la busta con il pettorale.

Ho individuato la ragazza quando era ancora un po’ lontana dallo stand di Emergency.
La prima cosa che mi ha colpito è stata l’andatura: sembrava esitante, si avvicinava rapida agli stand come sospinta da una grande determinazione e una volta arrivata a contatto si ritraeva di un passo o due. Curioso…
La seconda cosa, una volta che è stata più vicina, è stato il suo sorriso: un sorriso generoso, bello e buono, eppure trattenuto, timido… in linea con la sua andatura.
La terza cosa, quella che mi ha strappato un sorriso invidioso, è stato il suo cappellino: uno dei classici cappellini a visiera, ma con la scritta Randagio ricamata sopra…

La ragazza si è avvicinata, mi ha detto a mezza voce “ritorno dopo” (come fanno in mille alle fiere) e si è allontanata verso l’area del ritiro magliette e pacchi gara.
Poi, però, lei è tornata e abbiamo parlato un po’.
Ho rotto il ghiaccio io, parlando di Emergency e di cosa fanno nel mondo.
Lei mi ha detto che è un medico e che lavora in Pronto Soccorso.
Le ho raccontato perché X.RUN supporta Emergency e di come la corsa possa essere molto di più di un passatempo.
E lei mi raccontato della sua passione per la montagna e di come qualche tempo prima fosse stata coinvolta in un incidente d’auto mentre era sull’ambulanza e avesse rischiato di rimetterci la vita.
Prima di salutarla le ho chiesto cosa pensava di fare il giorno dopo. Se cercava il record personale o voleva semplicemente divertirsi.

Ed ecco ripetersi il miracolo.
Mi ha detto che voleva solo arrivare in fondo, provare a se stessa che era davvero tornata a vivere dopo l’incidente.
Mentre parlava non ha saputo trattenere la commozione, la voce tremava e sugli occhi è passato rapido il velo liquido di una lacrima.
Mi ha sorriso imbarazzata, scusandosi per quell’attimo di debolezza.

In verità quello è stato il più bel regalo che poteva farmi.

Quella lacrima mi ha cambiato la giornata ed ha dato un senso al mio essere lì.
Per un brevissimo istante è saltato il tramezzo che costruiamo tra la nostra facciata e quello che siamo veramente.
Se sapremo far parlare la parte nascosta dietro il tramezzo, allora ci sarà ancora speranza per il genere umano.

Grazie anonima amica per aver condiviso con me per un paio di minuti la tua vera essenza.

What a show

Che spettacolo!
Vienna, ore 8:15, Eliud Kipchoge tenta di abbattere uno dei grandi muri dell’atletica: due ore in maratona.

Una macchina organizzativa perfetta.
Treni di 7 lepri che si alternano, cinque davanti e due dietro, nero vestiti, come pretoriani che scortano lui, vestito di bianco.
Una macchina elettrica che anticipa il drappello, con un raggio laser che disegna sull’asfalto una gabbia di linee che mantiene la velocità per battere il record.
Un percorso a bastone, un anello da ripetere enne volte con due giri di boa abbastanza stretti.
Gli allenatori che lo seguono in bicicletta con un computer montato sul manubrio.

20 mila persone che, nel parco del Prater, affollano le transenne e lo sostengono con un tifo da stadio per l’intera durata del tentativo.
Diretta televisiva su tutte le grandi reti, oltre che streaming su YouTube.

INEOS 159 challenge

E poi c’era lui.
Eliud Kipchoge, una macchina da corsa dalla meccanica perfetta, ma soprattutto una grande testa che lo sostiene e un cuore che lo ispira.
Detiene il record mondiale di maratona.
Ha già provato due anni fa ad abbattere il record (leggi qui).
Ed oggi corre in totale controllo.

Eliud Kipchoge

Per chi non comprendesse la dimensione dell’impresa: si tratta di viaggiare oltre i 21km/h (per noi appassionati di corsa 2’50″/km).
Come ha detto bene Giorgio Rondelli, grandissimo allenatore e commentatore capace di istruirci ecommuoverci, basta provare ad andare in pista e compiere un giro in 68 secondi.
Finirete senza fiato e lontani da quel tempo. Kipchoge deve mantenere quella velocità per 42km e 195 metri.

La sensazione che il record fosse alla sua portata c’era dal primo chilometro.
Una corsa controllata, un metronomo assoluto, negli ultimi 5 chilometri sorrideva sentendo le gambe che andavano a quel ritmo assurdo per chiunque altro apparentemente senza sforzo per lui, passato il cartello dell’ultimo chilometro ha superato le lepri e ha corso probabilmente il chilometro più veloce dell’intera maratona.

1 ora, 59 minuti e 40 secondi.

Oggi a Vienna, Eliud Kipchoge, ha fatto la Storia.

E’ stato un punto di svolta per lo sport, ma è stato anche un punto di svolta per l’atletica spettacolo.
C’erano i grandi sponsor INEOS in primis, ma anche Nike che era protagonista del primo tentativo.
C’era il grande pubblico (e mentre scrivo non so quante persone fossero collegate via televisione).

Ho scritto questo pezzo a caldo, e mi rendo conto che non ho citato il fatto che tra le lepri ci fossero i grandi nomi dell’atletica, campioni olimpici al servizio di un sogno.

Non ho citato che all’arrivo Kipchoge saltava come un grillo e correva senza sforzo, in barba al fatto che aveva appena abbattuto uno dei muri che si pensavano invalicabili.

Ma mi resta la certezza che i parchi di tutto il mondo oggi saranno pieni di persone che corrono con negli occhi quel piccolo uomo con la canotta bianca che ha affermato una volta in più che l’essere umano deve ancora scoprire i propri limiti.

Voltar pagina

C’è una fase che prima o poi ogni runner deve attraversare e di cui si parla poco.
Capita più spesso ai podisti di lungo corso, quelli che non ardono più del sacro fuoco della “corsa” ma che vivono un menage più tranquillo con questa splendida attività.

Mi riferisco a quel momento in cui, archiviato un obbiettivo che ci ha impegnato per un lungo periodo, dobbiamo iniziare a pianificare il nostro futuro.

Avete presente?
Abbiamo dedicato un anno a preparare la maratona dove avremmo attaccato il muro delle X ore [qui ognuno può mettere il proprio obbiettivo, NdA].
Abbiamo seguito con pignoleria la tabella e siamo usciti a correre quattro o cinque volte a settimana.
Abbiamo curato l’alimentazione, studiato i dettagli del viaggio, persino trovato alcuni amici con cui condividere il ritmo gara.
Poi finalmente la maratona.

A volte ce l’abbiamo fatta e abbiamo abbattuto il muro. A volte no.
Ma in entrambi i casi, ci troviamo il giorno dopo con  la vita svuotata da allenamenti e obbiettivi.

Alcuni reagiscono riposando una settimana e poi iniziando un nuovo ciclo di allenamento.
Ma molti altri (e io tra questi) si crogiuolano nella dolce sensazione del non aver nulla da fare.

Le settimane di riposo, diventano due, poi quattro.
E non trovi dentro di te la voglia di ricominciare.

Molti di noi ricorrono al trucco più vecchio del mondo, si mettono un nuovo obbiettivo, magari non altrettanto sfidante, ma pur sempre un buon motivo per cui uscire a correre.

Altri sfruttano il traino della società sportiva. Escono con gli amici runner solo per il piacere della compagnia.

Insomma, quando si finisce nelle sabbie mobili del “non ho più voglia di correre” c’è bisogno di un appiglio esterno a cui far riferimento.

Voltare-Pagina

Per me, la cosa più importante, è riuscire a voltar pagina.

Devo chiudere e dimenticare quello che è accaduto fino a quel momento e iniziare a pensare al futuro.
Archiviare le sensazioni dell’ultima avventura e provare ad immaginarne una nuova.
Ed ogni anno che passa è sempre più difficile.

Quello che però non sempre è chiaro, è che la pagina che dobbiamo finalmente voltare, non appartiene ad un libro che stiamo leggendo, ma a quello che stiamo scrivendo.

Il nuovo sviluppo della trama, dipende da noi non da un autore che vive la nostra vita.

E’ una differenza fondamentale.

Quando si scrive un libro, si immagina una storia, si creano dei personaggi, e si inizia dal primo capitolo.
Poi, giorno dopo giorno, l’intreccio si sviluppa e i personaggi ci conducono dove il loro carattere li porta.

Scrivere un libro è una sorpresa.
Vivere la nostra vita è lo stesso.

C’è una sensazione che amo tantissimo.
Il senso di libertà che ti regala essere in un’auto, con il serbatoio pieno, una giornata a disposizione e una strada davanti a te.

Voltar pagina, chiudere con il passato e iniziare a scrivere su un foglio bianco è esattamente la stessa cosa.

Si ricomincia, dunque.

#26W26M /3: la maratona

Quando ho provato a scrivere della trasferta nella Grande Mela, ho scoperto ben presto che avrei avuto bisogno di dividere il racconto a puntate.
Ecco la terza di quattro…

“Ecco qua, finalmente ci siamo” pensavo tra me mentre, mescolato agli altri concorrenti della seconda wave entravo nel corral blue sezione F.

Fa paura quanto bene siano organizzati.
D’altronde mettere su strada oltre 50mila persone non è compito da poco.

Eravamo partiti dall’albergo alle 5:45, il tragitto ci aveva impegnato per oltre un’ora durante la quale mi consolavo dicendo “meglio stare un’ora sul pullman che al freddo in strada”.
Poi i controlli di sicurezza, attraverso il metal detector; la divisione dagli amici (ognuno verso la sua area); la curiosità delle mille offerte pre-gara, dalle decine di bagni chimici ai donut, dalla pet therapy al thé caldo.
Dagli altoparlanti gli speaker continuavano a scandire gli eventi, invitando i concorrenti a procedere verso la partenza.
Avevo lasciato la sacca con le mie cose, avevo salutato gli amici, e adesso – da solo con i miei pensieri – attendevo di salire il ponte di Verrazzano.

L’aria era gravida di umidità, qualche goccia e soprattutto il vento freddo, mi avevano fatto optare per tenere addosso la vecchia tuta.
Procedevamo incolonnati, ed intanto spiavo i volti degli altri, ne ascoltavo le conversazioni.
“E’ la mia prima NewYork” “Beato te, sarai eccitatissimo”
Dagli altoparlanti si spandono le note di “God bless America” e poi l’inconfondibile voce di Frank Sinatra riempie l’aria di “New York, New York“.
La gente freme, canta, aspetta. I sorrisi sono tanti, ma hanno una fissità che tradisce l’emozione.

E finalmente, liberatorio, il colpo di cannone.

La fiumana umana invade il ponte. Ho la fortuna di correre nella parte superiore, da dove posso osservare la skyline che si confonde nella nebbia.
Mi sforzo di andare piano, di non farmi trascinare.
Gli altri, intorno a me, sembrano impazziti.

Una ragazza corre con un’enorme bandiera americana per la gioia dei fotografi ufficiali e delle decine di runner che si fermano per immortalare il momento con lo smart phone.
Vola veloce e bellissima, con la tela a stelle e strisce che la ammanta. La rivedrò al 35esimo chilometro, ancora di corsa, ancora al centro dell’attenzione.

Dopo il ponte, riceviamo il primo vero abbraccio della folla.
Gridano entusiasti, adulti e bambini, uomini e donne, di ogni colore.
Il tifo resterà una costante (a tratti quasi opprimente) per tutte le 26 miglia.

Colorato e festante.
Ti strappa un sorriso con cartelli buffi (“If Trump can run this country, you can run this marathon”, oppure l’inquietante “Free your nips” corredato di disegno di capezzoli insanguinati che propone di correre senza cerotti o l’immancabile “Toenails are for pussies“); ti sostiene con spicchi d’arancio, caramelle, persino fogli di carta Scottex; ti impedisce di fermarti, nelle ultime miglia gridano come ossessi “Push man, push. Now!”.

Cinque quartieri attraversati, cinque diverse tipologie di pubblico e tifo.
Dal silenzio degli ebrei ortodossi che quasi non ti guardano, alla caciara di Queens; dall’ululato costante della First Avenue all’affetto strabordante di Central Park.
Tante diversità, architettoniche, paesaggistiche, umane. Un unico obbiettivo: tu.

Non il runner generico, ma proprio tu.
Tu che in quel momento stai passando e magari mediti di camminare.
Tu, con il quale sono riusciti a creare un contatto occhio-occhio, e adesso vogliono trasmetterti la loro energia positiva.
Tu, che squadrano alla ricerca di un nome o di una nazionalità da urlare per incitarti.

Attorno al 15esimo miglio c’è il ristoro che precede il Quensoboro, cioè il ponte per antonomasia (qui lo chiamano semplicemente The Bridge).
I volontari urlano “Fuel for the Bridge, c’mon guys” e ti propongono acqua e sali.
E’ l’ultimo contatto con la gente oltre le transenne.
Per i successivi 1500 metri correrai nel silenzio ritmato dai passi degli altri maratoneti (o forse sarebbe giusto dire maratonandi!).
Fino alla discesa liberatoria.

Tutti dicono che la gara inizia da lì.
Io non ci credevo, ma è vero.
La First, eterna, con i suoi leggeri saliscendi cosicché apprezzi i quasi cinque chilometri ininterrotti di serpentone colorato.
Il Bronx e le sue band rumorosissime che ti lanciano finalmente verso il rientro a Manhattan.

almost a new york
Con i compagni di squadra, foto di rito davanti al laghetto di Central Park durante una sgambata mattutina

Central Park è salita.
Mi avevano detto che erano saliscendi, ma la verità è che è tutta un’unica erta.
Sai che stai arrivando, ma soffri.
Il conteggio in miglia che fino a quel momento ti ha aiutato (26 sono meno di 42) ti si rivolta contro e capisci che un miglio è molto (troppo) più lungo di un chilometro.
Faccio i conteggi a mente, ma arrotondo sempre per difetto e i cartelli chilometrici (30esimo, 35simo, 40esimo) sono sempre un po’ più in là di quanto mi aspettassi.

Finalmente riconosco l’ultima curva, quella che ho percorso ogni giorno nelle sgambate mattutine in Central Park.
Il cartello dice 800 metri che è un’eternità. Molto più di mezzo miglio (!)
Lì riconosco Alessandro, che era partito con il mio stesso obbiettivo cronometrico ma nella wave successiva, e che adesso mi sorpassa.
Mentalmente gli faccio i miei complimenti e un po’ lo mando a quel paese. Decido di allungare per stare con lui fino al traguardo ma è già avanti e non lo raggiungerò fino alla finish line.

Tutto il resto è un mix confuso.
Sorrisi increduli, volti tirati per la fatica o il dolore, freddo che ti penetra attraverso il telo termico mentre sei in coda verso la tua sacca.
Sto con Alessandro fino a quando lui ritira la sacca e procede verso l’albergo.
Io ho un pettorale più alto e devo continuare nel parco.

Tornando verso l’hotel scelgo un percorso diverso, sulla Columbus Avenue, lontano dalla massa dei corridori.
La gente mi guarda e mi sorride, io ricambio solo il sorriso degli altri maratoneti, quasi fossimo membri di un club esclusivo di 50mila membri.
Rifiuto i passaggi sui ciclotaxi e procedo verso l’Empire, verso la doccia calda, verso la birra gelata.

Ippolito mi attende nella hall.
Mi abbraccia e si complimenta.
Sa tutto, il mio tempo e quello degli altri.
E’ bello non dover spiegare la delusione di un crono troppo alto e di poter solo raccontare le belle emozioni che ti sono rimaste dentro.
A lui l’onere, dopo un mese di digiuno, di offrirmi la prima birra: il vero suggello, insieme alla medaglia, della mia New York City Marathon.

La maratona è una questione di rituali

Eccomi qua, in viaggio verso New York, concluse le 26 settimane di preparazione, iniziano la decina di ore di viaggio e poi, domenica, le poche ore della gara.

In realtà la cosa sarà un po’ diversa, e anche i prossimi giorni saranno ricchi di accadimenti (oltre alla visita della città).
Perché quando vai a New York ci sono tradizioni da rispettare.
Cose tipo la visita al centro maratona per il recupero pettorale del giovedì.
O la corsetta a Central Park sul percorso del Reservoir di sabato.
O la cena a base di pasta nel ristorante italiano la sera prima…

Rituali che ti avvicinano alla sveglia all’alba di domenica, con il viaggio verso Staten Island e la lunga attesa prima del colpo di cannone.

A ben pensarci, noi maratoneti, abbiamo tutta una serie di piccoli rituali.
Non solo per New York, ma per tutte le gare.

Ci sono i rituali legati all’allenamento.
I tre lunghi, con il terzo lunghissimo da 33/35 tre settimane prima della gara.
Le ripetute lunghe dell’ultima settimana o il diecimila tirato prima di iniziare la settimana di scarico finale.

Ci sono rituali legati all’alimentazione.
Lo scarico proteico della settimana prima e il carico di carboidrati della vigilia.
I gel da prendere al decimo alla mezza e al trentesimo.
La tazzina di caffé subito prima di partire, la mela o l’arancia subito dopo l’arrivo.

Ci sono rituali legati all’abbigliamento.
I capi da indossare nell’attesa e da togliere pochi minuti prima dello sparo.
I cerotti sui capezzoli, il cappellino o la bandana, i manicotti da arrotolare quando poi farà caldo.

Tutte piccole abitudini che hanno un fondo di saggezza e un profumo di scaramanzia.

Ma le abitudini sono una parte importante della vita del maratoneta.
Sono le abitudini che ti spingono fuori al mattino quando non hai voglia.
Sono le abitudini che ti fanno fare decine di chilometri a seduta e che ti fanno mancare la corse se ne salti una.
Sono le abitudini che fanno sì che non ti pesi sommare ai mille impegni quotidiani anche quelli legati al nostro hobby preferito… correre.

motivazione

Jim Rohn, famoso milionario e di conseguenza apprezzato oratore americano, usava dire:
“Motivation is what gets you started. Habit is what keeps you going”, la motivazione è quello che ti spinge ad iniziare, l’abitudine è quello che rende possibile continuare.

E noi maratoneti siamo la conferma vivente di questo assunto.

Correre contro la guerra

Ho incontrato Alessandro Bertani, vice presidente di Emergency e compagno di avventura nel progetto #26W26M (“26 weeks for 26 miles“) che ci porterà a correre la maratona di New York del prossimo  5 novembre.
Alessandro è un runner convinto con già alcune 42,195 km alle spalle, ma come me alla sua prima esperienza alla maratona per antonomasia.
Il progetto #25W26M che stiamo raccontando fin dall’inizio su questo mio blog e sul sito della Repubblica dei runner si prefigge come scopo quello di testimoniare il nostro appoggio alla ong creata da Teresa e Gino Strada ma anche, e soprattutto, di raccogliere fondi che verranno utilizzati per fornire i medicinali nel campo profughi di Arbat in Iraq.

Alessandro, partiamo dall’inizio, come si coniugano Emergency e la corsa? Intendo sia nella tua vita personale che da un punto di vista più istituzionale.
“Trovo nella maratona una metafora significativa della ragione di esistere di Emergency. Nel nostro lavoro, abbiamo un traguardo chiaro da raggiungere davanti a noi: l’abolizione della guerra. La guerra è la più grande tragedia umana, il più grande crimine contro l’umanità, che provoca solo morte, distruzione e povertà. La cultura della guerra può solo creare le premesse di una prossima guerra. Nei conflitti contemporanei, oltre il 90% delle vittime sono civili. Stiamo andando incontro alla distruzione del nostro futuro, del genere umano. Abolire la guerra potrebbe sembrare un traguardo folle, utopico. Bene, pensavo la stessa cosa quando sognavo di correre una maratona: un obiettivo folle, utopico, che non avrei mai potuto raggiungere, pensavo. E, invece, un obiettivo ambizioso come tagliare il traguardo di una maratona si può raggiungere, l’ho fatto pure io. Come? Alleandosi, con costanza e determinazione, avendo deciso che quella è la strada da seguire, che passo dopo passo quel traguardo si può raggiungere, perché senza un traguardo non si arriva da nessuna parte. Così è, così sarà, per l’abolizione della guerra. Così è stato per altre follie umane che abolire sembrava in passato utopico, come la schiavitù, che era addirittura legale fino a poco più di un secolo fa: si tratta di ieri, nella storia dell’uomo. Come ci si deve allenare per correre una maratona, con il corpo ma soprattutto con la mente, per abolire la guerra bisogna imparare ad allenare le nostre coscienze, bisogna innanzi tutto volere raggiungere quel traguardo. E poi cominciare a muovere un passo dopo l’altro in quella direzione, nel nostro vivere quotidiano”.

Alessandro Bertani
Alessandro Bertani, vice presidente di Emergency, impegnato in una gara a Roma

Emergency ha tra i suoi testimonial diversi personaggi sportivi famosi…
“Emergency ha avuto e ha diversi personaggi sportivi come sostenitori. La ragione potrebbe forse essere perché lo sportivo ha una sensibilità particolare verso l’integrità del proprio corpo e sente quindi più vicina la minaccia del dolore, dell’infortunio, della menomazione che può compromettere il suo vivere quotidiano, come purtroppo succede alle vittime della guerra e della povertà. E’ una sensibilità simile a quella che condividono molti artisti vicini ad Emergency: l’arte, la bellezza, la poesia e la gioia della vita che rischiano di essere spazzate via in un secondo dall’orrore della guerra.

Un altro modo di raccogliere fondi, invece, è quello delle cosiddette charities, gare di corsa in cui i partecipanti si impegnano a fare fund raising per le ong. Nel mondo è piuttosto diffuso (New York, Londra, Vienna) ma in Italia si è cominciato da poco. C’è la maratona di Milano che con la sua prova a staffetta offre alle associazioni no profit un’occasione per farsi conoscere e raccogliere denaro. E poi ci sono altri organizzatori che devolvono a noi di Emergency una parte del costo del pettorale, mi viene in mente il Tor des Geànts, oppure la Strabologna o il circuito trail del Trofeo Malaspina. O le gare non competitive organizzate dai volontari di Emergency e il cui ricavato va tutto all’attività sul campo”.

Insomma, il running in prima fila…
“Il mondo della corsa che ho conosciuto, soprattutto negli ultimi anni, è portatore di un grande messaggio di solidarietà. Credo sia un modo per restituire qualcosa a chi non può permettersi la gioia di poter praticare sport, qualcosa che noi diamo per scontato, come numerosi comportamenti del nostro quotidiano, comportamenti che invece sono inaccessibili a moltissime persone nel mondo. Pensa a chi fugge dalla guerra e dalla povertà. O pensa addirittura a chi non può nemmeno permettersi di pensare di fuggire dalla guerra e dalla povertà che condizionano le loro vite. A Ostia abbiamo costituito un’associazione sportiva amatoriale, Runners for Emergency, che in soli tre anni è diventata una delle più importanti realtà della capitale. A Milano c’è X.Runners for Emergency, altra realtà impegnata da anni a sostenere Emergency correndo. Mi sembra un canale sano e importante per trasmettere il nostro messaggio di pace e solidarietà”.

Credo sia importante spiegare come funzionano la ripartizione tra i fondi raccolti e i costi per gareggiare
“Emergency pone sempre una grande attenzione alla trasparenza ed è guidata da un principio semplice. Tutto il ricavato deve servire alla missione di Emergency. Non copriamo le spese dei fund raiser, non copriamo i costi dell’organizzazione, tutto quello che raccogliamo serve al progetto specifico che viene dichiarato. Come nel nostro caso, Franz. Tu, Ippolito, Matteo, Pierpaolo ed io ci siamo impegnati in questo progetto di raccolta fondi, #26W26M, chiedendo alle persone di contribuire con una donazione a favore dei pazienti visitati nei centri sanitari di Emergency nel Kurdistan iracheno, facendoci carico noi dei costi di viaggio e di alloggio per la maratona di New York, che correremo insieme. Noi ci mettiamo questo, ci mettiamo la nostra passione e la nostra partecipazione diretta e chiediamo a chi non lo potrà fare personalmente di donare anche solo un piccolo contributo a sostegno del progetto che ci siamo posti come obiettivo: 15mila euro, per coprire il costo di tre mesi di farmaci per i centri sanitari di Emergency nel campo profughi di Arbat, nel Kurdistan iracheno. E io mi impegno a consegnare personalmente i fondi raccolti ai nostri colleghi e a documentare così anche questa nostra attività”.

Ma Emergency di cosa vive?
“Emergency può contare su numerosi piccoli sostenitori, che contribuiscono alla nostra attività come possono, attraverso donazioni occasionali, donazioni continuative (che rappresentano per noi la forma migliore di sostegno, perché ci consentono di programmare gli impegni con maggiore tranquillità), il 5 per mille, i lasciti testamentari, che sono una straordinaria testimonianza di continuità sui valori condivisi, da trasmettere alle future generazioni. Dei circa 50 milioni di euro che raccogliamo negli ultimi anni, il 92% circa viene direttamente utilizzato nella nostra attività istituzionale, la cura di pazienti vittime della guerra e della povertà in Afghanistan, nel Kurdistan iracheno, in Sudan, nella Repubblica Centrafricana, in Sierra Leone, in Italia, impiegando circa 3.000 dipendenti tra medici, infermieri, amministratori, logisti, personale di servizio e di supporto all’estero e nel nostro Paese, e promuovendo una cultura di pace, solidarietà e rispetto dei diritti umani. Dal 1994 ad oggi abbiamo curato oltre 8,5 milioni di persone, 900mila solo nell’ultimo anno”.

Mi sono reso conto che abbiamo parlato di tutto, ma non di quello che fa Emergency. Forse io do sempre per scontato che tutti lo sappiano.Mi potresti racchiudere in una frase lo scopo dell’associazione?
“Costruiamo e gestiamo ospedali e strutture sanitarie nel mondo e in Italia e lavoriamo perché un giorno la guerra venga abolita dal futuro dell’uomo”.

E, per quelli che sono disattenti, cosa c’entra questo con l’Italia? Perché so che siete presenti in modo ormai capillare anche qui da noi che con la guerra c’entriamo poco (fortunatamente!)
“Sei sicuro Franz, che la guerra non c’entri con il nostro Paese? Non solo perché noi, come parte del mondo occidentale civilizzato e benestante, esportiamo guerra e importiamo povertà. In Italia da undici anni ormai denunciamo l’esistenza di una guerra ai poveri, alle persone in stato di bisogno, che siano stranieri o italiani poco importa. Si tratta di persone dimenticate, alle quali è negato il diritto alla cura, un diritto fondamentale dell’uomo riconosciuto dalla nostra costituzione e dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Secondo il Censis sono ormai 12 milioni le persone nel nostro Paese che non hanno possibilità di accesso alle cure secondo i loro bisogni. 12 milioni, Franz. Una persona su cinque che si trova a vivere nel nostro civilissimo Paese. Un Paese che lascia per strada gli ultimi perde la ragione prima del suo esistere, perde il fondamento del vivere insieme. Perché accetta la logica – inumana – della sopravvivenza del più forte, che significa poi del più ricco. Il primo preambolo della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo stabilisce che ‘il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali e inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo’. Sai qual è il concetto che trovo più bello in questa affermazione di principi così alti? L’essere membro di una unica  famiglia umana”.

Per chiudere e tornando alla corsa: cosa ti aspetti da questa maratona di New York?
“Mi aspetto solo di raggiungere il traguardo, con te e con tutti gli amici che correranno con noi, mi aspetto che tagliare quel traguardo finisca per rappresentare per molti la dimostrazione che l’unico traguardo impossibile da raggiungere è quello che non ci si pone. E che se quindi ci poniamo tutti insieme – noi, famiglia umana – il traguardo di abolire la guerra, un giorno quel traguardo lo raggiungeremo, tutti insieme. Quando questo accadrà? Dipende solo da noi. Quanto prima ce lo porremo come traguardo, quanto prima cominceremo ad allenare le nostre coscienze e a muovere un passo dopo l’altro in quella direzione, tanto prima vedremo la linea di quel traguardo farsi sempre più vicina”.

Il progetto #26W26M vede cinque runner, Ippolito Alfieri (imprenditore veneziano prestato a Milano), Alessandro Bertani (vice presidente di Emergency – Roma), Matteo Caccia (attore e autore radiofonico, conduttore di Pascal su RadioDue – Milano), Pierpaolo Petruzzelli (avvocato – Bari) e Franz Rossi (scrittore e blogger – Milano) partecipare alla New York City Marathon sfidandosi tra loro non solo a piedi ma anche nella raccolta fondi.
Potete scoprire come va la sfida e potete sostenere Emergency e il vostro campione andando sul sito di Rete del Dono

Come si andava forte…

Enrico Vedilei è un runner molto noto (specialmente tra gli ultra-runner).
Maratoneta di buon livello si è messo in luce nelle distanze lunghissime, vestendo la maglia della nazionale e guadagnando anche la medaglia d’oro ai campionati del mondo sui 100 km.
Questa premessa solo per dire che non è l’ultimo arrivato!

risultati cesano boscone
La classifica della maratona internazionale di Cesano Boscone 1989 (courtesy of Enrico Vedilei)

Stamattina ha postato su FaceBook un documento interessante: la foto della classifica cartacea della maratona di Cesano Boscone 1989.
E ha commentato la foto facendo notare come nell’edizione di quell’anno c’erano ben 654 atleti ad aver corso sotto le tre ore e ben 1.629 sotto le quattro.
Enrico, con un crono di 2h36’14”, si era classificato “solo” 123esimo.

Insomma, conclude Enrico, “non so il motivo, ma una volta si andava più forte”.

Nei pacati commenti che hanno seguito il post si punta il dito sulla mancanza dello spirito di sacrificio che affligge il nostro tempo, oppure sulla mancanza di una scuola di atletica che avvii i ragazzi prima alla pista e poi li faccia maturare per la regina delle distanze.

Ma io penso che il motivo sia molto diverso.

Negli anni ’70 c’è stato un primo boom della corsa su strada e negli anni ’90 un secondo boom.
Spinti dalle vittorie dei nostri connazionali (tanto per citarne alcune Pizzolato vince New York nel 1984 e nel 1985, Bordin è campione olimpico nel 1988, Leone vince New York nel 1996) gli italiani si misero a correre la maratona cercando la performance sportiva.
Si voleva andare veloci e fermare il cronometro prima possibile.
Il valore assoluto era dato dal crono finale.
Correre una maratona in 4 ore e mezza era considerata un’impresa di pochissimo conto, come fare i 100 metri in 30 secondi.

Oggi il running è tornato di moda.
Come pratica salutistica, come abitudine di vita, come ricerca del benessere.
Quindi in moltissimi corrono senza gareggiare (uno studio del 2014 dava 1 su 10 il rapporto tra chi gareggia e chi corre regolarmente).
E questo spiega la crisi dell’atletica classica, quella su pista.

Ma c’è una seconda considerazione da fare.

Viviamo in una dimensione sociale diversa, meno oggettiva.
Siamo abituati a considerare importante sembrare più che essere.
Così abbiamo personaggi illustri che dicono di aver corso la maratona di New York ma che sono più interessati all’evento che alla performance.
Cito Daniela Santanché, che l’ha conclusa nel 2007 in 6h22’52”, in quanto nel mio immaginario è quanto di più lontano possa esserci da una sportiva.
Ma gli esempi sono molti di più e rendo merito alla Santanché che – comunque – l’ha portata a termine.

Non c’è nulla di male, intendetemi.

La maratona è percepita come un’impresa.
E’ una performance umana più che sportiva.
Farlo in 3h45′ o in 4h30′ o finanche in 5h59′ non cambia il senso: “sono sopravvissuto alla maratona” “sono arrivato in fondo”

E’ la differenza tra correre una maratona e fare una maratona.

La prima è una prova sportiva, ti definisce come atleta, e un minuto fa la differenza.
La seconda è una prova umana, ti definisce come individuo, e il crono non c’entra per nulla.

Il vero problema è quando confondi la seconda con la prima, e sei convinto di essere un grande atleta solo perché sei arrivato in fondo.

Io penso che gli organizzatori delle gare dovrebbero fare due medaglie diverse.
Una, per chi rincorre il cronometro, dovrebbe avere inciso il tempo finale (e sia chiaro che non penso che una persona che corre a 6’/km sia peggio di una che corre a 4’/km).
L’altra, per chi rincorre l’impresa, dovrebbe solo aver inciso la parola Finisher o la frase “sono sopravvissuto alla maratona”.

P.S.  A scanso di equivoci vorrei affermare che nella mia vita podistica ho corso tante maratone, e la maggior parte di esse avrebbero la scritta Finisher e nulla di più…

Ritarare gli obbiettivi

Ieri, come previsto, ultimo lungo prima di New York.
C’era grande aspettativa (e un po’ di timore) in me, anche perché gli ultimi due lunghi li avevo bucati.
In entrambi i casi, nonostante fossi di parecchio più lento del ritmo maratona, avevo faticato a portarli a termine.

Appuntamento con gli amici di almostthere guidati da Danilo Goffi all’Idroscalo.

gps lungo Idroscalo
Ecco il tracciato ovale intorno al bacino artificiale dell’Idroscalo nei pressi di Linate a Milano

Il percorso è un anello di 6.200 mt segnati ogni 200 (noi in realtà lo allarghiamo un po’ ed arriviamo a 6.320 mt).
L’idea era fare 5 giri e poi attaccarci un paio di chilometri avanti e indietro per arrivare ai 35…
Dovevo fare i primi tre giri a ritmo di corsa lenta e poi prendere il teorico ritmo maratona e chiudere.

Fin dal primo giro faticavo a tenere anche i 5’50″/km che era il passo di Patrizia e Fabio che si allenavano con me.
Al momento di aumentare, alla fine del terzo giro, loro sono andati mentre io ho preferito mantenere il ritmo lento.
Alla fine del quarto giro sono ripartito, maledicendo ogni colonnina segna chilometri e promettendo dentro di me di non ripassare da quel punto per almeno un anno.
La crisi è una brutta bestia, mi ero alimentato correttamente, non ho patito infortuni, quindi l’unica cosa su cui ragionare è il basso livello di forma.
Alla fine del quinto giro, con 32 km alle spalle, mi sono fermato.

Il gps, impietoso, mi segnala che ho tenuto una media di 5’58″/km, ben lontana dai 5’20” teorici che avevo in mente.
Bisogna ritarare gli obbiettivi, non puntare più alle tre ore e quarantacinque, ma alle quattro ore, sperando di riuscire a stare un secondo sotto per poter almeno vedere il numero 3 all’inizio del risultato.

A parole è tutto facile.
Ho dichiarato da subito che il crono non è il mio obbiettivo di New York, bensì il piacere di correre per la prima volta nella Grande Mela.
Però brucia.
Gli ultimi allenamenti corti avevano dato segnali ben diversi, avevo ripreso ritmi veloci, mi sentivo in forma.
Ma non si può ignorare il risultato del test per eccellenza…

A questo punto New York sarà il mio vero banco di prova.

La maratona come un romanzo

Ho avuto la fortuna di poter leggere in anteprima “Non ci resta che correre” di Biagio D’Angelo (Rizzoli, 18 euro) che trovate in tutte le librerie (qui la recensione pubblicata su Repubblica).

Un po’ per curiosità, un po’ perché tra runners milanesi ci si conosce tutti, ho cercato Biagio D’Angelo e ho scoperto che siamo amici su FaceBook (potere del social network!)
Così, detto fatto, ci siamo organizzati per fare una chiacchierata.

Biagio, devo dire che dopo aver letto il tuo libro, mi sembra di conoscerti. O tu e il protagonista di “Non ci resta che correre” non vi assomigliate per niente?
“Beh, è chiaro che c’è molto di me nel personaggio, diciamo che è uno che mi assomiglia moltissimo.
Ci sono alcuni dei protagonisti del libro, di cui racconto la storia, che sono persone reali che inserisco nella trama. Un buon esempio è Fabrizio Cosi, quello che scrivo di lui è tutto vero, tranne il fatto che ci siamo incrociati alla Milano Relay Marathon… ma è il dettaglio meno importante”

Ecco, uno dei tratti più avvincenti del tuo romanzo è che racconti di alcune persone (e di alcuni luoghi) che sono facilmente riconoscibili tra i runners, specialmente quelli lombardi, e le loro storie si intrecciano con una trama verosimile ma inventata. Insomma leggendo non si capisce mai dove finisce il romanzo ed inizia la realtà.
“Grazie. Questo era un po’ la mia intenzione. La corsa è entrata nella mia vita quando, da spettatore, ho assistito alla maratona di New York. E questo lo racconto fedelmente.
Quel giorno era come se ognuno fosse lì a raccontare la sua storia. E in quel momento ho capito che anch’io avrei voluto essere dall’altra parte delle transenne.”

Così inizia il tuo rapporto con la corsa.
“Certo. Tutti i passaggi obbligati, dal restare senza fiato dopo pochi minuti all’incontro con amici che ti danno i primi consigli e ti accompagnano nel tuo percorso da neofita.
E poi il fuoco che arde sempre di più, la sveglia presto la domenica mattina per andare a correre, il ritrovarsi in una tribù che condivide passione e linguaggio… oltre a tutta una serie di piccole manie”

Biagio D'Angelo alla maratona di Amsterdam
Biagio D’Angelo alla maratona di Amsterdam

E di nuovo è facile per ogni runner riconoscersi in questa descrizione. Ma è stato facile passare dalla vita vissuta al racconto?
“Scrivere un libro, almeno per me, è molto simile al correre la maratona.
E’ un sogno nel cassetto, anzi più che un sogno un progetto che continuavo a rimandare. Poi ho riflettuto sul fatto che quella passione per la corsa che mi ha preso circa quattro anni fa era condivisa da sempre più gente e forse era arrivato il momento di mettersi in gioco e provare a raccontare questo mondo”

E così hai fatto. Altre analogie tra scrittura e maratona?
“In effetti sì – Biagio ride – Non puoi preparare una maratona se non decidi di impegnarti a fondo correndo con regolarità. Io ho fatto lo stesso con la scrittura. Ogni giorno per quattro mesi mi sono imposto di scrivere tutti i giorni, anche fosse solo una riga. Questa cosa per quattro mesi è diventata la cosa più importante della mia vita, quella attorno cui ruotava tutto. Proprio come quando uno prepara una maratona. E alla fine, eccoci qui”

Raccontami un po’ di te. Sei uno sportivo prestato alla corsa?
“Hai presente che si dice che la corsa la possono praticare tutti?
Ecco io sono la dimostrazione vivente che questo assunto è vero.
Sono l’antisportivo per eccellenza, mai riuscito a far nulla di buono nello sport, fin da piccolo…”

Poi New York…
“Esatto. New York mi ha fatto capire che la corsa non è solo fatica (anche se ce n’è parecchia) ma anche condivisione di una passione, partecipare a una festa.
Domenica scorso ho preso parte alla DeeJay10 a Milano. 35mila persone che corrono. E non ci sono solo i maniaci della corsa, è un modo di condividere qualcosa che ti fa stare bene.”

Una cosa che appare chiara leggendo Non ci resta che correre, è che tu sei una persona con grandi passioni.
Ad esempio, quando racconti di Milano e delle corse lungo il Naviglio grande, o l’alba attraversando il centro.
“Il mio rapporto con Milano è particolare. Da bambino sono cresciuto qui, poi i miei sono tornati in Sicilia ed io con loro, fino a quando sono rientrato a Milano da adulto.
E’ una città non facilissima da comprendere, ma quando scatta l’amore è per sempre.”

Molto interessante anche il tuo rapporto con la musica, ascolti un po’ di tutto.
“Di nuovo, è il percorso standard del neofita. Si inizia a correre con le cuffie e ci si spara qualcosa che ti tenga sveglio o ti dia il ritmo. Poi inizi ad ascoltare te stesso.
A me piacciono molti generi musicali, dal jazz alla musica leggera, e ho una grande passione per la musica classica. Credo che non CI sia contraddizione: tutta la bella musica parla al cuore e prima o poi finisce per toccare il corpo. Correre con la musica certe volte è un po’ come ballare.”

Ecco ritornare un concetto che esponi a proposito di maratona.
“Sì, nel libro dico che correre una maratona è un’impresa così stupidamente umana e sovraumana insieme. E lo credo fermamente.
Chiunque può impegnarsi per riuscire a correre i 42,195 (quindi è a misura d’uomo) ma è una dimensione sovraumana proprio perché ai limiti dell’incredibile. Eppure i maratoneti, soprattutto quelli che arrivano dopo le quattro o cinque ore, riescono a fare qualcosa di grande.”

Quindi è la maratona che ti ha rubato il cuore.
“Devo dirti che nutro un grandissimo rispetto per la maratona.
Correrla è stata una delle cose più belle che ho fatto… ma adesso sto avvicinandomi al mondo del trail, della corsa in natura, e devo dire che lo trovo molto affascinante. Se la maratona ti appaga (attraverso la fatica) nel raggiungimento di un obiettivo che ti sei posto, il trail (pur sempre faticoso) è proprio divertimento allo stato puro. Arrancare lungo le salite, correre in discesa, attraversare i boschi, scoprire paesaggi nuovi…”

Così si è conclusa la mia chiacchierata con Biagio D’Angelo, con la conferma già percepita durante la lettura del suo Non ci resta che correre, che abbiamo davvero tante cose in comune.

Perché la maratona è regina

Mi è sempre andato largo il ruolo di maratoneta.

Qualche tempo fa mi sono imbattuto nell’articolo pubblicato sul sito de La Stampa da Massimo Gramellini e, grazie alla sua prosa sontuosa, mi sono reso conto di come i maratoneti siano visti nell’immaginario comune.

“Mi hanno sempre affascinato i maratoneti. Ogni loro corsa è un viaggio, durante il quale incontreranno culmini di onnipotenza e strapiombi di difficoltà. Per ogni maratoneta c’è sempre un chilometro di piombo in agguato. Quando i pensieri si appesantiscono assieme alle gambe e la mente si rifiuta di continuare a sopportare il dolore e vorrebbe soltanto fermarsi al bordo della strada. E’ al fondo di quel chilometro che si sceglie se arrendersi o avanzare.
La crisi non è ancora passata e nessuno in coscienza può dire se e quando finirà. Ma il maratoneta fa una scommessa con il proprio destino e decide di rinviare la resa di un altro metro, e poi di un altro ancora: finché le gambe ricominceranno a respirare un’aria più leggera. Tornato a casa, scoprirà di non essere più lo stesso. Quel chilometro di piombo lo ha trasformato. Gli ha insegnato a oltrepassare la paura e adesso nulla potrà più spaventarlo”.
(Cliccate qui per leggere – se proprio lo desiderate – l’intera rubrica).

Il maratoneta è l’eroe che combatte, il guerriero buono, l’Uomo che si erge contro le difficoltà.

Non nego che mi piacerebbe potermi considerare un siffatto eroe. Ma la realtà è diversa.
Durante le tante maratone che ho corso ho incontrato raramente quel tipo di uomo (pardon, Uomo) ma ho sicuramente visto le persone soffrire, camminare e riprendere a correre fino ad arrivare al traguardo.

last mile
La maratona è la regina dell’atletica, perché ci fa intuire quanto possiamo essere grandi

Credo che la cosa che andrebbe esaltata non sono i maratoneti ma la maratona stessa.
Credo che ogni uomo dovrebbe correre una maratona e mettersi alla prova contro il mito.

Perché la maratona ti insegna l’umiltà.
Ti insegna a soffrire.
Ti insegna che, se accetti di essere messo al tappeto, se accetti di essere limitato, poi sei anche in grado di rialzarti.

La maratona ti insegna che non occorre essere un grande uomo per fare una grande impresa.

E questa lezione andrebbe resa obbligatoria nelle scuole.
Perché è da questa convinzione che possiamo trarre la forza di prendere in mano la nostra vita e cambiarla. In meglio.
La maratona insegna a credere nei nostri limiti, nell’immaginarli un po’ più in là, un po’ più in alto, di quanto la tradizione, la società, gli altri in generale, ci spingerebbero a credere.

Non i maratoneti quindi vanno incensati, ma la prova.
Perché è il grande avversario che affronti che ti rende un grande Uomo.

Il grande avversario e il tuo coraggio di sfidarlo…