Correre per una lacrima, una lacrima per correre

Ho scritto questo pezzo a dicembre 2011, il giorno dopo essere stato a Reggio Emilia in occasione della Maratona del Tricolore (la cui 24^ edizione si è corsa ieri). Non ero andato lì per partecipare alla gara, ma avevo lo stand di X.RUN (la rivista che ho fondato) e di Emergency.
Ma lo trovo ancora attuale…

partenza Maratona del Tricolore

Ero alla Maratona di Reggio Emilia.

Scrivo “ero” perché la mia presenza si è limitata a presenziare allo stand di X.RUN for EMERGENCY e non a correre la gara.
Se provo a definire le sensazioni che regnavano dentro di me in quel sabato premaratona, la parola che mi viene in mente è fastidio.
Fastidio per non poter correre, fastidio per sentirmi tagliato fuori da quel bel gioco che tanto mi prende, e invidia per questa folla di persone in tuta che stringe tra le mani la busta con il pettorale.

Ho individuato la ragazza quando era ancora un po’ lontana dallo stand di Emergency.
La prima cosa che mi ha colpito è stata l’andatura: sembrava esitante, si avvicinava rapida agli stand come sospinta da una grande determinazione e una volta arrivata a contatto si ritraeva di un passo o due. Curioso…
La seconda cosa, una volta che è stata più vicina, è stato il suo sorriso: un sorriso generoso, bello e buono, eppure trattenuto, timido… in linea con la sua andatura.
La terza cosa, quella che mi ha strappato un sorriso invidioso, è stato il suo cappellino: uno dei classici cappellini a visiera, ma con la scritta Randagio ricamata sopra…

La ragazza si è avvicinata, mi ha detto a mezza voce “ritorno dopo” (come fanno in mille alle fiere) e si è allontanata verso l’area del ritiro magliette e pacchi gara.
Poi, però, lei è tornata e abbiamo parlato un po’.
Ho rotto il ghiaccio io, parlando di Emergency e di cosa fanno nel mondo.
Lei mi ha detto che è un medico e che lavora in Pronto Soccorso.
Le ho raccontato perché X.RUN supporta Emergency e di come la corsa possa essere molto di più di un passatempo.
E lei mi raccontato della sua passione per la montagna e di come qualche tempo prima fosse stata coinvolta in un incidente d’auto mentre era sull’ambulanza e avesse rischiato di rimetterci la vita.
Prima di salutarla le ho chiesto cosa pensava di fare il giorno dopo. Se cercava il record personale o voleva semplicemente divertirsi.

Ed ecco ripetersi il miracolo.
Mi ha detto che voleva solo arrivare in fondo, provare a se stessa che era davvero tornata a vivere dopo l’incidente.
Mentre parlava non ha saputo trattenere la commozione, la voce tremava e sugli occhi è passato rapido il velo liquido di una lacrima.
Mi ha sorriso imbarazzata, scusandosi per quell’attimo di debolezza.

In verità quello è stato il più bel regalo che poteva farmi.

Quella lacrima mi ha cambiato la giornata ed ha dato un senso al mio essere lì.
Per un brevissimo istante è saltato il tramezzo che costruiamo tra la nostra facciata e quello che siamo veramente.
Se sapremo far parlare la parte nascosta dietro il tramezzo, allora ci sarà ancora speranza per il genere umano.

Grazie anonima amica per aver condiviso con me per un paio di minuti la tua vera essenza.

La maratona è una questione di rituali

Eccomi qua, in viaggio verso New York, concluse le 26 settimane di preparazione, iniziano la decina di ore di viaggio e poi, domenica, le poche ore della gara.

In realtà la cosa sarà un po’ diversa, e anche i prossimi giorni saranno ricchi di accadimenti (oltre alla visita della città).
Perché quando vai a New York ci sono tradizioni da rispettare.
Cose tipo la visita al centro maratona per il recupero pettorale del giovedì.
O la corsetta a Central Park sul percorso del Reservoir di sabato.
O la cena a base di pasta nel ristorante italiano la sera prima…

Rituali che ti avvicinano alla sveglia all’alba di domenica, con il viaggio verso Staten Island e la lunga attesa prima del colpo di cannone.

A ben pensarci, noi maratoneti, abbiamo tutta una serie di piccoli rituali.
Non solo per New York, ma per tutte le gare.

Ci sono i rituali legati all’allenamento.
I tre lunghi, con il terzo lunghissimo da 33/35 tre settimane prima della gara.
Le ripetute lunghe dell’ultima settimana o il diecimila tirato prima di iniziare la settimana di scarico finale.

Ci sono rituali legati all’alimentazione.
Lo scarico proteico della settimana prima e il carico di carboidrati della vigilia.
I gel da prendere al decimo alla mezza e al trentesimo.
La tazzina di caffé subito prima di partire, la mela o l’arancia subito dopo l’arrivo.

Ci sono rituali legati all’abbigliamento.
I capi da indossare nell’attesa e da togliere pochi minuti prima dello sparo.
I cerotti sui capezzoli, il cappellino o la bandana, i manicotti da arrotolare quando poi farà caldo.

Tutte piccole abitudini che hanno un fondo di saggezza e un profumo di scaramanzia.

Ma le abitudini sono una parte importante della vita del maratoneta.
Sono le abitudini che ti spingono fuori al mattino quando non hai voglia.
Sono le abitudini che ti fanno fare decine di chilometri a seduta e che ti fanno mancare la corse se ne salti una.
Sono le abitudini che fanno sì che non ti pesi sommare ai mille impegni quotidiani anche quelli legati al nostro hobby preferito… correre.

motivazione

Jim Rohn, famoso milionario e di conseguenza apprezzato oratore americano, usava dire:
“Motivation is what gets you started. Habit is what keeps you going”, la motivazione è quello che ti spinge ad iniziare, l’abitudine è quello che rende possibile continuare.

E noi maratoneti siamo la conferma vivente di questo assunto.

Giuro che non smetto più

“Non smetterò mai più!
Giuro che non smetterò mai più!”

Questa frase mi rotolava in bocca come un mantra mentre arrancavo a passo paracarro (quella velocità per cui fai fatica a superare anche i pali della luce) nella calda serata milanese.

“Non smetterò mai più, è troppo faticoso riprendere a correre”.
In effetti, come motivazione, anche il timore di dover ripercorrere la lunga china che ti porta dalla poltrona alla maratona (citando il titolo del librettino di due amici) potrebbe funzionare.

Ma io credo che la motivazione vera, quella che ci spinge fuori giorno dopo giorno sia un’altra: la sfida del cambiamento.

La domanda che più spesso chiedono a noi runners è “Perché lo fai?”
Le risposte sono moltissime, tutte valide e tutte mutevoli nel tempo.
E’ così comune che, quando abbiamo scritto con Giovanni il libro sulle nostre (dis)avventure podistiche, come titolo abbiamo usato una possibile risposta: Corro perché mia mamma mi picchia.

Qualche volta a chiedercelo sono altri corridori, e – pur mutando lievemente la forma – la sostanza è la stessa.
“Ma tu come fai a restare motivato?”
“Dove trovi la voglia di continuare a correre?”

Tra gli alti e bassi della nostra vita da runner, ognuno di noi ha sperimentato varie risposte.
Durante le prime fasi di “26 weeks for 26 miles” ho compreso che il mio stimolo questa volta è diverso.

Quante volte ci capita di pensare di voler cambiare vita, lavoro, partner?
Quello che non ci piace non sono la vita, il lavoro o il partner, ma ciò in cui essi ci hanno trasformato.
Siamo schiacciati dalla routine, dall’abitudine. Siamo plasmati dagli impegni che si sono accumulati sulle nostre giornate.

La nostra voglia di fuga è in realtà una voglia di cambiarci, di riavvicinare la persona che siamo alla persona che vorremmo essere.

Correre è un modo di trasformarci.
Di plasmare il tandem corpo-mente attraverso una disciplina chiamata allenamento.

Funzionerebbe anche con il tai chi, la danza o l’alpinismo.
Gli elementi chiave sono due: dev’essere un’attività protratta nel tempo e deve prevedere un impegno fisico.
E la corsa, nella sua semplicità, è lì pronta ad attenderci.

Non occorre acquistare nulla di particolare che non sia un paio di scarpe da running.
Non occorre andare in alcun centro sportivo.
Non occorre trovare qualcuno che ci insegni o che venga con noi.

Basta uscire e correre.

Un atto volontario e senza fine utilitaristico che non sia quello di trasformare noi stessi.
Un atto egoistico, rubare del tempo alle altre nostre attività per regalarlo a noi.
Un atto che ci permette di mettere in secondo piano il mondo delle idee e riportare il focus sulla nostra fisicità, su quello che siamo veramente, senza sovrastrutture e apparenze.

Un atto di libertà.

Magari la libertà di trascinarsi nei 34 gradi afosi di una serata meneghina.
Ma con la consapevolezza che sei lì solo perché sei stato tu a scegliere di volerti trasformare.