Quando ho provato a scrivere della trasferta nella Grande Mela, ho scoperto ben presto che avrei avuto bisogno di dividere il racconto a puntate. Ecco la puntata finale…
What’s next? L’avventura è finita. Il progetto #26W26M è concluso. E adesso?
Ne ho già scritto subito dopo la maratona (clicca qui), alla fine c’è un senso di vuoto che fatichi a riempire. Niente più tabella, niente più traguardo (fisico e metaforico) da tagliare. Ci si sente un po’ sperduti.
La società per cui corro si chiama almosthere ASD ed è un prolungamento della almostthere srl che ha organizzato la trasferta a New York. I due nomi, Almost there (quasi lì) e Almost here (quasi qui), sono stati concepiti proprio durante la New York City Marathon di qualche anno fa. La gente, tifando, ti urla “C’mon man, you’re almost there” fin dal primo metro della gara.
Vuol dire – mi perdonino quelli che l’inglese lo parlano – “Forza Uomo, ci sei quasi”. Ma il significato, per noi che vestiamo la maglietta almosthere, cambia parecchio. Suona quasi come se ci incitassero a non mollare in quanto membri del team (“Forza Uomo, tu sei un almostthere!”) Brividi extra lungo il percorso…
Però, alla fine, quando in fila stavamo procedendo al ritiro delle sacche, lo stesso mantra ripetuto dai volontari (“Keep moving, you’re almost there” – “Continua a camminare ci sei quasi”) diventava quasi irritante. Il furgone UPS con la mia sacca sembrava irraggiungibile. Il “there” era un luogo quasi stregato che si allontanava mentre mi ci avvicinavo.
Ecco, a quell’accezione di almost there ho pensato in questa settimana. Tutto questo mio muovermi dove è diretto? Quale sarà la prossima tappa del mio viaggio?
Ho sempre pensato che è meglio partire che stare a casa a decidere dove andare. Anche quando ho girato a caso per il mondo, sono sempre rientrato più ricco. Persone, luoghi, esperienze. E non dipende da quanto lontano vai, ma solo da quanto di te stesso lasci a casa. Come se solo lo spirito vuoto potesse essere riempito.
La foto finale mi ritrae medaglia al collo, maglietta di Emergency, grattacieli di New York alle mie spalle. Ed è proprio così.
Sono felice dei due obbiettivi portati a casa: la medaglia e la raccolta fondi per il centro profughi di Arbat [NdA: mancano 13 euro per superare i tremila euro, datemi l’ultima spinta, cliccate qui!] Sono felice che lungo le 26 settimane mi sia rimesso in forma: era la condizione minima e necessaria per affrontare la gara. Ma sono felice anche perché questa ritrovata forma mi permetterà di intraprendere nuove esperienze.
Non so ancora cosa farò. Probabilmente cercherò i sentieri delle mie amate montagne. Ma proprio per quello che ho detto prima, non voglio fare progetti.
Al blog non rinuncio. E’ diventata una piacevole routine (necessaria allo scrittore più che al runner).
Quindi continuate a passare di qua, che di cose di cui chiacchierare ce ne sono sempre…
Post Scriptum: per chi ne avesse voglia, con Alessandro, Ippolito, Matteo e Pierpaolo, i cinque maratoneti del progetto #26W26M, faremo una serata di racconti e festa. Appuntamento domenica 17 dicembre (alle 18:00) presso Casa Emergency, in via Santa Croce 19 a Milano. Passateci a salutare!
Quando ho provato a scrivere della trasferta nella Grande Mela, ho scoperto ben presto che avrei avuto bisogno di dividere il racconto a puntate. Ecco la terza di quattro…
“Ecco qua, finalmente ci siamo” pensavo tra me mentre, mescolato agli altri concorrenti della seconda wave entravo nel corral blue sezione F.
Fa paura quanto bene siano organizzati. D’altronde mettere su strada oltre 50mila persone non è compito da poco.
Eravamo partiti dall’albergo alle 5:45, il tragitto ci aveva impegnato per oltre un’ora durante la quale mi consolavo dicendo “meglio stare un’ora sul pullman che al freddo in strada”. Poi i controlli di sicurezza, attraverso il metal detector; la divisione dagli amici (ognuno verso la sua area); la curiosità delle mille offerte pre-gara, dalle decine di bagni chimici ai donut, dalla pet therapy al thé caldo. Dagli altoparlanti gli speaker continuavano a scandire gli eventi, invitando i concorrenti a procedere verso la partenza. Avevo lasciato la sacca con le mie cose, avevo salutato gli amici, e adesso – da solo con i miei pensieri – attendevo di salire il ponte di Verrazzano.
L’aria era gravida di umidità, qualche goccia e soprattutto il vento freddo, mi avevano fatto optare per tenere addosso la vecchia tuta. Procedevamo incolonnati, ed intanto spiavo i volti degli altri, ne ascoltavo le conversazioni. “E’ la mia prima NewYork” “Beato te, sarai eccitatissimo” Dagli altoparlanti si spandono le note di “God bless America” e poi l’inconfondibile voce di Frank Sinatra riempie l’aria di “New York, New York“. La gente freme, canta, aspetta. I sorrisi sono tanti, ma hanno una fissità che tradisce l’emozione.
E finalmente, liberatorio, il colpo di cannone.
La fiumana umana invade il ponte. Ho la fortuna di correre nella parte superiore, da dove posso osservare la skyline che si confonde nella nebbia. Mi sforzo di andare piano, di non farmi trascinare. Gli altri, intorno a me, sembrano impazziti.
Una ragazza corre con un’enorme bandiera americana per la gioia dei fotografi ufficiali e delle decine di runner che si fermano per immortalare il momento con lo smart phone. Vola veloce e bellissima, con la tela a stelle e strisce che la ammanta. La rivedrò al 35esimo chilometro, ancora di corsa, ancora al centro dell’attenzione.
Dopo il ponte, riceviamo il primo vero abbraccio della folla. Gridano entusiasti, adulti e bambini, uomini e donne, di ogni colore. Il tifo resterà una costante (a tratti quasi opprimente) per tutte le 26 miglia.
Colorato e festante. Ti strappa un sorriso con cartelli buffi (“If Trump can run this country, you can run this marathon”, oppure l’inquietante “Free your nips” corredato di disegno di capezzoli insanguinati che propone di correre senza cerotti o l’immancabile “Toenails are for pussies“); ti sostiene con spicchi d’arancio, caramelle, persino fogli di carta Scottex; ti impedisce di fermarti, nelle ultime miglia gridano come ossessi “Push man, push. Now!”.
Cinque quartieri attraversati, cinque diverse tipologie di pubblico e tifo. Dal silenzio degli ebrei ortodossi che quasi non ti guardano, alla caciara di Queens; dall’ululato costante della First Avenue all’affetto strabordante di Central Park. Tante diversità, architettoniche, paesaggistiche, umane. Un unico obbiettivo: tu.
Non il runner generico, ma proprio tu. Tu che in quel momento stai passando e magari mediti di camminare. Tu, con il quale sono riusciti a creare un contatto occhio-occhio, e adesso vogliono trasmetterti la loro energia positiva. Tu, che squadrano alla ricerca di un nome o di una nazionalità da urlare per incitarti.
Attorno al 15esimo miglio c’è il ristoro che precede il Quensoboro, cioè il ponte per antonomasia (qui lo chiamano semplicemente The Bridge). I volontari urlano “Fuel for the Bridge, c’mon guys” e ti propongono acqua e sali. E’ l’ultimo contatto con la gente oltre le transenne. Per i successivi 1500 metri correrai nel silenzio ritmato dai passi degli altri maratoneti (o forse sarebbe giusto dire maratonandi!). Fino alla discesa liberatoria.
Tutti dicono che la gara inizia da lì. Io non ci credevo, ma è vero. La First, eterna, con i suoi leggeri saliscendi cosicché apprezzi i quasi cinque chilometri ininterrotti di serpentone colorato. Il Bronx e le sue band rumorosissime che ti lanciano finalmente verso il rientro a Manhattan.
Central Park è salita. Mi avevano detto che erano saliscendi, ma la verità è che è tutta un’unica erta. Sai che stai arrivando, ma soffri. Il conteggio in miglia che fino a quel momento ti ha aiutato (26 sono meno di 42) ti si rivolta contro e capisci che un miglio è molto (troppo) più lungo di un chilometro. Faccio i conteggi a mente, ma arrotondo sempre per difetto e i cartelli chilometrici (30esimo, 35simo, 40esimo) sono sempre un po’ più in là di quanto mi aspettassi.
Finalmente riconosco l’ultima curva, quella che ho percorso ogni giorno nelle sgambate mattutine in Central Park. Il cartello dice 800 metri che è un’eternità. Molto più di mezzo miglio (!) Lì riconosco Alessandro, che era partito con il mio stesso obbiettivo cronometrico ma nella wave successiva, e che adesso mi sorpassa. Mentalmente gli faccio i miei complimenti e un po’ lo mando a quel paese. Decido di allungare per stare con lui fino al traguardo ma è già avanti e non lo raggiungerò fino alla finish line.
Tutto il resto è un mix confuso. Sorrisi increduli, volti tirati per la fatica o il dolore, freddo che ti penetra attraverso il telo termico mentre sei in coda verso la tua sacca. Sto con Alessandro fino a quando lui ritira la sacca e procede verso l’albergo. Io ho un pettorale più alto e devo continuare nel parco.
Tornando verso l’hotel scelgo un percorso diverso, sulla Columbus Avenue, lontano dalla massa dei corridori. La gente mi guarda e mi sorride, io ricambio solo il sorriso degli altri maratoneti, quasi fossimo membri di un club esclusivo di 50mila membri. Rifiuto i passaggi sui ciclotaxi e procedo verso l’Empire, verso la doccia calda, verso la birra gelata.
Ippolito mi attende nella hall. Mi abbraccia e si complimenta. Sa tutto, il mio tempo e quello degli altri. E’ bello non dover spiegare la delusione di un crono troppo alto e di poter solo raccontare le belle emozioni che ti sono rimaste dentro. A lui l’onere, dopo un mese di digiuno, di offrirmi la prima birra: il vero suggello, insieme alla medaglia, della mia New York City Marathon.
Quando ho provato a scrivere della trasferta nella Grande Mela, ho scoperto ben presto che avrei avuto bisogno di dividere il racconto a puntate. Ecco la prima di quattro…
Se qualcuno l’avesse capito, me lo può gentilmente spiegare? Ogni volta che faccio un viaggio intercontinentale in aereo mi tocca fare delle levatacce. A prescindere dal fatto che il volo parta tardi (tipo le 9 nel mio caso) tocca lo stesso puntare la sveglia alle 4:30.
Tre ore prima in aeroporto per farsi chiedere dalla ragazza al check in “ma quand’è l’ultima volta che è andato fuori Europa?” “e si è divertito?” “che posti ha visitato?” E’ la nuova prassi per verificare con un breve interrogatorio (la chiamano intervista, ovviamente) la tua identità. Poi ti chiedono cosa fai di mestiere e per che azienda lavori. Danilo (che è un carabiniere) si è persino spazientito a sentirsi chiedere “Ma cosa fa un carabiniere?”…
Ci siamo imbarcati con 50 minuti di ritardo, e mentre ognuno di noi pensava come avrebbe potuto utilizzare meglio quei 50 minuti sotto le coperte, l’aereo è rullato sulla pista e l’avventura è iniziata.
Siamo arrivati al Kennedy (anzi al geieffcchei, come si dice qui) e le procedure di sbarco sono filate via lisce e veloci, nonostante la sera prima ci fosse stato l’attacco sulla ciclabile da alcuni considerato di matrice terroristica e di conseguenze tutte le misure di sicurezza erano state alzate. Un po’ straniti dal troppo cibo, dalla troppa forzata inattività, da quella sensazione strana per cui il corpo ti dice che è sera ma il sole è ancora alto nel cielo, siamo saliti sul pulmino predisposto da almostthere e ci siamo infilati nella nostra prima coda americana.
New York ci si è palesata per simboli. Dai vecchi scuolabus scassati, ai taxi gialli, dai truck giganteschi agli operai con elmetto e giacca gialla nei cantieri. E poi sono apparsi i primi cartelli stradali che indicavano luoghi che risvegliano racconti e memorie. Flushing Meadows con il più grande impianto per il tennis del mondo, Queens, Staten Island, Brooklyn alcuni dei quartieri che attraverseremo nella maratona.
L’autista del pulmino ci regala un tuffo al cuore extra, quando decide di fare una deviazione e di portarci sopra il Queensboro Bridge (The Bridge, per i maratoneti) dove i senatori, quelli che avevano già corso a New York, avevano buon gioco a terrorizzare noi novellini “Passeremo nell’altra carreggiata” “Una salita eterna” “Dopo il ponte entri nel Maracanà”
Finalmente all’Empire Hotel, a due passi da Columbus Circle e dall’ultima curva prima del rettilineo finale in Central Park. Sono stanco, ma mi bastano dieci secondi per entrare nella stanza, mollare tutto sul letto, fare un paio di scatti dalla finestra e riprecipitarmi fuori per esplorare la città.
I miei compagni di avventura (siamo ancora solo una decina, gli altri arriveranno il giorno successivo) si affidano alla guida esperta di Ippolito. L’idea sarebbe di riuscire ad attendere fino alle 20 per mangiare qualcosa e poi tornare a dormire. Ma dopo aver attraversato un paio di Avenues siamo già a caccia del Burger Joint (indicato come il posto migliore per mangiare un hamburger persino da Neil Carey, protagonista dei romanzi di Don Winslow).
Non faccio a tempo a capire che il grande edificio classicheggiante che ha attirato la mia attenzione è la Carnegie Hall, che vedo l’ultimo dei miei compagni infilarsi nella ruota girevole di un grande hotel. Gente alla moda, seduta ai tavolini di una lussuosa sala da thé. Vestiti che non sono pretenziosi, ma che pur nella loro semplicità fanno capire di essere costosi. Belle mamme, bei papà, bei bambini… tutto sembra bello in quel posto. Arriviamo alla reception dell’hotel e proprio mentre io mi domando cosa siamo venuti a fare qui, Ippolito curva bruscamente a destra e sparisce dietro una tenda rossa. Una porticina ci introduce in un antro, rivestito con perline di legno, alcuni tavoloni lungo i muri e un unico grande bancone dove le persone attendono paziente mente in fila.
E’ il paradiso del burger. Un posto alla moda, che viene direttamente dal passato, incastonato in una delle gemme di Manhattan. Si deve far baruffa per sedersi. Alcuni di noi fanno la fila, le ragazze le mandiamo avanti per prendere posto, ma interviene Ippolito per difenderle dalle mire di tre ragazzotte locali. Io studio il menu (che è un foglio di carta da impacco scritto a pennerelli e appeso sul muro) cercando qualcosa di vegetariano. Ordino, pago e aspetto che chiamino il mio nome. Alcuni ragazzi si stringono e mi fanno posto in un bancone. Scoprirò poi che sono italiani…
Il panino più buono della storia dei panini. Invece della carne c’era il cheddar alla piastra, ma era unto il giusto e ricco di salse e cipolla. Peccato solo che, a causa del mio digiuno alcolico, ho dovuto declinare la birra.
Fuori dal Burger Joint il gruppo si divide: gli atleti puntano l’albergo e il sonno ristoratore, noi irriducibili preferiamo un ultimo giretto a piedi. Raggiungiamo Times Square e le sue insegne luminose, poi rientriamo verso l’albergo attraverso la Broadway dove riconosco (difficile ignorarla) l’insegna dell’Ed Sullivan Theater reso famoso dal Letterman Late Show. Ancora immagini che si accavallano confuse nella mia memoria… ed infine il letto.
Eccomi qua, in viaggio verso New York, concluse le 26 settimane di preparazione, iniziano la decina di ore di viaggio e poi, domenica, le poche ore della gara.
In realtà la cosa sarà un po’ diversa, e anche i prossimi giorni saranno ricchi di accadimenti (oltre alla visita della città). Perché quando vai a New York ci sono tradizioni da rispettare. Cose tipo la visita al centro maratona per il recupero pettorale del giovedì. O la corsetta a Central Park sul percorso del Reservoir di sabato. O la cena a base di pasta nel ristorante italiano la sera prima…
Rituali che ti avvicinano alla sveglia all’alba di domenica, con il viaggio verso Staten Island e la lunga attesa prima del colpo di cannone.
A ben pensarci, noi maratoneti, abbiamo tutta una serie di piccoli rituali. Non solo per New York, ma per tutte le gare.
Ci sono i rituali legati all’allenamento. I tre lunghi, con il terzo lunghissimo da 33/35 tre settimane prima della gara. Le ripetute lunghe dell’ultima settimana o il diecimila tirato prima di iniziare la settimana di scarico finale.
Ci sono rituali legati all’alimentazione. Lo scarico proteico della settimana prima e il carico di carboidrati della vigilia. I gel da prendere al decimo alla mezza e al trentesimo. La tazzina di caffé subito prima di partire, la mela o l’arancia subito dopo l’arrivo.
Ci sono rituali legati all’abbigliamento. I capi da indossare nell’attesa e da togliere pochi minuti prima dello sparo. I cerotti sui capezzoli, il cappellino o la bandana, i manicotti da arrotolare quando poi farà caldo.
Tutte piccole abitudini che hanno un fondo di saggezza e un profumo di scaramanzia.
Ma le abitudini sono una parte importante della vita del maratoneta. Sono le abitudini che ti spingono fuori al mattino quando non hai voglia. Sono le abitudini che ti fanno fare decine di chilometri a seduta e che ti fanno mancare la corse se ne salti una. Sono le abitudini che fanno sì che non ti pesi sommare ai mille impegni quotidiani anche quelli legati al nostro hobby preferito… correre.
Jim Rohn, famoso milionario e di conseguenza apprezzato oratore americano, usava dire: “Motivation is what gets you started. Habit is what keeps you going”, la motivazione è quello che ti spinge ad iniziare, l’abitudine è quello che rende possibile continuare.
E noi maratoneti siamo la conferma vivente di questo assunto.
Ho incontrato Alessandro Bertani, vice presidente di Emergency e compagno di avventura nel progetto #26W26M (“26 weeks for 26 miles“) che ci porterà a correre la maratona di New York del prossimo 5 novembre. Alessandro è un runner convinto con già alcune 42,195 km alle spalle, ma come me alla sua prima esperienza alla maratona per antonomasia. Il progetto #25W26M che stiamo raccontando fin dall’inizio su questo mio blog e sul sito della Repubblica dei runner si prefigge come scopo quello di testimoniare il nostro appoggio alla ong creata da Teresa e Gino Strada ma anche, e soprattutto, di raccogliere fondi che verranno utilizzati per fornire i medicinali nel campo profughi di Arbat in Iraq.
Alessandro, partiamo dall’inizio, come si coniugano Emergency e la corsa? Intendo sia nella tua vita personale che da un punto di vista più istituzionale. “Trovo nella maratona una metafora significativa della ragione di esistere di Emergency. Nel nostro lavoro, abbiamo un traguardo chiaro da raggiungere davanti a noi: l’abolizione della guerra. La guerra è la più grande tragedia umana, il più grande crimine contro l’umanità, che provoca solo morte, distruzione e povertà. La cultura della guerra può solo creare le premesse di una prossima guerra. Nei conflitti contemporanei, oltre il 90% delle vittime sono civili. Stiamo andando incontro alla distruzione del nostro futuro, del genere umano. Abolire la guerra potrebbe sembrare un traguardo folle, utopico. Bene, pensavo la stessa cosa quando sognavo di correre una maratona: un obiettivo folle, utopico, che non avrei mai potuto raggiungere, pensavo. E, invece, un obiettivo ambizioso come tagliare il traguardo di una maratona si può raggiungere, l’ho fatto pure io. Come? Alleandosi, con costanza e determinazione, avendo deciso che quella è la strada da seguire, che passo dopo passo quel traguardo si può raggiungere, perché senza un traguardo non si arriva da nessuna parte. Così è, così sarà, per l’abolizione della guerra. Così è stato per altre follie umane che abolire sembrava in passato utopico, come la schiavitù, che era addirittura legale fino a poco più di un secolo fa: si tratta di ieri, nella storia dell’uomo. Come ci si deve allenare per correre una maratona, con il corpo ma soprattutto con la mente, per abolire la guerra bisogna imparare ad allenare le nostre coscienze, bisogna innanzi tutto volere raggiungere quel traguardo. E poi cominciare a muovere un passo dopo l’altro in quella direzione, nel nostro vivere quotidiano”.
Emergency ha tra i suoi testimonial diversi personaggi sportivi famosi… “Emergency ha avuto e ha diversi personaggi sportivi come sostenitori. La ragione potrebbe forse essere perché lo sportivo ha una sensibilità particolare verso l’integrità del proprio corpo e sente quindi più vicina la minaccia del dolore, dell’infortunio, della menomazione che può compromettere il suo vivere quotidiano, come purtroppo succede alle vittime della guerra e della povertà. E’ una sensibilità simile a quella che condividono molti artisti vicini ad Emergency: l’arte, la bellezza, la poesia e la gioia della vita che rischiano di essere spazzate via in un secondo dall’orrore della guerra.
Un altro modo di raccogliere fondi, invece, è quello delle cosiddette charities, gare di corsa in cui i partecipanti si impegnano a fare fund raising per le ong. Nel mondo è piuttosto diffuso (New York, Londra, Vienna) ma in Italia si è cominciato da poco. C’è la maratona di Milano che con la sua prova a staffetta offre alle associazioni no profit un’occasione per farsi conoscere e raccogliere denaro. E poi ci sono altri organizzatori che devolvono a noi di Emergency una parte del costo del pettorale, mi viene in mente il Tor des Geànts, oppure la Strabologna o il circuito trail del Trofeo Malaspina. O le gare non competitive organizzate dai volontari di Emergency e il cui ricavato va tutto all’attività sul campo”.
Insomma, il running in prima fila… “Il mondo della corsa che ho conosciuto, soprattutto negli ultimi anni, è portatore di un grande messaggio di solidarietà. Credo sia un modo per restituire qualcosa a chi non può permettersi la gioia di poter praticare sport, qualcosa che noi diamo per scontato, come numerosi comportamenti del nostro quotidiano, comportamenti che invece sono inaccessibili a moltissime persone nel mondo. Pensa a chi fugge dalla guerra e dalla povertà. O pensa addirittura a chi non può nemmeno permettersi di pensare di fuggire dalla guerra e dalla povertà che condizionano le loro vite. A Ostia abbiamo costituito un’associazione sportiva amatoriale, Runners for Emergency, che in soli tre anni è diventata una delle più importanti realtà della capitale. A Milano c’è X.Runners for Emergency, altra realtà impegnata da anni a sostenere Emergency correndo. Mi sembra un canale sano e importante per trasmettere il nostro messaggio di pace e solidarietà”.
Credo sia importante spiegare come funzionano la ripartizione tra i fondi raccolti e i costi per gareggiare “Emergency pone sempre una grande attenzione alla trasparenza ed è guidata da un principio semplice. Tutto il ricavato deve servire alla missione di Emergency. Non copriamo le spese dei fund raiser, non copriamo i costi dell’organizzazione, tutto quello che raccogliamo serve al progetto specifico che viene dichiarato. Come nel nostro caso, Franz. Tu, Ippolito, Matteo, Pierpaolo ed io ci siamo impegnati in questo progetto di raccolta fondi, #26W26M, chiedendo alle persone di contribuire con una donazione a favore dei pazienti visitati nei centri sanitari di Emergency nel Kurdistan iracheno, facendoci carico noi dei costi di viaggio e di alloggio per la maratona di New York, che correremo insieme. Noi ci mettiamo questo, ci mettiamo la nostra passione e la nostra partecipazione diretta e chiediamo a chi non lo potrà fare personalmente di donare anche solo un piccolo contributo a sostegno del progetto che ci siamo posti come obiettivo: 15mila euro, per coprire il costo di tre mesi di farmaci per i centri sanitari di Emergency nel campo profughi di Arbat, nel Kurdistan iracheno. E io mi impegno a consegnare personalmente i fondi raccolti ai nostri colleghi e a documentare così anche questa nostra attività”.
Ma Emergency di cosa vive? “Emergency può contare su numerosi piccoli sostenitori, che contribuiscono alla nostra attività come possono, attraverso donazioni occasionali, donazioni continuative (che rappresentano per noi la forma migliore di sostegno, perché ci consentono di programmare gli impegni con maggiore tranquillità), il 5 per mille, i lasciti testamentari, che sono una straordinaria testimonianza di continuità sui valori condivisi, da trasmettere alle future generazioni. Dei circa 50 milioni di euro che raccogliamo negli ultimi anni, il 92% circa viene direttamente utilizzato nella nostra attività istituzionale, la cura di pazienti vittime della guerra e della povertà in Afghanistan, nel Kurdistan iracheno, in Sudan, nella Repubblica Centrafricana, in Sierra Leone, in Italia, impiegando circa 3.000 dipendenti tra medici, infermieri, amministratori, logisti, personale di servizio e di supporto all’estero e nel nostro Paese, e promuovendo una cultura di pace, solidarietà e rispetto dei diritti umani. Dal 1994 ad oggi abbiamo curato oltre 8,5 milioni di persone, 900mila solo nell’ultimo anno”.
Mi sono reso conto che abbiamo parlato di tutto, ma non di quello che fa Emergency. Forse io do sempre per scontato che tutti lo sappiano.Mi potresti racchiudere in una frase lo scopo dell’associazione? “Costruiamo e gestiamo ospedali e strutture sanitarie nel mondo e in Italia e lavoriamo perché un giorno la guerra venga abolita dal futuro dell’uomo”.
E, per quelli che sono disattenti, cosa c’entra questo con l’Italia? Perché so che siete presenti in modo ormai capillare anche qui da noi che con la guerra c’entriamo poco (fortunatamente!) “Sei sicuro Franz, che la guerra non c’entri con il nostro Paese? Non solo perché noi, come parte del mondo occidentale civilizzato e benestante, esportiamo guerra e importiamo povertà. In Italia da undici anni ormai denunciamo l’esistenza di una guerra ai poveri, alle persone in stato di bisogno, che siano stranieri o italiani poco importa. Si tratta di persone dimenticate, alle quali è negato il diritto alla cura, un diritto fondamentale dell’uomo riconosciuto dalla nostra costituzione e dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Secondo il Censis sono ormai 12 milioni le persone nel nostro Paese che non hanno possibilità di accesso alle cure secondo i loro bisogni. 12 milioni, Franz. Una persona su cinque che si trova a vivere nel nostro civilissimo Paese. Un Paese che lascia per strada gli ultimi perde la ragione prima del suo esistere, perde il fondamento del vivere insieme. Perché accetta la logica – inumana – della sopravvivenza del più forte, che significa poi del più ricco. Il primo preambolo della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo stabilisce che ‘il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali e inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo’. Sai qual è il concetto che trovo più bello in questa affermazione di principi così alti? L’essere membro di una unica famiglia umana”.
Per chiudere e tornando alla corsa: cosa ti aspetti da questa maratona di New York? “Mi aspetto solo di raggiungere il traguardo, con te e con tutti gli amici che correranno con noi, mi aspetto che tagliare quel traguardo finisca per rappresentare per molti la dimostrazione che l’unico traguardo impossibile da raggiungere è quello che non ci si pone. E che se quindi ci poniamo tutti insieme – noi, famiglia umana – il traguardo di abolire la guerra, un giorno quel traguardo lo raggiungeremo, tutti insieme. Quando questo accadrà? Dipende solo da noi. Quanto prima ce lo porremo come traguardo, quanto prima cominceremo ad allenare le nostre coscienze e a muovere un passo dopo l’altro in quella direzione, tanto prima vedremo la linea di quel traguardo farsi sempre più vicina”.
Il progetto #26W26M vede cinque runner, Ippolito Alfieri (imprenditore veneziano prestato a Milano), Alessandro Bertani (vice presidente di Emergency – Roma), Matteo Caccia (attore e autore radiofonico, conduttore di Pascal su RadioDue – Milano), Pierpaolo Petruzzelli (avvocato – Bari) e Franz Rossi (scrittore e blogger – Milano) partecipare alla New York City Marathon sfidandosi tra loro non solo a piedi ma anche nella raccolta fondi. Potete scoprire come va la sfida e potete sostenere Emergency e il vostro campione andando sul sito di Rete del Dono
Enrico Vedilei è un runner molto noto (specialmente tra gli ultra-runner). Maratoneta di buon livello si è messo in luce nelle distanze lunghissime, vestendo la maglia della nazionale e guadagnando anche la medaglia d’oro ai campionati del mondo sui 100 km. Questa premessa solo per dire che non è l’ultimo arrivato!
Stamattina ha postato su FaceBook un documento interessante: la foto della classifica cartacea della maratona di Cesano Boscone 1989. E ha commentato la foto facendo notare come nell’edizione di quell’anno c’erano ben 654 atleti ad aver corso sotto le tre ore e ben 1.629 sotto le quattro. Enrico, con un crono di 2h36’14”, si era classificato “solo” 123esimo.
Insomma, conclude Enrico, “non so il motivo, ma una volta si andava più forte”.
Nei pacati commenti che hanno seguito il post si punta il dito sulla mancanza dello spirito di sacrificio che affligge il nostro tempo, oppure sulla mancanza di una scuola di atletica che avvii i ragazzi prima alla pista e poi li faccia maturare per la regina delle distanze.
Ma io penso che il motivo sia molto diverso.
Negli anni ’70 c’è stato un primo boom della corsa su strada e negli anni ’90 un secondo boom. Spinti dalle vittorie dei nostri connazionali (tanto per citarne alcune Pizzolato vince New York nel 1984 e nel 1985, Bordin è campione olimpico nel 1988, Leone vince New York nel 1996) gli italiani si misero a correre la maratona cercando la performance sportiva. Si voleva andare veloci e fermare il cronometro prima possibile. Il valore assoluto era dato dal crono finale. Correre una maratona in 4 ore e mezza era considerata un’impresa di pochissimo conto, come fare i 100 metri in 30 secondi.
Oggi il running è tornato di moda. Come pratica salutistica, come abitudine di vita, come ricerca del benessere. Quindi in moltissimi corrono senza gareggiare (uno studio del 2014 dava 1 su 10 il rapporto tra chi gareggia e chi corre regolarmente). E questo spiega la crisi dell’atletica classica, quella su pista.
Ma c’è una seconda considerazione da fare.
Viviamo in una dimensione sociale diversa, meno oggettiva. Siamo abituati a considerare importante sembrare più che essere. Così abbiamo personaggi illustri che dicono di aver corso la maratona di New York ma che sono più interessati all’evento che alla performance. Cito Daniela Santanché, che l’ha conclusa nel 2007 in 6h22’52”, in quanto nel mio immaginario è quanto di più lontano possa esserci da una sportiva. Ma gli esempi sono molti di più e rendo merito alla Santanché che – comunque – l’ha portata a termine.
Non c’è nulla di male, intendetemi.
La maratona è percepita come un’impresa. E’ una performance umana più che sportiva. Farlo in 3h45′ o in 4h30′ o finanche in 5h59′ non cambia il senso: “sono sopravvissuto alla maratona” “sono arrivato in fondo”
E’ la differenza tra correre una maratona e fare una maratona.
La prima è una prova sportiva, ti definisce come atleta, e un minuto fa la differenza. La seconda è una prova umana, ti definisce come individuo, e il crono non c’entra per nulla.
Il vero problema è quando confondi la seconda con la prima, e sei convinto di essere un grande atleta solo perché sei arrivato in fondo.
Io penso che gli organizzatori delle gare dovrebbero fare due medaglie diverse. Una, per chi rincorre il cronometro, dovrebbe avere inciso il tempo finale (e sia chiaro che non penso che una persona che corre a 6’/km sia peggio di una che corre a 4’/km). L’altra, per chi rincorre l’impresa, dovrebbe solo aver inciso la parola Finisher o la frase “sono sopravvissuto alla maratona”.
P.S. A scanso di equivoci vorrei affermare che nella mia vita podistica ho corso tante maratone, e la maggior parte di esse avrebbero la scritta Finisher e nulla di più…
Ieri, come previsto, ultimo lungo prima di New York. C’era grande aspettativa (e un po’ di timore) in me, anche perché gli ultimi due lunghi li avevo bucati. In entrambi i casi, nonostante fossi di parecchio più lento del ritmo maratona, avevo faticato a portarli a termine.
Appuntamento con gli amici di almostthere guidati da Danilo Goffi all’Idroscalo.
Il percorso è un anello di 6.200 mt segnati ogni 200 (noi in realtà lo allarghiamo un po’ ed arriviamo a 6.320 mt). L’idea era fare 5 giri e poi attaccarci un paio di chilometri avanti e indietro per arrivare ai 35… Dovevo fare i primi tre giri a ritmo di corsa lenta e poi prendere il teorico ritmo maratona e chiudere.
Fin dal primo giro faticavo a tenere anche i 5’50″/km che era il passo di Patrizia e Fabio che si allenavano con me. Al momento di aumentare, alla fine del terzo giro, loro sono andati mentre io ho preferito mantenere il ritmo lento. Alla fine del quarto giro sono ripartito, maledicendo ogni colonnina segna chilometri e promettendo dentro di me di non ripassare da quel punto per almeno un anno. La crisi è una brutta bestia, mi ero alimentato correttamente, non ho patito infortuni, quindi l’unica cosa su cui ragionare è il basso livello di forma. Alla fine del quinto giro, con 32 km alle spalle, mi sono fermato.
Il gps, impietoso, mi segnala che ho tenuto una media di 5’58″/km, ben lontana dai 5’20” teorici che avevo in mente. Bisogna ritarare gli obbiettivi, non puntare più alle tre ore e quarantacinque, ma alle quattro ore, sperando di riuscire a stare un secondo sotto per poter almeno vedere il numero 3 all’inizio del risultato.
A parole è tutto facile. Ho dichiarato da subito che il crono non è il mio obbiettivo di New York, bensì il piacere di correre per la prima volta nella Grande Mela. Però brucia. Gli ultimi allenamenti corti avevano dato segnali ben diversi, avevo ripreso ritmi veloci, mi sentivo in forma. Ma non si può ignorare il risultato del test per eccellenza…
A questo punto New York sarà il mio vero banco di prova.
La maratona che sto preparando è, tra tutte quelle che ho corso, quella in cui sulla linea del traguardo mi aspettano più riscontri.
Quando arriverò a Central Park (notare che ho scritto “quando” e non “se”) vorrei che si fossero realizzati tutta una serie di piccoli sogni personali.
1. Fuori dal Tempo Non ho obbiettivi di tempo, nel senso che avrei accettato qualsiasi crono fosse venuto, ma naturalmente i ritmi degli allenamenti sono basati su una proiezione finale. Ho corso la mezza a 5’10″/km e i lunghi cerco di farli a 5’20″/km (ancora con molta fatica)… mi aspetto (e spero) di chiudere intorno alle 3 ore e 45 minuti. Il primo dei miei obbiettivi, quindi, è quello di rispettare le previsioni e non perdere troppo tempo lungo la strada.
2. Aver dato tutto Il secondo obbiettivo, invece, è quello di poter guardare indietro lungo queste 26 settimane di allenamento e di poter dire, in tutta coscienza, che non avrei potuto fare nulla di più. Non voglio poter accampare scuse su allenamenti saltati per troppo lavoro, o sul fatto che pesassi troppo, o che sono stressato da altri fattori. Voglio arrivare al traguardo spoglio di ogni scusa e vestito solo del risultato che verrà.
3. Ricordi di Viaggio Il terzo obbiettivo è legato al viaggio. L’ho detto molte volte, questo #26W26M è un viaggio triplice: il viaggio della preparazione (26 settimane), il viaggio fisico a New York (in compagnia di almostthere e con lo scopo di vedere NY per bene), il viaggio della maratona (un’esperienza sempre nuova, anche se l’ho vissuta molte volte). Ecco, voglio arrivare a Central Park con nel cuore e negli occhi tutta una serie di emozioni, immagini, conoscenze, amicizie, storie… Spero di arrivare spoglio di pregiudizi e ricco di umanità.
4. Dollari per Emergency Il quarto obbiettivo è rappresentato dal simbolo del dollaro. Vorrei aver contribuito con almeno un mese di medicinali (costo = 5.000 dollari) ai quattro ambulatori di Emergency presenti nel campo profughi di Arbat in Iraq. Ci tengo davvero. Non vedo perché, lavorando ogni giorno, possa riuscire a correre più veloce, a perdere peso e non a raggiungere un obbiettivo altrettanto concreto e persino più importante. [Chiunque può aiutarmi donando qualche euro cliccando qui. Grazie NdA]
5. La medaglia All’arrivo di ogni gara io butto via la medaglia. O meglio, cerco un bambino tra il pubblico e gliela regalo. Non ho mai voluto collezionarle, per non crearmi dipendenza. Questa regola vale per tutte le gare che ho fatto, ma non per le maratone. Ho una vecchia tabella a casa su cui sono appese le 34 medaglie delle gare che ho finito. Per ogni medaglia posso raccontare un aneddoto, un ricordo, una storia. New York sarà la 35esima.
6. Voglia di ricominciare L’ultimo obbiettivo è divertirmi. Quando sarò sulla finish line vorrei potermi guardare indietro felice dell’esperienza e con la voglia di ricominciare. L’energia spesa in gara deve tornare trasformata in voglia di ripartire. Perché ogni traguardo, soprattutto nella vita, è una nuova linea di partenza.
Ho sempre pensato che ogni viaggio debba avere anche una componente “letteraria”. Non me la sto tirando. Semplicemente, oltre alle guide del posto, cerco di leggere qualche romanzo o racconto legato al posto che vado a visitare.
Così, a sei settimane dalla New York City Marathon, ho selezionato alcuni libri che riempiranno le mie giornate di riposo dalla corsa.
Ovviamente New York è New York, così ci sono migliaia di libri ambientati nella città per antonomasia. Potevo scegliere a caso, cercando su Google “romanzo New York”, ma ho preferito scegliere un punto di vista particolare, un autore che sto seguendo da qualche tempo, mi riferisco a Paolo Cognetti, autore di “Le otto montagne”, un romanzo affascinante sull’amicizia e sul senso del vivere in montagna (tra l’altro vincitore del Premio Strega 2017). Cercavo l’occhio del viaggiatore, sapevo che Cognetti aveva vissuto a New York per un periodo, così sono andato quasi a colpo sicuro.
Due sono stati facili da reperire, il terzo arriverà a giorni. Nel weekend si inzia anche questa particolare fase della preparazione all’appuntamento di inizio novembre.
Perché in fondo io ho bisogno anche di questo. Devo creare una cornice più ampia nella quale inserire il mio correre. Voglio sapere cosa sono i cinque quartieri che attraverserò durante la gara. Voglio sapere chi ci abita, le loro storie.
Correre per me è sempre stato, prima di tutto, un modo di esplorare. Lo faccio con le gambe, ma al tempo stesso con occhi e orecchi spalancati, con cuore aperto e mente sveglia. Perché non di sole ripetute vive l’uomo!
Naturalmente vi racconterò come mi sono sembrati i libri. E magari aggiungerò la mia personale testimonianza su New York nelle settimane successive alla gara.
Nel frattempo so come impegnare le serate in cui il coach mi ha detto di riposare.
E’ da quando ho deciso di lanciarmi in questo progetto, #26W26M, che ho in mente un argomento spinoso.
Io sono uno di quegli snob di sinistra, quelli che ci godono ad essere disallineati, fuori dal coro. Quelli che si definivano, con parola ormai fuori moda, “alternativi“. Non leggo il best seller, non vado a vedere il cinepanettone, rifuggo le località di vacanza alla moda. E sono sempre stato un po’ (stupidamente) orgoglioso di questo mio essere fuori dal coro.
Poi, invecchiando, mi sono reso conto che alla fine passiamo un po’ tutti sotto gli stessi ponti, finiamo per omologarci (magari nel voler essere per forza “diversi”), e ho finalmente capito che non c’è alcuna differenza tra quelli che comprano tutti lo stesso prodotto perché va di moda e quelli che NON lo comprano per lo stesso motivo.
Le cose bisogna provarle, e solo dopo decidere se valga o meno la pena di viverle.
Questa lunga premessa per dire che, appena ho iniziato a correre le maratone, sono stato (come tutti) oggetto della classica domanda: “E New York? L’hai fatta New York?” Da bravo dissidente della corsa ho subito chiarito che non l’avevo fatta e non mi interessava farla. Infilarsi in un serpentone umano, aspettare sei ore di partire, fare la coda per uscire dal percorso di gara, pagare il pettorale 10 volte tanto quelli nostrani… non faceva per me. E quando sentivo i racconti entusiasti degli amici di ritorno dagli States, sorridevo con un’aria di (quasi) superiorità.
Poi, come dicevo, mi sono ravveduto. Ho iniziato a pensare che almeno una volta l’avrei dovuta correre… ma nel frattempo avevo lasciato la strada per la montagna, l’asfalto per i sentieri, e la mia New York era Chamonix (con il suo UTMB, che è l’equivalente di NY nel mondo del trail). Finalmente, un paio d’anni fa, ho incrociato almostthere (che adesso è la società per cui corro) e il suo modo “alternativo” di vivere la maratona della Grande Mela: un gruppo di amici, un’agenda di attiività che va dalla visita al MoMa all’allenamento collettivo… così ho cominciato a pensarci e a voler prender parte a questo evento. Il resto è storia: il pettorale di Emergency e la voglia di ritornare ad impegnarsi sulla distanza regina. 26 settimane per coronare il sogno di tagliare il traguardo a Central Park.
Parto per la Grande Mela, trepidante come un ragazzino al suo primo appuntamento (o un runner alla prima maratona). E lascio a casa la mia vecchia amica volpe che disprezza l’uva che non può raggiungere.
Stamattina, facendo la mia ora di corsa lenta collinare (tutti mi dicono che NY è una maratona muscolare!), sono stato preso persino dalla paura di non farcela. Ora, se non è rispetto questo!!!
Ben venga New York, dunque. Mancano solo 9 delle 26 settimane iniziali, e un piccolo brivido possiamo permettercelo.