Enrico Vedilei è un runner molto noto (specialmente tra gli ultra-runner).
Maratoneta di buon livello si è messo in luce nelle distanze lunghissime, vestendo la maglia della nazionale e guadagnando anche la medaglia d’oro ai campionati del mondo sui 100 km.
Questa premessa solo per dire che non è l’ultimo arrivato!
Stamattina ha postato su FaceBook un documento interessante: la foto della classifica cartacea della maratona di Cesano Boscone 1989.
E ha commentato la foto facendo notare come nell’edizione di quell’anno c’erano ben 654 atleti ad aver corso sotto le tre ore e ben 1.629 sotto le quattro.
Enrico, con un crono di 2h36’14”, si era classificato “solo” 123esimo.
Insomma, conclude Enrico, “non so il motivo, ma una volta si andava più forte”.
Nei pacati commenti che hanno seguito il post si punta il dito sulla mancanza dello spirito di sacrificio che affligge il nostro tempo, oppure sulla mancanza di una scuola di atletica che avvii i ragazzi prima alla pista e poi li faccia maturare per la regina delle distanze.
Ma io penso che il motivo sia molto diverso.
Negli anni ’70 c’è stato un primo boom della corsa su strada e negli anni ’90 un secondo boom.
Spinti dalle vittorie dei nostri connazionali (tanto per citarne alcune Pizzolato vince New York nel 1984 e nel 1985, Bordin è campione olimpico nel 1988, Leone vince New York nel 1996) gli italiani si misero a correre la maratona cercando la performance sportiva.
Si voleva andare veloci e fermare il cronometro prima possibile.
Il valore assoluto era dato dal crono finale.
Correre una maratona in 4 ore e mezza era considerata un’impresa di pochissimo conto, come fare i 100 metri in 30 secondi.
Oggi il running è tornato di moda.
Come pratica salutistica, come abitudine di vita, come ricerca del benessere.
Quindi in moltissimi corrono senza gareggiare (uno studio del 2014 dava 1 su 10 il rapporto tra chi gareggia e chi corre regolarmente).
E questo spiega la crisi dell’atletica classica, quella su pista.
Ma c’è una seconda considerazione da fare.
Viviamo in una dimensione sociale diversa, meno oggettiva.
Siamo abituati a considerare importante sembrare più che essere.
Così abbiamo personaggi illustri che dicono di aver corso la maratona di New York ma che sono più interessati all’evento che alla performance.
Cito Daniela Santanché, che l’ha conclusa nel 2007 in 6h22’52”, in quanto nel mio immaginario è quanto di più lontano possa esserci da una sportiva.
Ma gli esempi sono molti di più e rendo merito alla Santanché che – comunque – l’ha portata a termine.
Non c’è nulla di male, intendetemi.
La maratona è percepita come un’impresa.
E’ una performance umana più che sportiva.
Farlo in 3h45′ o in 4h30′ o finanche in 5h59′ non cambia il senso: “sono sopravvissuto alla maratona” “sono arrivato in fondo”
E’ la differenza tra correre una maratona e fare una maratona.
La prima è una prova sportiva, ti definisce come atleta, e un minuto fa la differenza.
La seconda è una prova umana, ti definisce come individuo, e il crono non c’entra per nulla.
Il vero problema è quando confondi la seconda con la prima, e sei convinto di essere un grande atleta solo perché sei arrivato in fondo.
Io penso che gli organizzatori delle gare dovrebbero fare due medaglie diverse.
Una, per chi rincorre il cronometro, dovrebbe avere inciso il tempo finale (e sia chiaro che non penso che una persona che corre a 6’/km sia peggio di una che corre a 4’/km).
L’altra, per chi rincorre l’impresa, dovrebbe solo aver inciso la parola Finisher o la frase “sono sopravvissuto alla maratona”.
P.S. A scanso di equivoci vorrei affermare che nella mia vita podistica ho corso tante maratone, e la maggior parte di esse avrebbero la scritta Finisher e nulla di più…