La magnifica utopia

Ieri sera sono tornato a Milano.
Non la Milano del lavoro e della moda, ma quella Milano che ho imparato ad amare. La Milano dove le cose succedono. Dove il freddo della metropoli è temperato da una rete sotterranea ma percepibilissima di rapporti e valori umani.

Il 13 agosto scorso, in Francia, è morto Gino Strada.
Il senso di stupore prima e di perdita dopo, è stato significato dalle decine di messaggi che ho ricevuto. Tutti uguali. E’ stato un uomo che ha saputo farsi amare oltre che ammirare.

Gino Strada

Ieri sera, dunque, al Teatro del Verme nel cuore di Milano, Emergency – la creatura che Teresa e Gino Strada hanno fondato – si è stretta per ricordarlo.

Non è stata una cerimonia triste, ma di speranza.
Sul palco si sono succedute qualche decina di persone (forse dovrei dire di personaggi, ma credo che ieri fossero prima di tutto persone).
Dalla sala li abbiamo riconosciuti tutti, ma il loro nome veniva pronunciato a malapena: lo scopo era dare voce alle parole di Gino Strada.
Per due ore l’aria è stata riempita di spezzoni tratti da libri, da articoli, da discorsi. Frammenti di frasi ma un unico grande progetto ben riassunto nel titolo della serata: “Non esistono scommesse impossibili”.

La scommessa sembrava impossibile, ma come diceva lui “Ogni cosa fatta è fatta. Per quanto piccolo, ogni passo ci avvicina all’obbiettivo”.

E il nuovo obbiettivo è incredibilmente sfidante: abolire la guerra.
E questo è il lascito, il mandato, che Gino Strada ha affidato all’associazione e a tutti noi.

Non serve di certo che ricordi le cose che ha fatto.
La creazione di Emergency e attraverso essa la creazione di decine di ospedali di eccellenza dove sono stati curati oltre dieci milioni di persone.
Ma voglio dire cosa ha fatto per me.

Gino Strada era (ed è) uno dei miei punti di riferimento.
Era la prova che con il lavoro e l’ostinazione i valori diventano fatti.
Come diceva lui “ogni utopia è un sogno non ancora realizzato”.

La lucidità del pensiero di Gino Strada. La sua capacità di “sfrondare ogni progetto dalle difficoltà secondarie per attaccare il cuore del problema”. L’incredibile dirittura morale completamente scevra di ogni retorica o di secondo fine autocelebrativo. La capacità di non venire a compromessi per raggiungere il risultato.
Sono queste le doti che io e moltissime delle persone presenti in sala cerchiamo di emulare.

Ieri Beppe Sala (l’amico di Gino Strada, non solo il sindaco di Milano) ha detto che in democrazia uno vale uno, ma che quando si guarda a realizzare i progetti, è raro che valga la stessa regola.
Sono parole vere e bellissime. E danno il senso di quanto mancherà il contributo dell’uomo che ieri sera abbiamo celebrato.

Concludo questa brevissima riflessione con un’altra nota personale.
Avrete notato che mi sono sempre riferito a lui citandolo per nome e cognome.
Eppure mi verrebbe così naturale dire semplicemente “Gino”.
Perché lo sento vicino a me. Mi sembra di conoscerlo e di riconoscere in lui una parte fondante dei miei principi morali.
Ma non ho mai avuto la fortuna di incontrarlo di persona, di stringergli la mano.
E non per questo il suo influsso su di me è stato minore.

Allora, mentre guidavo verso casa nella notte, riflettevo.
La vera statura di un uomo si riconosce anche dal segno che lascia sugli altri.
E per farlo non c’è bisogno di sorrisi e strette di mano, non c’è bisogno di copertura mediatica e di visibilità social.
C’è bisogno di una persona vera. Una persona per cui parlano le sue azioni. Una persona che dice quello che pensa, che fa quello che dice.

E’ un’altra importante lezione che ho imparato ieri sera.
Negli ultimi anni mi sono allontanato dal mondo artificiale creato dall’uomo per tornare al mondo reale.
Il nuovo viaggio mi deve allontanare dalle persone artificiali per cercare quelle reali.
E la prima persona da cambiare sono io.

Grazie Gino, grazie Emergency.

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Emozioni d’autunno

Le elezioni amministrative e lo scandalo FaceBook mostrano come vengano usate le emozioni per manipolare le nostre azioni

Dopo tanto tempo, eccomi di nuovo qui a riflettere e condividere i miei pensieri.
L’autunno è alle porte, fuori dalla finestra la pioggia scende ormai da due giorni e ho dovuto accendere la stufa prima e il riscaldamento poi, per cacciare l’umidità che mi entrava nelle ossa.

Sono successe tante cose durante l’estate. Belle e brutte, ma tutte sono state occasione di grandi emozioni che mi hanno fatto sentire vivo.

Ho ripreso la penna in mano mentre, ieri sera, ascoltavo i primi commenti post elezioni amministrative.
Al di là di chi ha vinto e chi ha perso, ho sentito più voci concordare sull’importanza di abbassare i toni, spegnere le polemiche futili e gli attacchi ad personam. Cito tra queste voci quella del neo eletto (o meglio rieletto) sindaco di Milano Beppe Sala e quella del nuovo governatore della Regione Calabria, Roberto Occhiuto. Uno di sinistra e uno di destra, accomunati dalla vittoria netta e dall’aver optato per una campagna incentrata sugli argomenti e scevra di polemiche.

autunno ad Emarese

Ieri è stata anche la giornata in cui il mondo digitale di Zuckemberg, FaceBook, Instagram e WhatsApp, è crollato per un problema tecnico in molti paesi del mondo e per alcune ore.
E’ curioso come ciò sia avvenuto poco dopo che Frances Haugen, una ex manager di FaceBook, avesse denunciato in un programma televisivo e in un’intervista sulla carta stampata, il fatto che esistesse la consapevolezza che le polemiche e la polarizzazione delle posizioni rendessero più attivi gli utenti.

In parole povere: quando siamo incazzati tendiamo a mettere più “mi piace” e a condividere più post e, persino, a cliccare più volentieri su pubblicità e inserzioni sponsorizzate.
Probabilmente ciò avviene anche per le emozioni positive, l’amore o la gioia, ma a quanto pare la rabbia e l’indignazione sono più facili da cavalcare.

Quindi gli algoritmi di FaceBook (cioè le regole informatiche che regolano il mondo di quel social) tendevano a premiare chi alimenta la polemica piuttosto di chi cerca di sedarla.

Nella giornata in cui il karma digitale ci ha privati di parte dei social abbiamo avuto la nostra occasione di tornare alla vita reale. Lo abbiamo fatto? E’ stata un’opportunità per iniziare la disintossicazione?
Per quanto mi riguarda, no. Anche se mi sono accorto dei down solo in tarda serata e questo, probabilmente, vuol dire che non dipendo ancora dalle app.

Ricapitolando: le emozioni sono il principale motivo per cui vale la pena vivere ma sono anche il nostro punto debole, la leva che tocca chi vuole manipolarci, politici, pubblicitari, influencer, persino Zuckemberg.

Una volta che ci siamo resi conto di questa cosa, dovremmo alzare una barriera. Non per evitare le emozioni, ma per proteggerle da chi vuole usarle contro di noi.
Questa barriera si chiama consapevolezza o, se preferite, libero arbitrio, pensiero indipendente, e – in ultima analisi – libertà.

E’ un tema lungo e complesso quanto affascinante.
Ci tornerò presto…

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Della gentilezza…

Un libro che è un manuale di sopravvivenza civile: ecco la mia recensione a “Della gentilezza e del coraggio” di Gianrico Carofiglio

Della gentilezza e del coraggio - Gianrico Carofiglio

Un libro strano di un autore che amo tantissimo.
Ho apprezzato Gianrico Carofiglio nella sua veste di scrittore, quando ho letto Ad occhi chiusi, seconda apparizione dell’avvocato Guerrieri. Un giallo particolare in cui è evidente la totale competenza con cui Carofiglio, ex magistrato, si muove nell’ambiente giudiziario.

Il libro mi era piaciuto così tanto che ho letto rapidamente gli altri gialli che aveva scritto, restando sempre più affascinato dalla lucidità di alcune riflessioni e dalla pulizia della scrittura. Entrambe doti che denotavano una grande chiarezza di idee.

Ma il vero colpo di fulmine è scattato nel 2010, quando ho acquistato, quasi per caso, La manomissione delle parole, opera curata da Margherita Losacco. In questo saggio Carofiglio, partendo dal presupposto che le parole sono importanti e che di esse bisogna aver cura e non manometterle a proprio uso e consumo, spiega il significato originale di cinque termini: vergogna, giustizia, ribellione, bellezza, scelta.

Era il Carofiglio politico a parlare (era stato eletto nel 2008 al Senato della Repubblica) ma con la capacità di analisi del giurista. Per ogni parola spiegava l’uso e l’abuso che se ne faceva nei discorsi pubblici dei politici. Un grido di allarme, una richiesta di tornare ad un concetto alto di politica.

Lo leggevo e mi sembrava di leggere i miei stessi pensieri.

E quindi, quando è uscito questo “breviario di politica ed altre cose”, per usare il sottotitolo, l’ho iniziato e finito senza mai alzarmi dalla poltrona.

Si parla ancora di politica, ma questa volta da un punto di vista nuovo: è un manuale su come si dovrebbero affrontare le discussioni. Sia quando si è coinvolti, sia quando si è spettatori.

In un’epoca in cui vince chi urla più forte, Carofiglio propone di usare la gentilezza, il coraggio e il discernimento.

La gentilezza perché disarma e usa la violenza altrui come metodo di difesa.
Il coraggio come principale virtù per apportare i cambiamenti.
Il discernimento, cioè la capacità di porsi domande per capire se quello che ci viene detto è vero, verosimile o falso.

Un libretto di poco più di 100 pagine, ma denso di significato, da leggere e rileggere (e io non rileggo quasi mai un libro!).

Preziosa anche la bibliografia finale, che permette – se qualcuno ne avesse voglia – di approfondire il tema.

Un’ultima considerazione prima di lasciarvi alla lettura.
Non inganni il fatto che sia considerato un saggio: questo Della gentilezza e del coraggio è prima di tutto un manuale.

Un libretto d’istruzioni per il cittadino consapevole.

Della gentilezza e del coraggio
Gianrico Carofiglio
Edizioni Feltrinelli
119 pagg. / 14,00 euro

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Il teatrino

Sono nauseato dal teatrino che i nostri politici hanno messo su a Roma. Invece di concentrarsi sulla pandemia fanno i loro sporchi giochini di potere

Sono nauseato dal teatrino della politica.
Una manica di mestieranti si arabatta per guidare il Paese in questo tempo di crisi.
Si dividono in governo ed opposizione. Ma nessuno dei due fa il proprio mestiere.

Il governo dovrebbe governare. C’è una buona norma che dovrebbe seguire chi comanda: parlare una volta sola ed agire di conseguenza. Che significa prendere una decisione, stabilire una strategia ed attenersi ad essa.
Invece chi ci guida continua a farsi tirare la giacchetta da tutte le parti. Impone una regola dura e poi l’ammorbidisce appena qualcuno si lamenta. Prospetta mirabolanti piani di sostegno e non riesce a metterli in campo. In un periodo caotico come questo non riesce a comunicare con esattezza cosa sta succedendo e cosa è bene che noi facciamo.

L’opposizione ha il ruolo di avvocato del diavolo. Dovrebbe vigilare sull’operato del governo per aiutarlo a non sbagliare in attesa di nuove elezioni quando, magari, salirà al governo. Invece critica in maniera chiassosa e senza costrutto. Sfrutta ogni momento per farsi bella agli occhi della gente. E si è specializzata nel fare promesse roboanti su cosa avrebbe fatto se fosse stata al governo, ben sapendo che al governo non è e che quindi quelle promesse sono vane chiacchiere.

In questo ultimo anno a noi popolo viene chiesto di comportarsi con responsabilità.
E i nostri governanti, intanto, mostrano il loro senso di responsabilità facendo cadere un governo traballante nel momento più sbagliato per l’Italia.

Non ci sono più destra e sinistra, perché non è più un sistema di valori, un’ideologia, a guidare le scelte dei politici, ma una mera ricerca di consenso. Se il Parlamento fosse FaceBook, diremmo che sono a caccia di like. Ma chi queste cose le studia, parla di demagogia e qualunquismo.

parlamento

E se c’è una cosa che mi fa ancor più ribrezzo dei politici sono i commentatori politici che continuano a dire “li abbiamo votati noi”.
Vorrei ricordare a queste persone che l’ultima volta che abbiamo votato era il marzo 2018.
Ne nacque un papocchio.

5 Stelle e Lega sono usciti (nettamente) vincitori dalle urne.
Hanno impiegato mesi per mettere in piedi un governo (quello gialloverde) che è stato suicidato da Matteo Salvini (un demagogo e non uno statista, come appare chiaro con il senno di poi).
Il PD (pallida ombra della vecchia sinistra) ha colto al balzo l’occasione per spingere lontano dal tavolo la Lega e convolare a nozze con il Movimento 5 Stelle generando il governo giallorosso.

Intanto scoppia il Covid.
E noi persone normali ci preoccupiamo della salute dei nostri vecchi e di cercare di sbarcare il lunario in un momento difficilissimo per l’economia italiana e mondiale.

A questo punto: colpo di scena. Cosa decide il buon Renzi? Di mettere in crisi il governo.
Per dovere di cronaca, ricordo che Renzi era stato a capo del PD e primo ministro in un governo di sinistra. Si era suicidato politicamente trasformando un referendum confermativo (per la legge che riduceva il numero di Senatori) in un referendum su di lui ed aveva perso.
Con la coda tra le gambe era riuscito a rientrare nel Parlamento nelle elezioni del 2018, salvo aspettare qualche mese nell’ombra per poi fondare (nel settembre 2019) Italia Viva, un nuovo movimento che non ha mai partecipato ad un’elezione e che quindi non ha mai preso un voto. Però, raccattando parlamentari qui e là, vale un qualche punto percentuale (tra il 4 e il 5%). Proprio quei punticini che possono far traballare la maggioranza.

Adesso, dopo aver detto che Conte è un incapace e un affossatore della democrazia, dopo aver fatto cadere il governo, si rimangia tutto e dice al povero Mattarella (santo subito) che è disposto ad appoggiare un terzo governo Conte.

Tornando ai miei amici buonisti, che dicono che questa genìa di politici l’abbiamo votata noi, vorrei spiegare che io il 4 marzo 2018 avevo votato PD per essere contro la Lega, contro il centrodestra e contro i 5 Stelle.
Ho votato PD perché ero (e sono) fortemente convinto dei valori che un tempo caratterizzavano la sinistra.

Il teatrino della politica oggi dimostra che la democrazia è morta.
Non perché non siamo liberi di andare a votare, ma perché votiamo una persona ed un partito che poi è autorizzato a piegare la testa e anestetizzare la coscienza per opportunismo politico.
Che senso ha dare il mio voto sapendo che l’eletto non è tenuto a rispettare quanto ha detto prima delle elezioni? Che può saltare da uno schieramento ad un altro?

Sia chiaro che non penso che la soluzione siano leggi che impongano agli eletti di essere coerenti. E neppure credo che sia utile chiedere per ogni decisione a noi elettori (il patetico tentativo dei 5 stelle con la piattaforma Rousseau dimostra che noi popolo non possiamo essere consultati).
Io delego con il mio voto una persona (ed un partito) a rappresentarmi, a prendere le decisioni che io non sono sufficientemente documentato per prendere.
Ma pretendo coerenza dagli eletti.
La democrazia è morta con il senso dell’onore dei politici.

Non voglio fare di tutte le erbe un fascio, ci sono politici appassionati, persone perbene, ma se nel canestro di mele basta una mela marcia per far marcire tutto, purtroppo non è vero il contrario.

Chiudo questo mio sfogo con un’ultima riflessione.

Io penso che oggi ognuno di noi debba combattere la sua battaglia: evitare di contagiarsi e di contagiare, continuare a lavorare senza farsi deprimere dalla situazione, aiutare come può i tanti che non possono lavorare. Continuare a vivere.

Non mi aspettavo e non mi aspetto grandi cose da chi ci governa.

Ma vorrei almeno che avessero la decenza di non fare in piazza i loro giochetti sulla pelle degli altri.

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Un nuovo Rinascimento

La formula per ripartire è tornare alle piccole realtà. E, specialmente nel territorio, i politici locali avranno un ruolo chiave

Ogni giorno incontro una gran voglia di ripartire.
L’amico barista, nonostante non abbia percepito reddito per 4 mesi e ancor oggi veda il numero di clienti ridotto ad un terzo rispetto al pre-Covid, mi accoglie con un sorriso. Ha sfruttato il tempo del lockdown per rinfrescare il suo locale, per renderlo più arioso, più allegro.
Un negoziante mi parla dei suoi progetti di organizzare un evento sportivo per offrire ai runners la possibilità di tornare a gareggiare. Lui vuole sponsorizzare, essere d’aiuto, imprimere una spinta positiva al movimento. Perché sa che solo quando ripartiranno le gare anche il suo negozio tornerà a rivivere.
Un altro locale si ingegna ad organizzare degustazioni, serate letterarie, iniziative per i bambini.
Un bed & breakfast ha ampliato la sua offerta agli ospiti, ha creato una mini biblioteca ad hoc e sta lavorando a delle video guide sulle attività da fare nei dintorni della sua struttura.

Insomma, quella che respiro è un’aria positiva di rinnovamento, di proattività, di voglia di fare.
Chiaramente i privati sono motivati dalla necessità: se non si riparte dovranno chiudere ed andare ad ingrossare le fila dei disoccupati. Ma nessuno si tira indietro, anzi – come ho detto – affronta questo tempo difficile con il sorriso sulle labbra e la rinnovata voglia di fare.

Sembrerebbe quasi un nuovo Rinascimento.

E come nel passato, saranno gli individui a fare la differenza.
E’ necessario cambiare passo.
Dobbiamo passare dalla difesa (contro il coronavirus) all’attacco (contro i nefandi strascichi economici del lockdown).

Ma l’iniziativa deve passare dai grandi ai piccoli.

Le grandi aziende ragionano con i grandi numeri e le statistiche, sono le piccole imprese che oggi possono far rinascere l’Italia. Rischiando ovviamente, come tutti gli imprenditori (degni di tal nome) sono abituati a fare.
Nelle piccole aziende, lo sforzo dei singoli crea valore aggiunto.
Nelle grandi aziende, lo sforzo dei singoli non diventa mai corale.

leadership

La vera sfida, però, è di tipo politico.
Mai come oggi manca è la spinta dallo Stato, del Governo centrale e di quelli locali.
I politici sono più preoccupati a piantare paletti che a spianare le strade.

Capisco, ovviamente, che la prima responsabilità di un politico sia di salvaguardare la salute pubblica.
E’ stato fatto e, grazie alle indicazioni dall’alto e al corale sforzo dal basso, stiamo venendo fuori dalla pandemia.
C’è ancora bisogno di cautela, ed infatti indossiamo le mascherine in prossimità di sconosciuti e, ancor più importante, monitoriamo la nostra salute ed evitiamo di esporci (ed esporre gli altri) a possibili contagi.

Ma non possiamo più pensare a “sopravvivere” dobbiamo tornare a vivere.

Quindi anche qui dev’esserci una presa di coscienza dei politici locali.
Il governo centrale ha dettato le norme e guida prudentemente il Paese, ma i governi locali che sono a conoscenza delle loro micro-realtà possono adattare quelle norme di prudenza, allargando le maglie e spingendo per un pronto ritorno alla normalità.
L’assurdo meccanismo delle responsabilità (politiche ma anche penali) fa sì che chi ci guida sia più attento ad evitare i problemi che a procurare opportunità.
Ci voglio uomini coraggiosi che si mettano a capo dei volonterosi imprenditori e negozianti, offrendo un contributo (economico ma anche logistico e legislativo) per lanciare nuove opportunità, iniziative che riportino le persone per strada, i turisti sulle spiagge e sulle montagne, gli ospiti negli alberghi e nei ristoranti.

Mi appello a tutti i politici di buona volontà.

Cavalcate l’ondata di entusiasmo e di voglia di fare, non frenatela.
Così sarete a capo di una comunità viva e rinnovata che vi riconosce come leader.
In caso contrario sarete ricordati come i guardiani di un cimitero.

Di biciclette, libertà e politica

Finita l’estate si ritorna alla routine lavorativa che per me prevede, tra le altre cose, passare sovente da Milano.

Amo questa città, la sua energia, la sua voglia di rinnovarsi che l’ha portata ad essere la città più moderna del nostro Paese.
Milano è all’avanguardia in molte cose, e tra queste la mobilità 2.0.
Trasporti pubblici efficaci e sistemi alternativi moderni: car sharing e bike sharing.

Correndo all’alba mi capita spesso di vedere le biciclette delle varie compagnie nei luoghi che frequento di più.
Ci sono tre società che offrono il servizio, BikeMi (la prima arrivata, con le biciclette gialle e il simbolo del Comune di Milano sul parafango), Mobike (biciclette avvenieristiche, alluminio e plastica arancione, compatte e con una serie di accorgimenti tecnologici innovativi) e OFO (biciclette sempre gialle ma dalla forma classica).

Diverso anche il modo d’utilizzo.
Le BikeMi (previo pagamento di un abbonamento annuale) vanno prelevate nelle apposite rastrelliere e lasciate nelle rastrelliere. C’è un’app (ormai c’è un’app per ogni cosa) che ti dice dove sono le rastrelliere con bici a disposizione (o posti bici vuoti dove riportarla) più vicine a te.

Le altre due, invece, prevedono di prendere la bicicletta a te più vicina (attraverso un’app che ti segnala la posizione) e di lasciarle dove smetti di utilizzarle (stile car sharing, per intenderci).

A fondamentale parità di costi (forse un po’ più caro il primo) il modello di business vincente sembrerebbe essere il secondo: maggiore libertà (trovi  le bici più vicino a te e le lasci dove vuoi) e costi minori. Successo garantito!

Ed invece no.
Nel lungo periodo a vincere è la BikeMi.
Quello che nessuno aveva previsto è il degrado del senso civico (persino nella civilissima Milano).

Le persone che usano le biciclette di Mobike e Ofo non rispettano le minime regole del buon senso.
C’è chi, una volta arrivato sotto casa, lega la bicicletta al palo o la mette dentro un cortile privato (rendendola inaccessibile al prossimo utente ma garantendosi di trovarla al mattino dopo).
C’è chi ruba la bicicletta non per usarla ma per compiere uno scherzo (appenderla ad un albero, gettarla nel Naviglio, imbrattarla con una vernice colorata).

Sembra così stupido: danneggi un servizio che è comodo a tutti. Ottieni un divertimento cretino per 5 minuti e, di fatto, rompi le scatole agli altri possibili utenti.
E’ la stessa miopia di quel marito che si evirò per fare un dispetto alla moglie.

Così Ofo e Mobike faticano a stare in piedi, mentre la più rigida BikeMI (che ha anche il deterrente che dal momento in cui stacchi la bici dalla rastrelliera a quando la riporti c’è un tassametro che corre e una tariffa che viene addebitata sulla tua carta di credito) spopola.

La regola che se ne deduce è che non siamo fatti per essere lasciati liberi.

Naturalmente il pensiero si allarga.
La totale mancanza di senso civico (che poi è senso della comunità) ha fatto sì che arrivassimo alla attuale situazione politica, dove si risponde alle domande per l’immediato e si dimentica la progettualità per il futuro.
Dove si premiano gli interessi dei singoli a discapito del bene comune.

Non è complicato da capire che, in una società complessa come quella umana, badare costantemente ed esclusivamente al proprio orticello significa che oggi e magari domani otterremo dei piccoli benefici, ma dopodomani perderemo tutto.

L’individualismo sfrenato ha raggiunto il suo apice.
Una volta si premiavano i singoli che si mettevano in luce (si parlava di persone egregie che viene dal latino, ex gregis, che escono dal gregge).
Oggi, per non scontentare nessuno, celebriamo con  falsi premi (i like su FaceBook, ad esempio) tutti quanti indistintamente, a prescindere dal loro valore.
E’ il trionfo della quantità sulla qualità, della massa sull’eccellenza.

Così il barista si sente in diritto di bacchettare il Ministro dell’Economia, l’impiegato spiega al chirurgo come operare, e tutti insieme critichiamo l’allenatore della Nazionale di volley (gioco che fino a ieri nessuno calcolava) per le scelte tecniche.

Siamo fatti così.
Quando noleggiamo le biciclette e quando andiamo a votare.

La politica dovrebbe aiutarci a migliorare, ma è molto più facile istigare i nostri istinti più bassi alla ricerca di un facile consenso e, incassati i voti necessari, consegnare ai nostri figli una situazione peggiore di quella attuale.

Va beh, chiedo scusa, mi sono fatto prendere la mano.
Meglio finire il mio giretto di corsa…

La vita non è semplice

A volte vorrei esser capace di correre ed ignorare quello che mi succede attorno.

Non parlo delle disgrazie: l’amico ucciso in un incidente in montagna, la famiglia cui muore il figlio per una malattia rara, il conoscente che perde il lavoro a 55 anni.
Non parlo neanche delle tragedie: l’insensata guerra in Siria, il metodico annullamento dei diritti umani in Turchia, le stragi nei licei americani, le decine di persone che ogni settimana affogano nel Mediterraneo.

Mi riferisco a come stia morendo la capacità di discernimento nel nostro paese.
Mi domando dove sia finita la razionalità nel genere umano.

Come si fa a non fare gli opportuni distinguo?
Come si fa ad accettare la semplificazione estrema?

Il mondo è complesso.
La vita è complessa.
Non possono essere ridotti a slogan.

Le parole sono importanti.
Hanno un significato intrinseco e uno che deriva dal contesto.

Se dico alla mia compagna “tu mi hai rubato il cuore” non sto giustificando il furto.

Se viene chiesto di censire i nomadi, la frase di per sè è innocua.
Meglio ancora se venisse formulata in modo più corretto: “anche i nomadi, come gli altri italiani, devono essere censiti”
Se però, insieme alla proposta di censimento, si aggiunge che “i rom italiani purtroppo te li devi tenere in casa”, ecco che tutto assume una valenza ben più sinistra.

Non sono io che vaneggio.
Persino Di Maio, il giorno dopo, volendo affermare che la pratica della raccomandazione va perseguita (e sono d’accordissimo) sceglie di parlare di “censimento dei raccomandati” come se si trattasse di un atto di repressione.

Capitemi bene, in ogni caso sono per la legalità.
Quindi chi ruba, chi delinque, deve essere punito.
A prescindere se è italiano, americano, tedesco o rumeno.

Ma come non accetto che tutti quelli che vengono dalla Sicilia siano mafiosi, che tutti i dipendenti pubblici siano dei fancazzisti, che tutti i professori rubino la paga, esattamente nello stesso modo non accetto che venga semplificato il concetto che rom=malvivente.
E di conseguenza non accetto che si facciano liste di rom (o di meridionali o di raccomandati).

Questa è la mia posizione e sono certo che ci sarà chi è d’accordo e chi no.
E mi sta bene. Non ho mai preteso di aver ragione a priori.

Ma per favore non semplificate le cose.
Non dite che “anche noi siamo stati censiti”.
Non dite che “lo Stato sa tutto di noi, perché non di loro?”

Non c’è un noi e un loro.
Siamo tutti nella stessa barca (alla deriva).
Qualcuno se ne approfitta e ruba dalla cassa comune.
Ci sono alcuni rom che rubano gli spicci, migliaia di evasori che rubano a man bassa, alcune organizzazioni (legali e non) che campano usando impropriamente i nostri soldi.

Non semplifichiamo tutto dicendo che i rom, tutti i rom, sono la causa della nostra situazione senza ricordare che lo siamo anche noi quando chiediamo di non pagare l’iva all’artigiano o quando non paghiamo la tassa sui rifiuti o il canone della televisione.

Provo un moto di stizza quando un vecchio sinti mi lava il vetro dell’auto e mi chiede una moneta.
Mi infastidisce quando un nero mi cerca di vendere un libro in piazza Duomo.
Mi fanno pietà (nel senso brutto del termine) i mocciosi sporchi portati in braccio da madri bambine.

Ma loro non sono il problema.
Sono solo un effetto del problema vero.

Non dovrebbe esistere una società in cui il valore in euro del mio cellulare equivale ad un mese di pensione di un anziano.
In cui un professore guadagna meno di un broker.
In cui un ragazzo non può permettersi di andare a vivere da solo se i genitori non gli comperano la casa.

Il censimento dei rom, di certo, non è la soluzione.
Non è neppure l’inizio della soluzione.
E’ solo agitare lo spauracchio degli zingari per farci dimenticare i problemi veri (di cui i furti ad opera dei nomadi sono solo una minuta parte).

Le soluzioni semplici a problemi complessi sono sbagliate.
Affascinanti. Ma sbagliate.

Il dubbio

Come invidio le vostre certezze assolute, il sapere che esiste sempre e solo il bianco e il nero, il perfettamente giusto e l’assolutamente sbagliato. E la certezza di essere in grado di distinguerli.

Come invidio il vostro quotidiano pontificare sui social, forti della convinzione basata sul sentito dire, sul “ti puoi immaginare se…”, sull’ipotesi dell’ultimo minuto.

Come invidio la vostra agilità morale, sempre pronti a balzare da una granitica sicurezza al suo opposto, sempre pronti a sputare sentenze dall’alto di un’etica di facciata.

Io ho un’unica certezza, che mi è stata insegnata a forza in questo primo mezzo secolo di vita.

Dubitare di ogni cosa.
Formarsi autonomamente un’idea, basandosi sui fatti.
Riconoscere che, nonostante tutto, sbaglio moltissime volte.
Essere pronto a cambiare opinione.

La maggioranza comanda, ma raramente ha ragione.

I remi in barca

Da bambino discutevo con il prete che ci insegnava il catechismo.
Lui mi diceva: “Devi credere questo e quello perché noi cattolici lo crediamo”
E io rispondevo a brutto muso: “No, io credo in questo e quello, ed è per questo mio credere che puoi definirmi cattolico”.

Rompipalle. Fin da piccolo.

Nel Day After della sinistra italiana, la mia reazione è figlia di quel mio modo di pensare.
Io credo in alcuni valori imprescindibili, ho alcune idee precise su come va il mondo e su come dovrebbe andare.
Ho votato cercando di appoggiare qualcuno che condividesse almeno la gran parte dei miei valori e idee.

Oggi posso dire che gli Italiani, la grande maggioranza di essi, la pensa in modo diverso da me.
E’ la democrazia e non ho nulla da obbiettare.
Ma non mi riconosco più in questa Italia che tra qualche settimana o mese inizierà a muoversi in una direzione diversa da quella mia.

Non sono meno Italiano di prima, ma un pezzo di me si è staccato dall’Italianità.

Non sono pessimista per l’Italia.
I numeri sono chiari, e l’intero sistema è pensato per aiutare chi vince le elezioni.
Lo Stato continuerà, tra alti e bassi esattamente come è successo con tutti gli altri governi, a legiferare e a gestire la cosa pubblica (la res publica, le parole sono importanti).
Quindi non credo che dovrò scappare dall’Italia o che i miei figli non avranno futuro.

Ma un senso di profonda stanchezza mi ha pervaso.
Non mi sento più fratello di chi incontravo sull’autobus, dei colleghi di lavoro, dei ragazzi che incrociavo sui campi gara di atletica.
Credo di essermi allontanato senza accorgermi dalla società civile. O meglio io credevo di essere dentro la società civile e non mi ero accorto che si erano tutti spostati.
A destra.

Quindi penso sia il momento di tirare i remi in barca.
Cercherò i miei simili e con loro cercherò di continuare a contribuire (con il lavoro e le tasse) al progredire dell’Italia.
Ma non mi impegnerò più per un progetto politico, che non sia in qualche pro loco o in qualche piccola associazione di paese.

Ho un’età anagrafica che mi dice che sono vecchio anche se non me lo sento addosso.
Credo di aver diritto di fare un passo indietro e di lasciare agli altri, ai vincitori, il compito di fare, di rinnovare, di proporre.
Me ne resterò seduto ad attendere il momento in cui il popolo italiano ed io la penseremo di nuovo alla stessa maniera.

Spero che accada. Ma anche se non succedesse, ho la consapevolezza di poter vivere serenamente la mia vita, di potermi rinchiudere nella cerchia dei miei affetti, dei miei amici, non più in un Paese che rispetto, ma nonostante il Paese che mi ha visto nascere.

Non ho recriminazioni.
Sono persino contento di aver votato, per l’ennesima volta, PD.
Io ho fatto tutto quanto in mio potere.

Ho una sorda rabbia che mi arde dentro.
Ma non nei riguardi di Cinque Stelle o Lega (e ovviamente non nei confronti di chi li ha votati), ma verso il PD.
Un partito che ha lasciato annacquare così tanto i valori che lo rendevano sano fino a perdere l’identità politica.
A dei dirigenti, Renzi in testa, che hanno accettato ogni compromesso, sacrificando l’ideale ad una manciata di voti.

Sono diventati un partito senza anima e senza passione.
Il popolo ha giudicato e li ha abbandonati.
Preferendo l’ignoto del nuovo all’esperienza e alla tradizione.

C’è una lezione da imparare, per quelli che si assumeranno l’ingrato compito di rifondare la Sinistra (o come si chiamerà…)

Continuerò a votare ed ad appassionarmi.
Continuerò a pensare e dire la mia.
Continuerò ad amare la mia terra e la mia gente.
Ma non mi riconosco nell’Italia che verrà.

Questo non è più un Paese per idealisti.