Il processo alle intenzioni

Uno sfogo che nasce da un caso personale: parlo di intenzioni ed azioni, e di come sia facile sbagliarsi nel giudicare

Dio quanto amo l’italiano.
Ci sono parole ed espressioni che definiscono esattamente ogni cosa.
Quando sono confuso, quando il mio animo ribolle ma non riesco a capirne il motivo, quando c’è qualcosa che mi fa soffrire o arrabbiare allora agito un po’ le acque di quel calderone che è la mia testa e cerco di dare forma scritta al mio tumulto interiore.

Oggi ho recuperato questo modo di dire che sta diventando desueto ma che, secondo me, rappresenta bene questa nostra epoca.

martelletto del giudice

Con processo alle intenzioni si intende un giudizio basato non sui fatti oggettivamente occorsi ma su quelle che si pensano siano state le motivazioni o le intenzioni della persona sotto accusa.

Quindi se io rompo una finestra con una pallonata e mi si chiede di ripagare il costo del vetro è un processo normale. Se invece mi si accusa di averlo fatto intenzionalmente e mi si chiede il rimborso anche dei danni morali, allora diventa un processo alle intenzioni.

La cosa può spingersi oltre.
Per continuare nel mio esempio, mi vedono giocare con il pallone contro il muro e mi accusano di voler rompere il vetro. In questo caso giudicano un’intenzione a prescindere dalle conseguenze reali. Giudicano un’idea e non un fatto.

Storicamente, il processo alle intenzioni ha un’origine cattolica: è stata la Santa Inquisizione che, dovendo parlare di peccati e castighi, si trovava a giudicare non tanto le azioni dei peccatori, ma l’intenzione che aveva portato a quell’azione. E parlando di streghe ed eretici, sappiamo come è andata a finire.

Oggi il processo alle intenzioni è di moda.

Si attribuisce a qualcuno una colpa (basandosi su elementi totalmente ipotetici) e lo si mette in croce. O peggio ancora alla gogna.

Ogni frase che inizia con un “ti puoi immaginare se uno come lui non voleva…” è di per se un processo alle intenzioni.

L’evidente problema di questo approccio è il distacco netto tra realtà fattuale e ipotesi sulle motivazioni.

Quando dimentichiamo ciò che viene fatto e ci concentriamo sul perché corriamo il rischio di commettere degli errori. Infatti è decisamente più facile dimostrare un’azione che un’intenzione.

Tutto questo sfogo solo per dire che, quando il vostro atteggiamento nei confronti di una persona è dettato non da quello che fa, ma da quello che voi pensate sia il motivo per cui lo fa, rischiate di finire nella giungla dei pregiudizi.

E questo è sempre un male…

Gabbiani o falchi?

Sono cresciuto in una città di mare, avevo 6/7 anni quando uscì in Italia il romanzo più famoso di Richard Bach: Il gabbiano Jonathan Livingstone.
Già all’epoca ero un lettore appassionato e lo divorai in un pomeriggio.

Per i pochissimi che non lo hanno letto, è la storia di un giovane gabbiano più interessato a scoprire come perfezionare la tecnica di volo che a riempirsi la pancia (trovate qui la scheda su Wikipedia).

All’epoca andava tantissimo. Le mamme lo regalavano ai figli adolescenti per formarne il carattere, per dimostrare loro come sia importante credere in un progetto e dedicarvisi completamente.

Io lo adoravo.
L’ho letto decine di volte.
Osservavo incantato le immagini delle evoluzioni dei gabbiani che, stampate su carta traslucida, corredavano il volume.

E volevo volare.

Non in senso letterale (imparare a pilotare un aereo non mi è mai interessato) ma in senso metaforico. Volevo imparare a spingermi ai miei limiti.
Poi sono cresciuto (e ho amato altri libri che hanno segnato le mie diverse età).

Il gabbiano restava un simbolo di libertà, ma il simbolo si scontrava con la dura realtà dei grossi volatili che scorgevo, sgraziati e rauchi, lottare per gli scarti dei pescherecci nel porto di Trieste. O, ancora peggio, che vedevo strappare i sacchi dell’immondizia nei cassonetti delle vie del centro.

Ma il gabbiano Jonathan Livingstone mi è tornato in mente un paio di settimane fa, mentre passeggiavo in un bosco dietro casa in Valle d’Aosta, ho sentito il grido acuto del falco e ne ho scorto l’ombra scivolare leggera sull’erba di una radura.

Mi sono detto con una punta di autocompiacimento “Preferisco il falco al gabbiano! Sono un uomo di montagna e non di mare”, ingannando me stesso, sovrapponendo l’animale al simbolo.

gabbiano

Il falco o il gabbiano sono solo la proiezione del nostro desiderio di volare, di innalzarci, di essere liberi.

Non hanno nulla a che fare con l’individuo che solca il cielo sopra di noi, ma sono quel cumulo di emozioni che vola dentro di noi. Nella testa. Nel cuore.

Allora mi è venuto da pensare agli altri simboli che infarciscono il nostro quotidiano. Simboli del bene e del male.

Il lupo, la volpe, per restare tra gli animali.
Ma anche l’immigrato, lo zingaro.

Prendiamo ad esempio il nero, l’uomo di colore per essere politically correct, una frangia di uomini lo bolla come usurpatore di diritti mentre quelli dell’altra parte lo promuove a povero oppresso.

Ma lui è solo un uomo. Sarà un buon padre o picchierà il figlio? Sarà intelligente o stupido? Pigro o gran lavoratore?
A seconda dei propri pregiudizi gli si tende ad incollare addosso una serie di vizi o di virtù… ma lui è soltanto un uomo.

Come il gabbiano o il falco.

Dovremmo liberarci di queste sovrastrutture e osservare la realtà per quello che è.
E solo allora ci libereremo di razzismi, maschilismi, omofobie e tutte le malepiante che dai pregiudizi discendono.