Sulla corsa

Un libro che sono stato in dubbio se comprare o meno, invece Mauro Covacich e il suo Sulla corsa mi hanno conquistato

Ammetto di aver raggiunto un certo grado di saturazione e di non voler più leggere libri che parlano della corsa.
Non dico i manuali, che avevo letto imparando un sacco di cose nella fase iniziale del mio amore per il running e avevo presto abbandonato, ma libri che parlano di corridori e di corse in generale.

Così, quando ho scoperto che Mauro Covacich aveva scritto un nuovo libro e proprio sulla corsa… beh ammetto che non ero stato particolarmente interessato.

Mi piace come scrive Covacich. Il suo romanzo A perdifiato è, tra i romanzi che parlano di atletica, uno dei miei preferiti.
Gioca anche il fatto, totalmente irrazionale, che lo sento vicino, vuoi per età vuoi perché è nato e cresciuto a Trieste come me, vuoi per la passione smisurata per l’atletica.

Insomma, sono andato in libreria e ho comperato questo suo Sulla corsa, che fin dal titolo rivela di cosa tratta: una raccolta di riflessioni e ricordi incentrati sulle esperienze personali dell’autore.

Sulla corsa Mauro Covacich

Inizia dall’inizio, cioè dal momento in cui Covacich ha scoperto cosa significava correre. Per lui è avvenuto in giovanissima età, 11 anni, e direttamente in una gara organizzata dal dopolavoro del padre.

Nei capitoli seguenti assistiamo al crescendo che tutti i runners ben conoscono. La voglia di raggiungere la maratona, la voglia di misurarsi e di migliorare il proprio personal best, quell’isolamento (quasi autistico) nei confronti del mondo normale, del mondo che non corre.

Covacich è un giornalista e quindi gli capitano incontri che in molti sognano: i grandi nomi dell’atletica, gli altopiani africani, la Grande Mela.

Leggevo con piacere i vari capitoletti e intanto mi interrogavo su dove andava a parare. Su come sarebbe terminata la parabola della passione.
C’erano state delle avvisaglie, sparse qui e là, che la storia di Mauro corridore doveva avere un epilogo mesto. Infatto ecco puntuale la visita medico sportiva e il mancato rinnovo del certificato: uno dei mostri che chi corre teme di più.

Ma come in tutte le storie che funzionano, il giro di boa rappresentato da questa apparente sconfitta rende il racconto più intenso, più umano.

Non vi rivelo il finale, anche se non si tratta di un giallo è sempre bello navigare da soli tra le ultime pagine dei libri. Dico solo che sono stati 15 euro spesi davvero bene.

Un libro che a mio avviso offre una visione completa e matura della passione per il correre. Ottimo sia per gli agonisti che per i joggers da par mio.

Quindi, dato il tema, correte a comprarlo in libreria.

Sulla corsa
Mauro Covacich
La nave di Teseo, collana Le Onde
159 pagg / 15,00 euro

Ascolta “Sulla corsa” su Spreaker.

Il senso della legge

Di nuovo su diritto di correre e sui limiti imposti dal Corona Virus. Ma non potremmo usare un po’ di buon senso?

Ai tempi in cui studiavo giurisprudenza (prima di mollare l’università e iniziare a lavorare) la materia che più mi aveva affascinato era Filosofia del Diritto.
Mi era piaciuta così tanto che avevo deciso di fare la tesi su un aspetto peculiare: come la legge si adatta al mutare della nostra società.
Come fa una regola scritta negli anni ’50 a valere ancora nel 2020?
Fondamentalmente ci sono due meccanismi: il primo sono i concetti generici (pensate ad esempio al “comune senso del pudore” o la “cura del buon padre di famiglia”) il secondo è la giurisprudenza, cioé l’interpretazione che i magistrati danno alla legge.

Il compito delicato dei tribunali è quello di non attestarsi al senso letterale delle norme ma perseguire la volontà del legislatore (la cosiddetta ratio legis).

Tutto questo mi è venuto in mente commentando il mio post di ieri (che trovate qui) quando parlavo con alcuni amici delle difficoltà che abbiamo in Valle d’Aosta a praticare l’attività sportiva.

posto di blocco dei carabinieri

E’ un problema comune che affligge tutta Italia, ma ovviamente andrebbe contestualizzato.

Se vivo in centro a Milano ed esco a correre andrò al parco e, come me, andranno le decine di altri runners che vivono nei palazzi attorno al mio.
Persino allenarmi sulle scale della mia abitazione potrebbe creare problemi di distanziamento sociale.

Se vivo in un paesino della Valle d’Aosta, è più probabile che incontri qualcuno restando nei 200 metri dalla mia abitazione che imboccando il sentiero dietro casa e inoltrandomi nel bosco.

Ci sono tutta una serie di considerazioni e precisazioni che vanno fatte.

  1. Il mio andar per boschi deve essere solitario e non in gruppo con altri.
  2. La difficoltà tecnica dell’uscita dev’essere minima per non rischiare di finire giù da una parete e dover chiedere l’intervento del Soccorso Alpino.
  3. Devo evitare i luoghi di possibile incontro con altri (niente passaggi per centri abitati ecc)
  4. Devo adottare un comportamento prudente (non allontanarmi troppo, non rischiare di ammalarmi, ecc), persino più prudente del solito.

Ma tutto considerato, mi sembra più sano allontanarmi da casa che girare nei 200 metri.

Dico questo perché in Valle (ma mi dicono anche altrove) ci sono pattuglie della forestale, a piedi, in auto, con elicotteri e droni, che controllano chi va a camminare in montagna.
Non lo trovo sbagliato, se lo scopo è quello di evitare situazioni a rischio.
Ma mi sembrerebbe un inutile perseguimento del senso letterale della norma qualora si cercasse chi sta soltanto beneficiando del vivere in una zona poco abitata.

In questo caso la giurisprudenza non si è ancora formata (norme troppo recenti), ma un gruppo di nove magistrati ha scritto una lettera (qui il link) in cui, parlando da privati cittadini, sostanzialmente chiede una revisione dell’applicazione della regola, una sua interpretazione più vicina alla ratio.

Un paio di giorni prima, in quasi 7.500 persone abbiamo firmato una petizione (qui il link per firmare anche tu) in cui si chiedeva di poter riavere le nostre montagne.

Non scordiamoci che, nonostante il tambureggiante ripetere dei media dell’hastag #stateacasa, non ci viene chiesto di rimanere nella nostra abitazione ma di non avvicinarci ad altri. L’hastag corretto dovrebbe essere #statelontani.
L’epidemia si combatte restando distanti dagli altri (in modo che il virus non si propaghi) ma la malattia si sconfigge con uno stile di vita sano che prevede, tra le altre cose, l’attività fisica.

Non sono qui a sobillare la gente, a proporre di uscire a qualunque costo.
Non voglio fomentare ribellioni e gridare alla violazione del diritto costituzionale di movimento (diritto sancito dalla Costituzione ma che può essere limitato da “maggiori interessi di salute pubblica”).
Vorrei solo che si usasse un po’ più di buon senso.

Un’ultima nota malinconica per i miei amici milanesi.
Mi spiace per voi. Davvero.
Io credo che se correrò quando voi non potete farlo, non sarà una mancanza di rispetto o di solidarietà nei vostri confronti.
Sono cose che capitano: questa volta è andata bene a me, la prossima toccherà a voi.
E speriamo davvero di poter ritornare tutti a correre al più presto.

Runner inside

Il paradosso della corsa spiegato ai non corridori.
Come essere felici e mantenersi in forma.

C’è un paradosso che è proprio del correre che rende quest’attività particolarmente affine al mio carattere.
Mi riferisco al fatto che, per quanto la corsa sia basata su misure precise, produce effetti non misurabili.

Prendiamoci un momento per pensare a quante cose misuriamo quando iniziamo a correre.
Le prime volte, ovviamente, controlliamo l’orologio per vedere per quanti minuti abbiamo resistito prima di iniziare a camminare.
Via via che miglioriamo iniziamo ad essere assilati da quanti chilometri abbiamo corso in quella sessione.
Poi iniziamo ad ascoltare i consigli dei più esperti e ci alleniamo tenendo d’occhio i BPM (battiti per minuto) cioé la frequenza cardiaca.
Se vogliamo preparare una gara metodicamente, iniziamo ad incrociare Tempo e Spazio per misurare la velocità (espressa in minuti per chilometro).

La corsa diventa tutto un misurare, un registrare, un calibrare ritmi e distanze per partorire la misura delle misure, il Sacro Graal del podista: il Personal Best.

Quando due cani si incontrano si annusano reciprocamente il sottocoda.
Quando due podisti si incontrano si chiedono reciprocamente “Quanto hai nella mezza?”

Ma dov’è il paradosso di cui accennavo all’inizio?
Fino a questo momento abbiamo scandito ogni passo, misurato ogni frequenza, paragonato ogni ritmo.
Eppure il prodotto ultimo del corridore evoluto non è misurabile: correre dà felicità. E la felicità non è misurabile.

corridore felice

L’Homo Sapiens (e l’Homo Currens è una sua derivazione) non è in grado di misurare le proprie emozioni.
So che non ci credete, ma è così…

Parlavamo di felicità: sareste in grado di dire se vi rende più felice rivedere un vecchio amico o passare una sera a leggere un buon libro o svegliarvi al mattino con la consapevolezza di aver dormito accanto alla persona giusta per voi?
Magari un giorno la felicità è l’amico, e magari un altro giorno è il libro. Dipende dallo stato d’animo.

Naturalmente ci sono cose che ci rendono più felici di altre in un determinato momento, perché (e questa è una delle caratteristiche dell’emozione) la felicità è fatta di attimi non è uno status permanente.

E noi Uomini non siamo in grado di prevedere quanta felicità riceveremo da un incontro ne’ di misurarla dopo che l’abbiamo provata.

Sarebbe troppo facile entrare nella Bottega delle Emozioni e chiedere “Mi dia un chilo di felicità. E già che c’è mi aggiunga un etto e mezzo di malinconia che, prese assieme, mi si esalta il gusto…”

La felicità è un atto di fede: tu vivi la tua vita e fai le tue scelte non per raggiungere la felicità ma perché quella è la tua vita e quelle sono le tue scelte.
La felicità è una conseguenza.
Più quello che fai è vicino a quello che sei, più è probabile che tu viva felice.

E la corsa?
Se sei fatto per correre, correre ti rende felice.
Poi puoi usare le gare per motivarti,
puoi inseguire un tempo per far accrescere la tua autostima,
puoi tenere d’occhio i battiti per non farti del male…
ma se scavi in fondo a te stesso, il primo motivo per uscire a correre dev’essere che sei un runner.

La filosofia del Running

La filosofia del running

Il titolo del libro mi aveva colpito fin dal primo momento; il fatto che l’autore, Luca Grion, scrivesse su Repubblica dei Runner e che avessi già apprezzato alcuni suoi aritcoli aggiungeva interesse; ma ci è voluta una presentazione a Milano, quando ho avuto modo di passare alcune ore con Luca, prima ad assistere alla conferenza e poi a correre insieme e a mangiare una pizza con alcuni amici, per darmi la spinta finale alla lettura.

Luca Grion è un giovane docente di filosofia morale.
L’età, ai miei occhi, non è mai una questione importante, ma oggi la cito perché sembra in antitesi con la materia che studia ed insegna.
Quasi che gioventù e pensiero non possano andare a braccetto.

La filosofia morale, cioè l’elaborazione del pensiero intorno alla morale, è uno dei temi che più mi appassiona. E confrontarmi sulla corsa con chi è abituato ad approfondire gli aspetti etici, è un’occasione troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire.

Ma lasciatemi fare un passo indietro autobiografico. Io ho il problema di essere troppo razionale.
Fin da piccolo ho sempre ragionato sui pro e i contro di ogni azione. Ho sempre visto il torto e la ragione in ogni disputa (anche quelle in cui ero – ahimé – coinvolto).
La componente razionale mi ha messo in gabbia. O per lo meno io mi sono sempre sentito legato ad essa. Anche nelle scelte che, per antonomasia, dovrebbero essere guidate dal cuore, dalle emozioni, dall’istinto, dalle passioni.

La corsa è stato il mio modo di liberarmi di quella prigione.

Di restituire il controllo al corpo, alla mia fisicità rispetto alla mia razionalità.

La corsa era il mio approccio empirico al mondo.
Conoscevo i miei limiti non ragionandoci sopra, ma sperimentandoli.
Facevo le cose e poi le analizzavo, invece che progettare e poi realizzare.

Luca Grion, invece, grazie alla sua formazione, applica le “regole” del pensiero alla corsa e ne deriva una serie di principi che si adattano perfettamente al runner.

Il libro è distinto in tre parti.

Nella prima, il Lessico del runner consapevole, analizza alcuni dei concetti che sono propri a tutti quelli che corrono, dalla dieta alle ripetute, offrendo un punto di vista più ragionato su quello che facciamo (o dovremmo fare).

Nella seconda, l’Intermezzo, parla di filosofia, svela il mondo dietro ad alcuni dei concetti che noi prendiamo per assodati. Spiega perché l’etica nello sport è fondante quanto la prestazione. E ci introduce al pensiero di Tommaso D’Aquino, un frate domenicano il cui pensiero è alla base della Teologia delle Virtù.

Nella terza, Le virtù del Maratoneta, vengono studiate le virtù che sono proprie di chi pratica la corsa di lunga distanza. Non vi spaventate dei nomi, prudenza, trasgressione, temperanza (tanto per citarne alcuni) che fanno pensare al catechismo: nel libro di Luca sono ben applicate agli allenamenti, alle gare, alla corsa.

Questa è la parte che mi ha stimolato di più.
L’applicare virtù morali alla nostra vita, e la corsa per noi runners è una parte importante di essa, in alcuni casi è ciò che ci definisce, è una pratica che sta diventando fuori moda. E ringrazio Luca per averle presentate in modo moderno ed interessante.

Non è certamente un manuale tecnico.
Chi ha amato Perché corriamo di Roberto Weber, o ancora di più Lungo lento di Paolo Maccagno, non può perdersi l’opera di Luca Grion.

Ho centellinato questo La filosofia del running, spendendo in sua compagnia diverse serate, godendone solo alcune pagine alla volta.

Ho trovato alcune conferme a principi che, pur non essendone consapevole, ho applicato nella corsa.
Non ho trovato risposte, ma non è questo, in fondo, il compito di un buon libro? Stimolare il pensiero, e offrire qualche indicazione per un nuovo percorso di ricerca.

La filosofia del Running
Luca Grion
Mimesis, collana Il Caffè dei Filosofi
140 pagg. / 12,00 euro

La corsa e lo star bene

Sabato sono partito dai piedi del Monte Bianco e sono andato a Rimini.

L’occasione era l’UlisseFest, il festival del viaggio (e del viaggiatore) organizzato dalla Lonely Planet Italia e il tema di cui avrei parlato, stimolato da Denis Falconieri e confrontandomi con Franco Faggiani, era “la corsa come modo per esplorare nuovi orizzonti”.

Sabato sera mi sono immerso nel clima del Festival, ho assistito ad alcune interessanti relazioni, ho conosciuto viaggiatori di tutti i tipi, e alla sera – come prevedibile – ho fatto davvero tardi in compagnia di alcuni autori delle guide Lonely Planet.

Tutto questo lungo preambolo per dire che domenica mattina mi sono svegliato tardi e sono uscito a correre sul lungomare verso le 7.

rimini
La riviera adriatica a Rimini (ph Franco Faggiani)

Ho incontrato decine e decine di persone che correvano. Persino più di quelle che passeggiavano con il cane o andavano in bicicletta. E la cosa mi ha davvero sopreso.

La corsa, come sport agonistico, è in leggero calo. Nel 2018 i runners che hanno concluso una maratona sono di meno di quelli del 2017 (dopo anni di trend in crescita). Anche le gare vanno diminuendo: complice la difficile congiuntura economica, parecchie manifestazioni hanno dovuto trasformarsi in biennali o, addirittura, chiudere.

Eppure lì, lungo la striscia sottile tra strada e sabbia, c’erano numerose persone che sembravano provare il contrario. 

Però, e credo sia questa la risposta all’apparente paradosso, i veri runners, quelli con la falcata distesa, il ritmo elevato e lo sguardo concentrato, erano una sparuta minoranza. E correvano da soli.

La maggior parte di quelli che incontravo, invece, viaggiava a coppie. E chiacchieravano tutto il tempo.
Due signori anziani con la maglietta della Rimini Marathon, che se la raccontavano mentre procedevano lentamente.
Due amiche apparentemente 30enni, una parecchio più “formosa” dell’altra, che alternavano corsetta e passeggiata veloce.
Un padre ed una figlia, lui con un tutore al ginocchio lei con un completino fluorescente all’ultima moda.
Tre ragazzini (!), avranno avuto 13/14 anni, con una divisa da calcio, che andavano a scatti e sussulti, senza tenere una linea retta.
E ovviamente coppie vere e proprie, di ogni età, lui più veloce che aspettava lei, lei più in forma che regolava il passo su quello di lui… con l’unico scopo di stare insieme.

Insomma un vero e proprio universo in movimento. Che allargava il cuore.

La corsa fa star bene o meglio, la corsa (senza esagerare) fa star bene.
E questo lo si inizia a capire a tutti i livelli.

Sono tornato in albergo ed ho incrociato un’altra coppia che si apprestava ad uscire a correre.
Erano stranieri (tedeschi credo), lei magra ed alta, una maglietta tecnica rosa e un pantaloncino a righe, lui su una sedia a rotelle motorizzata.
Sono tornati mentre facevo colazione, rilassati e sorridenti.

Correre fa davvero stare bene.

Geloso io?

Sto scoprendo che sono sempre più geloso.
Ma non per amore.
Sono geloso dei miei spazi.
Dei luoghi e del Tempo che dedico alla riflessione.

Una volta accendevo la radio appena salito in macchina; spesso, anzi, la lasciavo accesa così che bastasse girare la chiave per sentire quelle chiacchiere di sottofondo.
Adesso la accendo solo quando c’è un programma che mi interessa e la spengo appena è finito.

Una volta non perdevo occasione per uscire in compagnia.
Adesso esco con qualcuno solo quando penso che ne valga la pena.

Sono cresciuto nella logica del fare più cose possibili, magari allo stesso tempo.
Ho raggiunto il culmine quando mi sono trasferito a Milano, la città che non si ferma mai.
Mi sono ubriacato dell’adrenalina che viene dall’essere sempre sotto pressione: nuove scadenze, nuovi obbiettivi, di più, di più, di più.

Anche correre, per me, aveva quel significato.
Allenarsi per migliorare il proprio crono, oppure per andare più lontano (la maratona, la 100k, la 100 miglia e ancora e ancora).

Ora non più.
Adesso rallento per godermi il paesaggio.
Faccio silenzio, per lasciar spazio ai pensieri.
Sto da solo, perché la mia compagnia non mi pesa.
Cancello gli impegni, invece di accumularli.

E corro per il piacere di farlo.
(Oltre che per dimagrire, per non avere il fiatone in salita, per non perdere tutti i benefici fisici che derivano dalla corsa).
Corro perché è un momento solo mio.

La contemplazione, che una volta era sinonimo di tempo buttato, è diventata una componente fondamentale della mia giornata.

Non sto parlando di esercizi mistici o di elevazione spirituale.
Mi limito ad assaporare i minuti; a rendermi conto di quello che faccio e perché.

Alla fine di ogni pausa di riflessione, mi sento più completo.
Alla fine di ogni corsa, ho le gambe pesanti ed il cuore leggero.

Come dicevo, da quando mi sono reso conto di questo mio modificato atteggiamento, sono diventato molto più geloso di questi spazi personali e li condivido sempre meno ed esclusivamente con alcune persone.

So che una mia amica mi prenderà in giro, dicendo che da sempre sa che sono uno snob.

Forse è vero.
Ma a prescindere da quello che dicono gli altri, credo che importi come mi sento io.

Ho intrapreso un viaggio verso la serenità.
E ho scoperto che da soli si viaggia più leggeri.

La routine

C’è un’arma segreta per i corridori di lungo corso (intendo quelli che sono anni che corrono).

Nei giorni in cui la voglia cala puoi usare gli amici come stimolo, oppure – ed è quello che ho fatto io ieri sera – affidarti alla routine.

Il martedì sera, quando sono a Milano, tendo ad unirmi al TricoTracoTeam che è il nome in codice del solito gruppetto di amici.
Si corre al Parco Sempione (ne avevo già scritto qui), di solito un paio di giri esterni ed un paio di giri dell’Arena Civica.

Ieri sera, dunque, mi sono unito a loro, pur sapendo che lo stato di forma mi avrebbe messo in crisi.
Ma la scusa era buona per rivedere gli amici e poi, dentro di me, contavo sul Buzz e sul suo passo (“lento ed inesorabile”).
Purtroppo il Buzz ha dovuto dare forfait, privando il gruppo delle sue battute surreali e, soprattutto, privando me di una buona scusa per rallentare.

Primo giro, complice il riscaldamento, passa tranquillo.

Salutiamo un po’ di amici che incrociamo (non finisco mai di stupirmi della quantità di persone che corrono al Sempione, ormai ce ne sono più lì che alla Montagnetta), chiacchieriamo del più e del meno, loro mi aggiornano sulle ultime vicende personali e io faccio lo stesso con le novità dal fronte occidentale.

Alla fine del primo giro loro scalpitano per accelerare, io ansimo per la velocità, così decido di mollarli al loro destino e di anticiparli verso la doccia.

Ho corso poco più di tre chilometri e così subentra un leggero senso di colpa.
“Per tre chilometri potevi anche fare a meno di cambiarti” dico tra me e me.
Ma la voglia è poca… bisogna inventarsi qualcosa.

Ed ecco che entra in gioco la routine.

Yelena Isinbayeva
Una delle routine più famose in atletica era quella che usava l’astista Yelena Isinbayeva per concentrarsi tra un salto e l’altro…

Se pensate alla routine come il monotono susseguirsi dei fatti della vita, allora ha un’accezione negativa.
Ma se invece considerate la routine come una serie di movimenti che si ripetono per ottenere un risultato, allora cambia.

Avete presente i grandi meeting di atletica e le routine ossessive di alcune star?
I velocisti ai blocchi di partenza, oppure i saltatori mentre cercano la concentrazione…

Ecco, la routine è una confortevole coperta di Linus nella quale rifugiarsi.

E io ieri ho fatto così.
Ho staccato il cervello (o meglio mi sono messo a pensare ad altro) e ho lasciato che le gambe facessero il loro lavoro.

Ho continuato a girare intorno all’Arena, variando il ritmo, cercando di aumentare in prossimità dei due rettilinei e recuperare in curva, cercando la spinta corretta dei piedi e sforzandomi di evitare strappi.
Già da subito la tentazione di mollare e fermarmi se n’era andata.
Dopo qualche giro sono uscito verso la strada ed ho atteso il resto del gruppo per tornare con loro verso casa (e la doccia e la pizza).

Ed ho scoperto che, alla fine, avevo corso quasi la loro stessa distanza (una differenza inferiore ai 500 metri).

Non dimenticatevi la routine, dunque.
Qualche volta salva un allenamento!

Il gps del cuore

Ho passato lo scorso fine settimana a Trieste.
I miei genitori abitano lì e torno sempre volentieri a trovarli.

C’è il mare, c’è il dialetto all’interno del quale sono cresciuto, c’è il vento.

Ho corso.
Meno di quello che avrei voluto, forse anche meno di quello che avrei potuto, ma ho corso.

lungomare Barcola a Trieste
Il lungomare di Barcola a Trieste con il castello di Miramare sullo sfondo (ph. Franz Rossi)

Ho ritrovato i percorsi che tante volte avevo calcato nel passato.
Il lungomare di Barcola, la salita del Faro, la Napoleonica

E mi sono reso conto di non aver davvero più bisogno del gps.
Voglio essere guidato solo dal cuore. Che mi detta il ritmo, mi guida il passo, mi riaccende la passione.

Correre a Trieste, per me, è come uscire con una vecchia fiamma.

Ho capito di essere fortunato ad avere solo ricordi dentro cui correre e nessun rimpianto.

Perché proprio per il fatto di essere in pace con il mio passato sono libero di spaziare avanti con il mio sguardo, alla prossima meta, alla prossima occasione.

La programmazione è tutto

Lunedì sera, mentre preparavo la borsa per la mia trasferta di questa settimana, consideravo con attenzione quali impegni avrei avuto in modo da non trovarmi impreparato sul “guardaroba”.
Ovviamente non mi riferisco a camicia e cravatta per un incontro di lavoro, ma a scarpe e zainetto per un’uscita trail.

Mi ha fatto riflettere su come l’organizzare bene la propria agenda sia uno degli aspetti chiave per il successo.
E su come, sempre di più, siamo schiavi della nostra agenda.

Fino a qualche anno fa, in una mia settimana tipo, gli allenamenti si incastravano senza problemi.
Lunedì riposo (dopo la gara o l’uscita lunga di domenica). Martedì e giovedì corsa all’alba prima dell’ufficio, facendo martedì un lavoro intenso e giovedì uno leggero anche perché il mercoledì sera toccava piscina. Venerdì uscita al cazzeggio con gli amici, un’oretta tirando il collo a quelli più lenti. Sabato riposo e domenica gara o lungo.

Ovviamente nel mezzo c’erano trasferte di lavoro, impegni familiari, appuntamenti extra corsa (pochi invero).

Adesso che sono più vecchio e che si è spento il fuoco sacro del gareggiare, dedico più serate al cinema, alle cene con gli amici, alla lettura.
Il giorno di recupero dopo un allenamento non è più un lusso ma una necessità.
Ma, soprattutto, non vivo più schiavo della mia agenda.
Seguo l’ispirazione del momento.

jogger

E’ ovvio che pago un prezzo per questo nuovo atteggiamento.
Non sono più in forma come una volta.
Le lunghe distanze sono pesanti e non più un “allenamento diverso dal solito”.
Nelle corse del venerdì con gli amici sono diventato quello a cui si tira il collo.

Eppure un minimo di programmazione è rimasta.

Faccio attenzione (come detto) ad inserire i giorni di recupero o perlomeno alterno la corsa e un’altra attività (bicicletta o anche un’escursione).
Cerco di alternare un lavoro lungo e uno veloce (anche se i concetti di lungo e di veloce hanno un significato ben diverso oggi).
Infine, siccome ho provato la fatica necessaria per riprendere a correre dopo una sosta di sei mesi, faccio in modo di allenarmi (magari poco) ma con continuità.

La differenza tra allenanarsi e correre non sta nell’intensità o nella frequenza dei lavori, ma nella programmazione.
E questa semplice verità rimane oscura a molti che, difatti, si chiedono “Come mai vado più piano dello scorso anno anche se corro ogni giorno?”

Trovate un allenatore e fatevi fare un piano d’allenamento e i risultati verranno.
Oppure scordatevi di migliorare e godetevi la vostra corsetta quotidiana.

Un bagno d’umiltà

Anche ieri, come spesso mi è accaduto negli ultimi mesi, quando vado ad allenarmi con gli amici del martedì al Parco Sempione, si ripete lo stesso scenario.

Ci cambiamo, partiamo al piccolo trotto da casa verso l’Arena Civica.
– oggi tranquilli, neh!
– ma certo, anzi sono ancora stanco dall’allenamento di ieri
– dillo a me che non corro da una settimana!
… e poi si parte come degli sciamannati.

Così, mentre faticavo dietro a loro correndo intorno al parco, mi interrogavo sui vantaggi di allenarsi con questo gruppo.

Da un punto di vista fisiologico, il fatto di essere portati a correre a ritmi più alti dei tuoi è uno stimolo sicuramente utile.
Ma è l’aspetto mentale che mi sembra predominante.

Ogni martedì che corro con Gianluca e company, mi rendo conto di quanta strada debba ancora fare per rientrare in uno stato di forma accettabile.
Gianluca, che potrebbe agevolmente andare a 4’15″/km corricchia sereno a 5’15” al mio fianco e chiacchiera chiedendomi le ultime novità.
Io giocandomi un polmone provo a rispondergli e, nel mentre, continuo a correre ad un ritmo che oggi per me è sfidante.

arco pace parco sempione
L’Arco della Pace sullo sfondo del Parco Sempione

Ho letto su Internazionale un articolo illuminante di Oliver BurkemanL’illusione di essere speciale, nel quale fa riflettere su come nella società odierna, ognuno di noi è portato a credere di essere in qualche modo unico. E come questo sia profondamente errato: la stragrande maggioranza di noi è “normale”, il riconoscerlo ci pone al riparo dalla depressione del vivere alla parenne ricerca di uno status migliore.

La sagezza dei nonni riassume questo concetto nell’adagio Chi si accontenta gode.

Correre al martedì con gli altri mi rende evidente che non solo sono assolutamente normale ma che probabilmente, almeno podisticamente parlando, sono sub-normale.
Insomma un salutare bagno d’umiltà…

Ho allungato per raggiungere Giovanni e condividere con lui questo pensiero, ma era impegnato a chiacchierare con Daniele Nardi (il famoso alpinista).
Allora mi sono girato verso Simone Leo che, in preparazione alla Badwater, raccontava a Marina Graziani di come si apprestava a fare 200 km quella settimana.
Gianluca e Nik si stavano sfidando nella classica volata degli ultimi duecento metri… e io ho aspettato il Buzz per decidere dove saremmo andati a cena.

Godendomi il privilegio di essere normale.