La lepre di periferia

Gli uomini hanno modificato l’ambiente per renderlo più aderente alle loro esigenze. Ma per questo abbiamo pagato un prezzo

Fermo ad una rotonda che permette di immettersi in Milano da una strada laterale (se conosci le stradine ti risparmi decine di minuti) vedo che la donna a fianco del guidatore nell’auto che scorre parallela alla mia sta indicando il prato a bordo carreggiata.
Definirlo un prato, in realtà, è una pietosa bugia. Un pezzo di terreno su cui troneggiano i residui di un vecchio cantiere è stato piano piano colonizzato da delle piante. L’erba gialla e quasi secca dove sono passati a tagliarla è impolverata e richiama alla mente il deserto. Solo delle chiazze di vegetazione un po’ più in là danno un vago senso di vita.
Ad attirare l’attenzione della donna è stato un leprottino spelacchiato che sta correndo come un pazzo lungo il bordo della strada. Ancora pochi balzi e poi scarta secco a destra e si infila nell’erba più alta. La ragione di questa fuga è un grosso corvo nero che lo sorvola dall’alto ma deve abbandonare la caccia quando l’animaletto si mimetizza tra i cespugli. Intanto l’automobile che mi precede si muove e io la seguo.
Però quel leprotto mi è rimasto fisso in testa.

lepri a Milano

Ogni città, perfino Milano, è piena di questi clandestini. Animali e piante che dovrebbero vivere in campagna ma che si ricavano un loro spazio tra muri e cemento. Non sono belli, sembrano un po’ più magri, più spelacchiati, dei loro fratelli che incrocio intorno a casa mia. Sembrano quasi più opachi, come se una patina li avesse ricoperti.

L’altra sera, mentre percorrevo la sterrata dietro casa poco prima di cena, ho visto due piccoli tassi che giocavano. Si rincorrevano, sembravano quasi rotolarsi con quella loro forma tozza e quell’andatura strana che ricorda un po’ i panda, in quel punto la strada era asfaltata, ma loro sembravano non accorgersene. Anche quei loro balzi goffi e quello scappare da noi solo quando eravamo a meno di cinque metri di distanza, li avevano impressi nella mia mente.

Poi ho ripensato al leprotto di Milano e ho capito cosa mi avesse disturbato.
Lì era lui ad essere fuori posto. Qui è l’asfalto che sembra una forzatura.

Una cosa simile succede per gli esseri umani.
Se paragono i miei amici di città e quelli che vivono in montagna, sembra appartenere a due diverse speci di uomo.
I primi sono circondati da una brillante immagine di sè che sembrano proiettare continuamente. Cosa faccio, chi sono, cosa mi piace, cosa aborrisco, il mio lavoro, l’ultimo libro letto, la musica che amo e via dicendo. L’ambiente intorno a loro è uno schermo che li riflette ed amplifica.
Sia chiaro che questa non è una cosa che mi infastidisce, anzi penso di fare esattamente lo stesso, serve ad interagire tra persone. Il posto dove siamo è totalmente indifferente.
Quando esco con gli amici di qui, la situazione si rovescia. E’ l’ambiente ad avere la priorità, i luoghi, i panorami, i colori e gli odori, noi siamo, esistiamo, solamente nella misura in cui interagiamo con esso.
Lo ribadisco di nuovo, non si tratta di giudizi morali. Lo spaccone o il viscido esistono sia in città che qui. Ma le persone di fronte alla Natura sono più quello che sono non quello che dicono di essere.

Noi uomini abbiamo creato le città a nostra immagine e somiglianza, ma forse adesso ci siamo ubriacati di noi stessi e abbiamo bisogno di scendere con i piedi per terra e imparare a misurarci con la realtà vera, non con quella addomesticata che abbiamo creato a nostro uso e consumo.

La maggior parte delle persone ha voglia di questo cambiamento. Sente come innaturali le situazioni create artificialmente ed anela ad un ritorno alla naturalezza. Lo capisci quando li vedi perdersi nel bosco ad osservare il verde cangiante delle fronde, o quando apprezzano la puzza del letame nei pascoli. Sono strani. Sono goffi. Sono come adulti che tornano a giocare a pallone dopo 30 anni: sanno che è divertente ma sono impacciati, non hanno la stessa ingenuità dei ragazzini che giocano sul prato accanto.

Il leprotto di Milano non ha scelto di vivere lì. E similmente molte persone non hanno la possibilità di scegliere dove vivere. Ma già rendersi conto, attraverso un po’ di esperienze nel fine settimana o durante le vacanze, di cosa abbiamo lasciato fuori dalle nostre città, sarebbe un primo passo per spogliarsi dall’artificialità e riguadagnare un po’ di naturalezza.

Ascolta “La lepre di periferia” su Spreaker.

La caccia alle streghe

Un tema delicato: il sacrosanto diritto delle donne ad essere considerate alla pari degli uomini e il diritto di ogni uomo di non essere considerato un mostro.

Ne avevo scritto qualche tempo fa (leggi qui): spesso è difficile definire dove sia il confine tra bene e male. A volte si rischia che, per perseguire un fine eticamente giusto si accetti di usare mezzi che non lo sono.
Il famoso “il fine giustifica i mezzi” del buon vecchio Niccolò Macchiavelli.

Riflettevo su questo leggendo il post di un’amica che prendeva le parti di Aurora Leone (l’attrice del gruppo The Jackal) che era stata esclusa da una cena della Nazionale Cantanti.

Non voglio tornare sulla condanna (il fine), che comprendo e condivido, ma parlare del metodo. La mia amica si scagliava contro il genere maschile spesso colpevole di comportarsi in modi che colpiscono una persona per il suo essere donna.
E mentre lo faceva, commetteva lo stesso errore: scagliarsi contro gli uomini perché uomini.

amici

Tra i miei amici – non i conoscenti, dico proprio gli amici, le persone che mi sono vicine – non c’è nessuna persona che discrimina un’altra persona per il genere o la razza.

Ammetto che ci siano discrimini dettati da ideologie e scelte politiche e persino religione, ma di certo non per razza o genere.

Non credo di essere un fortunato circondato da Illuminati.
Così come non credo che il mio gruppo di amici sia un campione statisticamente valido.

Sono consapevole che le discriminazioni siano un problema vero e numericamente molto serio.
Sono consapevole che esista una sperequazione tra come il mondo del lavoro tratta un uomo e una donna.
Ho ben presente lo sbilanciamento assurdo tra vittime donne e vittime uomini nei crimini violenti (stupro e omicidio in primis).

Sono fermamente convinto che questa situazione vada combattuta a viso aperto, e che il primo passo sia la denuncia.

Però credo che non si debba fare di tutta l’erba un fascio.

Mi rendo conto che sia difficile.
La giustizia si impantana troppo spesso nella palude dei distinguo.
Ma il rischio opposto è persino più grave: la generalizzazione finisce spesso nella gogna mediatica che non risolve i problemi e che alimenta la polarizzazione tra le parti.

Dire che gli uomini sono maschilisti è uguale a dire che le bionde sono sceme.

Ci sono gli uomini che si comportano male, e vanno indicati.
Ci sono le donne che si comportano male, e vanno parimenti indicate.

Torno ad un punto fondamentale che ho già enunciato precedentemente e provo ad elencare i passi che io credo siano fondamentali per vincere questa battaglia di civiltà.

La prima cosa da fare è denunciare pubblicamente e ad alta voce.

La seconda cosa da fare è creare un fronte unico tra chi comprende e condanna il problema. Senza divisioni di genere.

La terza cosa è parametrizzare, cioé dare il giusto valore ai fatti.
Così come non si può paragonare chi ruba con chi uccide, alla stessa maniera non si deve paragonare chi fa una battuta sessista con chi stupra.

So bene che sto camminando su un terreno minato.
Purtroppo chi cerca un approccio di buon senso, moderato, viene spesso confuso con chi minimizza il problema.

Ma credo sia giusto che chi condanna la caccia alle streghe del Medioevo faccia attenzione a non vestire i panni dell’Inquisizione nella battaglia contro la discriminazione di genere.

E per concludere vorrei sottolineare come il più grande errore che si deve evitare sia quello di trasformare la lotta per la parità di genere in una guerra tra generi.

Non dev’essere donne contro uomini, maschi contro femmine, come avviene spesso. E’ naturale che una donna cerchi solidarietà tra le altre donne. E noi uomini dovremmo offrire la stessa identica solidarietà per far comprendere come il comportamento di uno non sia il comportamento di tutti.

Penso ci sia una piccola minoranza di uomini che si comporta male, coperta da una schiera molto ampia di uomini (e donne) che si girano dall’altra parte.

E’ su quella larga fetta della società che dobbiamo lavorare.
Denunciando, condannando, e soprattutto continuando un dialogo aperto e costruttivo.

Ascolta “La caccia alle streghe” su Spreaker.

I nuovi bulli

Siamo circondati dai nuovi bulli, persone che detengono il potere e lo usano per avere ragione a prescindere dal merito della questione

Trump, l’ex presidente degli USA, ha licenziato Christopher Krebs che era il direttore della CISA, l’agenzia per la sicurezza informatica e delle infrastrutture.
Il motivo? Krebs aveva definito le elezioni appena concluse come “le più sicure della storia americana”. E ovviamente ciò non poteva andar bene al tycoon che, ancor oggi, non ammette la sconfitta e parla di frodi.

Chissenefrega?
Magari sì. Ma è un ottimo spunto per trarre qualche riflessione più generale.

Il metodico zittimento delle voci contrarie tramite rimozione dagli incarichi o attacco sul piano personale (gogna mediatica) di chi ha idee diverse, è una strategia estremamente diffusa.
Sei contrario ad un mio progetto? Invece di discutere nel merito delle tue idee, attacco la tua persona per sminuirti o distruggerti.

donald trump

Lo facevano i bulli quando andavo a scuola e lo fanno i potenti oggi.
Non solo esponenti politici, ma anche imprenditori o personaggi famosi.

Forti del loro potere e di un meccanismo perverso che rende i media degli amplificatori privi di discernimento, i nuovi bulli spadroneggiano in rete.
E data l’equazione (totalmente priva di fondamento) “Più è virale, più è reale” raccolgono consensi ben al di là di quanto si meritino.

Esiste una soluzione a questo problema? O meglio, è davvero un problema?

Negli anni abbiamo accettato di barattare la libertà con la comodità.

Avviene in tutti i campi e a tutti i livelli.

Gli smartphone non richiedono un utente altrettanto “smart”.
La super specializzazione fin dai primi anni di scuola superiore ti trasforma in un esperto in un campo e un ignorante in tutti gli altri.
La comodità di acquistare on line e di avere i negozi aperti nei weekend (addirittura 24 ore) si paga con la perdita di posti di lavoro e lo sfruttamento delle persone.

Lo stesso meccanismo lo ritroviamo per le notizie.

Una volta ci informavano, adesso siamo informati.
Sembra un gioco di parole, ma è un fenomeno grave.
Abbiamo accettato un ruolo passivo nel processo di acquisizione delle informazioni.
Abbiamo delegato ad altri il discernimento tra ciò che è vero e ciò che è verosimile. Anzi, ormai anche ciò che è palesemente insensato, con la dovuta forza, può essere trasformato in reale.

Qualcuno dirà: “Ma chissenefrega di essere informati, io vivo bene nel mio piccolo mondo, a casa mia, nel mio quartiere…”
Questa nostra pigrizia nell’informarsi sul quadro generale si riflette tragicamente nel nostro vissuto quotidiano.

Non sapere cosa sia il MES o fregarsene di Lampedusa e degli sbarchi di persone in fuga o ancora, più recentemente, trascurare la pandemia (“la mascherina? io?”) e le conseguenze economiche (“‘sto governo di incapaci non riesce neppure a distribuire il fondo per le bici…”) sono tutte scelte che ci si ritorcono contro nel giorno in cui andremo a votare.
Allora non sceglieremo chi ha ragione (secondo noi) ma ci faremo influenzare da chi grida più forte.

Invece dovremmo cercare il confronto su un piano intellettuale, discutere sulle idee, ascoltare chi non è d’accordo senza prevaricarlo.
Smettere di seguire sui social chi la pensa come noi e provare ad ascoltare, invece, delle campane diverse.

In una parola, allargare la nostra visione.

Quando andavo a scuola, i bulli erano limitati e resi inoffensivi dal valore della cultura, dal rispetto per l’autorità che l’insegnante rappresentava e, non da ultimo, dalla forza del gruppo.
In quest’era di disimpegno, di ricerca di scorciatoie, di attenzione solo al proprio ombelico, i bulli la fanno da padroni.

E noi pagheremo il conto.

Il garbato censore

Avremmo bisogno di altri come lui: persone che con l’ironia sappiano instillare il dubbio. Gaber è stato un esegeta della società in cui viveva

Sabato scorso, facendo zapping, sono finito su RAI3 e sono stato catturato dalle immagini in bianco e nero di Giorgio Gaber che cantava.
La trasmissione fa parte di una serie curata da Paolo Mieli e dal titolo “Italiani”. La puntata specifica (che potete vedere a questo link) si chiamava “Giorgio Gaber, l’utopia possibile“.

Ovviamente conosco bene Gaber e alcune larghe parti della sua produzione.
Ero un ragazzino quando canticchiavo “Lo shampoo” che, all’epoca, mi faceva morire dal ridere (l’ho postato qui sotto per chi non l’avesse visto).
Ai tempi del liceo ci sfidavamo con altri studenti sul piano ideologico citando “La libertà”.
Ma anche in tempi più recenti la sua celebre canzone “Destra – Sinistra” fotografava perfettamente un disagio condiviso da molti. La mancanza di quell’ideologia che, un tempo, aveva sostenuto le nostre battaglie.

Ho passato volentieri la serata in compagnia di quell’uomo vestito come un agente segreto, un man-in-black da palcoscenico, che cantava testi mai banali, aggiungendo smorfie e gesti che lo rendevano perfetto per il teatro.
Poco meno di un’ora e ne avrei voluto molto di più.

In fondo avremmo bisogno di altri come lui.
Persone in grado di interpretare la realtà che ci circonda.
Capaci di essere censori, pur garbati ed ironici, di un mondo che si allontana dall’umanità (intesa come virtù non come specie animale).

Il giovane Gaber faceva parte del clan di Celentano, cantava con Iannacci e Tenco, si esibiva in televisione e imitava le rock star.

Il Gaber adulto, post anni ’60, non ha più rincorso il successo scrivendo canzoni per andare in classifica.
Aveva delle idee e voleva condividerle.
Lo faceva usando un linguaggio semplice e diretto.
E’ stato capace di impegnarsi e di capire quando sbagliava.
Di cambiare idea, elaborando il suo vissuto.
Non ha mai accettato di seguire la corrente.

Un grande artista, ma soprattutto un grande uomo.
Come dicevo prima: ce ne vorrebbero altri come lui, adesso.

P.S. riascoltate “Il conformista” e scoprirete che non è poi passato così di moda

Il corriere Amazon

Ero a Milano, stavo percorrendo un controviale di corso Sempione alla ricerca di un parcheggio.
C’era un furgoncino piccolo e scassato, con due ruote sul marciapiede e il portellone aperto. Rallentava il passaggio delle altre automobili.

All’interno del vano posteriore c’era un piccolo uomo, dai tratti sudamericani, affannato, sudatissimo, con gli abiti trasandati, che frugava tra decine di pacchetti che vagavano liberi nel furgone.

Dal pianale del furgone, un pacco oblungo scendeva in obliquo fermandosi sulla strada, dove altri pacchetti erano disseminati a terra in un caos che parlava di cadute recenti.

Il logo sulle scatole e l’inconfondibile nastro nero e azzurro palesavano la provenienza: Amazon (potere del marketing!)

pacco amazon

Non mi fraintendete, questo post non è l’ennesimo sfogo contro l’incuria dei corrieri della società di Jeff Bezos.

Sono sicuro che:
# 1. il corriere ha un contratto regolare (magari da fame) e ha firmato consapevolmente la sua condanna a questo tipo di attività
# 2. gli oggetti arriveranno ai clienti integri (nonostante il pessimo trattamento cui sono sottoposti nel viaggio) grazie agli imballaggi extra resistenti ed extra large
# 3. aggiungo che anche nel caso non fossero integri, Amazon provvederà a sostituirli gratuitamente, inviandone un nuovo esemplare (non so se il corriere che ha causato il danno ne pagherà le conseguenze, ma immagino di no)

Non voglio neppure far notare che i tempi stretti e le condizioni contrattuali con cui hanno a che fare i corrieri Amazon sono una nuova forma di schiavitù.
E neanche che l’impatto sull’ambiente dello spreco di carta e plastica necessario a tutelare l’oggetto a causa delle pessime condizioni di cui sopra sarà pagato dalla collettività che seguirà la nostra generazione.

Io vorrei concentrarmi solo sul tema dell’impoverimento.
Amazon vende tutto, consegna prima e ovunque, e costa meno.
Un affare, direte. Invece no. Vi ruba in tasca.

Amazon toglie valore alle cose

Dovete fare un regalo.
Andate in un negozio e, consigliati dal commesso, vagliate le varie possibilità. Poi, magari, visiterete un nuovo negozio dall’altra parte della città. Infine, effettuata la scelta, potrebbe persino capitarvi di dover aspettare qualche giorno che arrivi e poi tornare a ritirarlo.

Tutto questo lavorìo aumenta il valore di ciò che acquistate.
Non in termini economici, ovviamente, ma aumenta l’importanza che voi gli attribuite (che alla fine è l’unica cosa che conta).

Pensate anche al prezzo.
Su Amazon non comperate mai a prezzo pieno, ma sempre tutto scontato, al ribasso.
Ma davvero vorreste regalare un oggetto in saldo al vostro amore?

A proposito, avete presente la pubblicità di Amazon?
Una giovane coppia si scorda del proprio anniversario. Amazon vede e provvede. Entrambi comprano on line, ricevono il pacco a casa, e tutti vissero felici e contenti.
Ma voi vorreste vivere con un partner che si dimentica dell’anniversario?

Ma torniamo al nostro corriere nel controviale.

Non c’è amore nel suo lavoro, non c’è professionalità né passione.
Non per sua incapacità o mancanza di volontà, semplicemente per mancanza di tempo.
Non c’è cura e attenzione nei confronti del pacco sballottato per chilometri (tanto da rendere necessario un imballo gigante anche per libri od oggetti non fragili).

Stanno impoverendo la nostra società.
Stanno vendendo sottocosto i nostri desideri, il nostro lavoro, il nostro ambiente.

Il BlackFriday sta arrivando. Natale sta arrivando.
Prima di ordinare su Amazon, pensate al corriere e andate ad acquistare i regali nei negozi.
Vi costerà più danaro, più tempo, più fatica, ma contribuirete a frenare il declino.

Una società al ribasso

Oggi non parlo di corsa, ma di umanità.

Viviamo tempi strani.
Tempi in cui in politica gli slogan funzionano meglio delle idee.
In cui sui social paga di più apparire che essere.

E’ un processo di disumanizzazione oppure, se si vuole essere più pessimisti, un processo di impoverimento della nostra umanità.

Stamattina ho letto un articolo sul sito di Repubblica.
Si racconta di un uomo che viene licenziato.
E’ una persona di 61 anni ed è privo di una mano.
Fino ad oggi lavorava in una fabbrica di taniche vicino a Milano. Il suo ruolo era quello di piazzare un tappo provvisorio prima della verniciatura. Tappo che viene poi rimosso e sostituito da quello finale.

Un lavoro noioso nella sua semplicità, ma che dava all’uomo la dignità di potersi definire un lavoratore.
Un lavoro che faceva la differenza tra essere utile ed essere un peso per la propria famiglia.

La fabbrica ha messo una macchina a fare quel lavoro.
Li capisco: più veloce, più precisa, meno rischio per l’uomo, meno costosa.

Ma come fa una persona di 61 anni a trovare un lavoro oggi?
Senza una mano, senza una qualifica particolare, come fa a rendersi utile?

Non voglio condannare la fabbrica perché non conosco i fatti. Non so cosa li abbia spinti a questa scelta.
Da uomo abituato a lavorare in azienda so che a volte bisogna sacrificare una persona per salvare il lavoro delle altre.

Ma siamo arrivati a questo perché abbiamo accettato di usare il profitto come unico metro del valore delle cose.

Viviamo in un sistema in cui è normale andare in un negozio e farsi spiegare tutto su un prodotto e poi comperarlo su internet perchè costa 10 euro di meno.

La nostra società vive al ribasso.
Vince chi abbatte il costo invece di chi incrementa la qualità.

E’ necessario ripensare il sistema, se vogliamo che i nostri figli siano ancora degli esseri umani e non dei robot.

E’ necessario reintrodurre il piacere di fare cose inutili (come andare a correre), di perseguire il bello nelle piccole cose.

E’ necessario rialzare l’asticella e smettere di guardare alle persone come risorse e vederle nella loro interezza.

In bocca al lupo all’amico senza una mano e oggi senza lavoro.
Sarà una strada in salita, spero solo che la forza che lo ha portato ad accettare di lavorare 8 ore a infilare tappi lo aiuti anche ad andare oltre a questo fase.