Progredire

A prescindere da quale, il movimento all’aperto e in natura (outdoor) è sinonimo di progressione nella nostra crescita come esseri umani

Camminare. Correre. Finanche arrampicare o fare scialpinismo.
In montagna possono tutti essere sostituiti dalla parola progredire.
Ed è bello e significativo che progredire indichi anche il processo di miglioramento da uno stadio primitivo ad uno più evoluto.

In montagna progredire ha un senso.
Camminare o correre sono due movimenti diversi che servono lo stesso scopo. Raggiungere un luogo, compiere un periplo, attraversare due valli, salire una vetta.

Camminare è una profonda esperienza spirituale che coinvolge l’Uomo nella sua interezza.
Gambe e polmoni, piedi e cervello, cuore e braccia. Ogni parte svolge un suo ruolo in armonia con le altre.
Il ritmo atavico che emerge quando camminiamo riporta in contatto la nostra parte senziente con quella istintiva, il conscio e l’inconscio.
Ed in questa epifania di consapevolezza noi siamo vivi.

Correre accelera tutti i processi.
I muscoli delle gambe bruciano, i polmoni succhiano l’aria, il cuore batte ritmi forsennati.
E viviamo più intensamente negli attimi in cui siamo nel flusso vitale. Ci sembra di essere al di là del tempo e della fatica. Ci sembra di volare. Poi il sistema collassa, e rallentiamo.
L’allenamento allunga di uno zic quell’attimo perfetto.

scialpinismo

Arrampicarsi è gattonare in verticale.
[La definizione non è mia ma di Simone Moro, che sostiene che i bambini che si muovono a quattro zampe arrampicano naturalmente].
Quando serve per superare un ostacolo è uno straordinario sforzo coordinato tra potenza fisica e concentrazione mentale.
Quando è fatto senza scopi (penso al bouldering o all’arrampicata sportiva) è una danza verticale, una straordinaria manifestazione della bellezza del corpo umano.

Lo scialpinismo è libertà.
Quando la neve ci imprigiona nelle nostre case di fondovalle, indossare un paio di sci con le pelli ci permette di riguadagnare la possibilità di muoverci.
La salita è concentrazione, è tecnica, è fatica focalizzata su un obbiettivo.
La discesa è gioia, è ritmo, è danza.

Progredire è muoversi.
Muoversi è progredire verso una nostra crescita come esseri umani.

Il ritiro

E la terza notte al Tor des Géants è passata.
In realtà è la quinta per quelli del Tor des Glaciers, ma loro sono una categoria a parte.

Il meteo che era stato un problema per i primi due giorni, finalmente volge al bello. E la cosa è importante, perché restano ancora da salire parecchi colli.

Osservando da Milano la tabella dei passaggi e il numero di ritiri che si sta normalizzando (al momento sono 216 sui 957 partenti), ho iniziato a riflettere su questo tema.

E’ ovvio dire che è più facile che si ritiri un campione rispetto ad un amatore.
Il campione è lì per vincere, tirerà dal primo minuto e, una volta che si renderà conto che non può più andare a podio o piazzarsi, verrà meno lo stimolo di correre.
Quindi il duplice fattore alto rischio infortunio/correre al limite + calo motivazione rende il ritiro quasi l’unica scelta.

Ma il ritiro per un amatore è tutta un’altra cosa.

In primo luogo, per lui il Tor è probabilmente la gara dell’anno.
Ci si è preparato a lungo, ha coccolato l’idea e quando è stato sorteggiato ha iniziato a vivere per il Tor.

In secondo luogo, per un amatore il vero obbiettivo è arrivare in fondo nelle 150 ore di tempo massimo: essere un finisher.
Quindi accetta di procedere lentamente, l’importante è continuare ad andare.

Ma credo che l’aspetto più interessante sia quello psicologico.

Alba su un colle al Tor des Géants (ph Stefano Jeantet - Archivio TdG)
Alba su un colle al Tor des Géants (ph Stefano Jeantet – Archivio TdG)

Il campione ha addosso molte aspettative.
Non deve deludere i fan e gli sponsor.
Da lui la gente si aspetta un risultato eclatante ma paradossalmente accetta un ritiro (“Ha dato tutto, è un grande anche se si è fermato” oppure “Ha veramente fatto di tutto per vincere, pensa che si è dovuto fermare”).

L’amatore, tolta la famiglia e gli amici della società di corsa, deve solo soddisfare se stesso.
Ma questo genera una fortissima barriera alla tentazione di mollare.
Il concetto di “magari sui gomiti, ma arrivo” che per un campione è difficilmente accettabile, per un amatore è una strategia.

Così, tra i 216 ritirati al Tor, in percentuale il numero dei campioni, delle wild card (gli invitati), è eccezionalmente più elevato di quello degli amatori.

Non sto facendo un monumento a noi “tapascioni”, a noi che non abbiamo velleità di podio.
Sto solo suggerendo a chi guarda solo la prima pagina della classifica, di volgere lo sguardo verso gli ultimi.
Tra di loro ci sono le storie più interessanti, le battaglie personali più dure, e – spesso – gli esempi da imitare.

Post Scriptum per i più curiosi aggiungo un po’ di notizie.
Al Tor des Glaciers c’è in testa Luca Papi, un italiano residente in Francia (lavora ad EuroDisneyland)
Al Tor des Géants c’è in testa Oliviero Bosatelli che arriverà a Courmayeur verso mezzogiorno di oggi, tra le donne la spagnola Silvia Garrote Trigueros (che ha vinto anche lo scorso anno)

Infine ieri sera alle 21 è partito il Tot Dret, la gara di 130 km che da Gressoney arriva a Courmayeur.

Quasi un trail…

“Sapessi com’è strano / correre di notte / a Milano…”

Sono un orgoglioso membro di una ASD (Associazione Sportiva Dilettantistica) che si chiama almosthere, sponsorizzata e sostenuta da una SRL (Società a Responsabilità Limitata) che si chiama almostthere.

Se siete anglofoni o anglofili i nomi vi piaceranno da matti.

Almost There è usato nelle gare per incitare i maratoneti e può essere tradotto in “ci sei quasi!”, ma il suo significato si declina in vari modi. “Quasi lì” sottende alla pulsione, innata nell’essere umano, verso il raggiungimento dei propri limiti. E’ un inno all'”andar oltre”.

Almost Here (“quasi qui”) è stato il nome che abbiamo deciso di dare all’associazione sportiva un po’ perché richiama il nome della società madre, un po’ perché gioca sul fatto che cerchiamo di attrarre a noi e al nostro modo di vivere lo sport altri amici, un po’ perché ogni traguardo (there) è anche una linea di partenza (here) per nuove avventure.

A questo punto, dalle cervellotiche spiegazioni di cui sopra, avrete capito che siamo un po’ malati e che con le parole amiamo giocare.

La controprova l’abbiamo avuta con un amico romano che quando ha voluto tradurre il nostro “almostthere” in italiano, ha usato un proverbio romanesco “te mancano sempre do sordi pe fa ‘na lira”.
Traduzione ineccepibile seppur meno epica.

trail running

Comunque, tutto questo lungo prologo per raccontarvi di una nuova avventura che prenderà il via il prossimo weekend.
Si chiama Una settimana di corsa e prevede 4 appuntamenti per vivere la corsa in 4 modi diversi (un 4×4, insomma).
Un modo divertente di provare ad assaggiare diversi modi di interpretare il running.

Si parte il 29 settembre con track&friends (gare in pista dai 1500 ai 5000 aperte a tutti).
Si prosegue il mercoledì 3 ottobre con il nighttrail (di questo vi parlo qui sotto)
Il venerdì è dedicato a milano loves you run (un’uscita all’alba a passo libero per raccogliere fondi per la LILT)
E si conclude sabato 6 ottobre con la celeberrima thirty training (un lunghissimo pre maratona, 33km da Pavia a Milano)

Volete maggiori info? Seguite almostthere su FaceBook (ecco il link).

Ma io volevo parlarvi del NIGHTTRAIL.
Ho sempre osteggiato gli urban trail, che considero un paradosso. O sei urban o sei trail.
Ma qui siamo riusciti, se non a portare il trail in città, almeno a ricreare quel senso giocoso di libertà propria del trail.
(In effetti io l’avrei chiamato almosttrail invece che nighttrail, ma poi mi avrebbero menato quelli del marketing!)

E’ una gara-non gara.
7 chilometri e 49 mt D+, quindi più un cross che un trail, ma con un percorso che mette alla prova.
Si aggiunga che si parte alle 21 (la frontale è l’unico materiale obbligatorio), che si corre sul wildside del Monte Stella, cioé fuori dai sentieri classici della nostra amata Montagnetta, e che tutto è (dis)organizzato in modo scientificamente caotico in modo da non dare indicazioni alle persone fino all’ultimo…
Non promettiamo nulla, ne’ ristoro ne’ premi.
Come detto, non è una gara, è solo un modo di provare a correre in modo selvaggio.
E di divertirsi…

Costa 10 euro la singola gara oppure 40 euro se si partecipa a tutta la settimana di corsa.
Per iscrivervi andate qui.

Io mercoledì prossimo (non oggi, ma il 3 ottobre) sarò lì.
Voi fateci un pensierino…

Io corro da solo

Ho passato lo scorso weekend a seguire il live dell’UltraTrail du Mont Blanc (per chi non lo sapesse, l’UTMB è il più importante evento mondiale di trail running, 6 gare intorno al Monte Bianco con il meglio del meglio dei trailer di ogni nazionalità).

Da quest’anno c’erano telecamere che offrivano una diretta della testa della corsa (sia maschile che femminile).
Significa un team di persone che in mountain bike o a piedi seguono degli atleti top nelle varie sezioni del percorso (uno sforzo organizzativo pazzesco, considerato che le gare durano una settimana e coprono un percorso di 160 chilometri).

Sono capitato su quel link per caso e sono rimasto stregato.
Conosco quel percorso a memoria, riconoscevo i sentieri, i ristori, gli incroci con le strade asfaltate, i tratti insidiosi… ero lì con loro.
Poi mi ha affascinato la gara, ho seguito con trepidazione lo svolgersi delle competizioni, ho tifato e sofferto con gli italiani in gara (che spesso sono persone che conosco bene), ho gioito per la vittoria di Francesca Canepa anche se è coincisa con il quinto posto di una splendida Katia Fori. Ho cercato di spingere Marco De Gasperi, quarto al suo debutto sulle lunghissime distanze, e ho ammirato la determinazione di Stefano Ruzza che con il suo settimo posto è il miglior italiano di sempre all’UTMB (tolto il mitico Marco Olmo).

Insomma, una gran bella esperienza virtuale.

E mentre li osservavo soffrire in diretta, tallonati dalla telecamera, riflettevo su quanto impietosa sia questa pratica.
Quando corri un’ultra (ancor di più se lo fai al limite delle tue possibilità) ti metti a nudo,
Non c’è spazio per atteggiamenti o pose, tu sei quello che riesci a mettere in campo in quel momento.

La tua forza e le tue debolezze sono in piena vista.
La corsa è molto onesta in questo. E’ una sorta di radiografia dello spirito, di TAC del cuore.

Ultra Trail du Mont Blanc
Alcuni concorrenti percorrono il sentiero a mezza costa in faccia al Monte Bianco

Ho ammirato i grandi campioni che vedevo correre, per quello che erano e anche perché hanno accettato di mettersi in mostra in mondovisione.
Persino io dal divano di casa potevo spiare la fatica sui loro volti.
Soffrire con Katia che stringeva i denti mentre un fastidioso problema muscolare la rallentava e si vedeva raggiungere dalle altre concorrenti che fino a quel momento l’avevano inseguita.

Uno spettacolo bellissimo e crudele.
Ho ammirato quelle persone che non una volta hanno dimostrato fastidio per quell’intrusione nella loro anima.
Ho sorriso quando, dopo che il cameramen aveva detto “ti lascio, aspetto che arrivi il prossimo concorrente” Katia aveva sorriso e tirato un sospiro di sollievo.

Non è facile correre sotto l’occhio curioso degli altri.
Non è facile accettare di mettersi in gioco così.

E naturalmente ho pensato alla prossima settimana, quando in gara ci sarò io a combattere con i miei demoni lungo i 330 km del Tor des Geànts.

Io amo correre da solo.
Nel 2013 rallentavo all’uscita dei ristori per evitare di trovarmi con altri concorrenti o partivo prima degli altri per godere della splendida solitudine delle notti in quota.

L’anno successivo avevo corso in coppia con Daniela.
Era stato molto diverso anche se, come dico sempre, abbiamo fatto talmente tante gare ed allenamenti assieme che a volte passiamo ore senza parlare sapendo esattamente cosa pensa l’altro.

Però, in qualche modo, avevo rimpianto quei momenti solitari dell’edizione precedente.

Domenica sarò di nuovo al via con Daniela, ma questa volta sarà un sollievo.
So che andrò in crisi e so che accadrà prima di quanto io speri e più spesso di quanto vorrei.
Allora mi aiuterà il poter staccare il cervello e seguire il suo passo.
Poter contare sulla sua volontà nel momento della crisi.

E spero di poter fare lo stesso per lei.

Io corro da solo, ma in certe occasioni non c’è nulla di più prezioso che un’anima di scorta su cui contare…

Un dolce Tor-mento

Si riparte.
Ho passato un bel mese rilassante andando per monti, anche se un appuntamento incombente mi ha un po’ tolto la serenità del viaggiare per viaggiare.
Mi riferisco a domenica prossima quando sarò di nuovo alla partenza del Tor des Geànts.

Ne ho parlato così tanto (e tanto ne hanno parlato gli altri) che mi sembra perfino inutile spiegare di che cosa si tratti.
E’ un ultratrail ed è una gara.
Il percorso è spettacolare: concatena le due Alte Vie della Valle d’Aosta, si parte da Courmayeur e lì si ritorna dopo aver percorso 330 km e salito 24.000 metri di dislivello positivo. Il tutto nel tempo massimo di 150 ore (sei giorni e sei ore).
Si chiama Tor des Geànts, che in patois significa Giro dei Giganti, perché tocca alcune delle più belle cime d’Europa: il Monte Bianco, il Monte Rosa, il Cervino, il Gran Paradiso per citare solo quelli più noti.

E’ una gara speciale, che ho nel cuore.
Ma quest’anno, un po’ per incoscienza, un po’ perché ho saputo solo all’ultimo minuto che avrei partecipato, non l’ho preparata a sufficienza.

Quindi adesso sono qui, a sette giorni dal via, a preoccuparmi mentre leggo i cancelli orari, i dislivelli e – ahimé – i riscontri dei miei ultimi allenamenti. Troppo lento a salire. Troppo corte le uscite. Troppo poche le ore totali spese a vagar per monti.

Allo stesso tempo, però, mi ha preso un’incredibile euforia.
Leggere i nomi dei luoghi che conosco così bene (ho partecipato a tre Tor e percorso quei sentieri almeno il doppio delle volte) mi sta facendo rivivere tutte le emozioni di quelle partecipazioni.

Alla partenza del Tor des Geànts 2013
Alla partenza del Tor des Geànts 2013

Perché il Tor des Geànts è soprattutto questo: un flusso continuo di emozioni che sovrasta la fatica, il sonno, il dolore.
La testa mi dice che non sono pronto, il cuore mi dice che non vedo l’ora di schierarmi al via e che vada come vada.

Ho messo in conto di poter non superare il primo cancello alla base vita di Valgrisanche.
Ho detto che sarei felice di arrivare alla seconda base vita a Cogne.
Considererei una vittoria arrivare a Donnas, a metà giro.

Ma sono tutte supposizioni e calcoli.
La verità è che partirò cercando di tirare avanti per tutte le 150 ore della gara.
Il problema, per la prima volta, non sarà il sonno (che è il peggior nemico dei partecipanti) ma la fatica. O meglio la mia scarsa abitudine alla fatica di quest’anno.

La foto mi ritrae alla partenza dell’edizione 2013.
Quel giorno pioveva e le previsioni volgevano al peggio.
Eppure sorrido come un ebete. Come un innamorato.

Questo è il Tor, un tormento ed una passione.
O magari la via che, attraverso il tormento, conduce alla felicità.

Non penso altro che al Tor, in questi giorni.
Quindi preparatevi: tenderò ad essere monotematico per le prossime settimane!

Vizi da cittadini

Un week end all’insegna delle escursioni rubate.

Sabato mattina ho tagliato l’erba al prato, così sono uscito solo all’una per andare a correre.

Ho scelto un’escursione lampo sulla cima del Monte Zerbion.
Sono salito spingendo dal primo all’ultimo metro e sono sceso correndo.
(Le gambe alla sera ce l’avevano un bel po’ con me).

Salendo, avevo incrociato al Col Portola un signore che scendeva. L’avevo notato perché era vestito come il tricolore: pantaloni verdi, maglia bianca, zaino rosso.
Scendendo l’avevo scorto da lontano ed avevo accelerato per raggiungerlo (solito discorso di mettersi degli obbiettivi per riuscire a spingere un po’ di più).
Superandolo in  discesa mi preparavo a salutarlo, quando ho notato che stava parlando ad alta voce.

Ora, capita spesso anche a me di parlottare mentre percorro in solitaria un sentiero, ma si tratta più che altro di pensieri mormorati a mezza voce, non di discorsi fatti e finiti enunciati con voce stentorea!
Il mistero è stato svelato quando, superandolo, ho intravisto l’auricolare e ho capito che stava parlando con un amico al telefono.

Parlavano di traslochi e di gru, di tariffe e di consigli su chi chiamare.

L’ho salutato con un cenno della mano (cui mi ha risposto ad alta voce immagino stupendo il suo interlocutore) ed ho continuato a correre fino al parcheggio.

Ho bevuto, ho cercato un posto per andare in bagno e mentre mi cambiavo, soddisfatto del mio allenamento, l’ho visto arrivare e dirigersi alla macchina parcheggiata a fianco alla mia.
Era ancora al telefono, sempre con la stessa persona (avevo sentito che si chiamava Mario), ma parlavano di una cena a cui l’amico era invitato.

Sorridendo l’ho salutato e sono  partito.

Uno degli aspetti che amo di più della montagna è la possibilità di scollegarsi dal mondo: vivere solo il momento e dimenticare quello che succede altrove.
Porto sempre con me il telefono come uno strumento di sicurezza, ma lo uso soprattutto per fare foto.

Amico tricolore che hai passato un’ora della tua gita conversando con Mario come se fossi al bar, magari la prossima volta invitalo a venire con te.

La montagna va goduta, in solitaria o in compagnia, ma di certo non al telefono.

Lago-della-Serva
Uno scorcio del Lago della Serva, all’interno del Parco del mont Avic (ph. Franz Rossi)

Post Scriptum domenica ho rubato un’altra uscita: dopo una giornata passata a pulire da rovi ed erbacce la stradina che porta a casa mia, alle 17 sono partito per un’altra escursione. Tre ore e mezza all’imbrunire possono regalarti scorci inattesi.
Ad esempio il Lago della Serva alle 20, che ho immortalato con il cellulare (allora sì che è utile!)

Incontri ravvicinati del III tipo

Lunedì, al termine della giornata lavorativa, ho deciso di andare a fare una corsetta rigenerante.

Il percorso è quello che chiamo “Basso nel Bosco”.
Un anello che parte da casa e che amo particolarmente (non fosse altro perché è breve!)

Si parte con un tratto in discesa attraverso il paese fino ad imboccare una lunga sterrata in leggera salita.
Sono circa 4 chilometri, perfetti per scaldarsi bene.
Poi si lascia la strada e si imbocca il sentiero che con un continuo susseguirsi di salite e discese si inoltra nel bosco di abeti.
Si passano alcuni punti caratteristici, tra cui una pietraia gigantesca, fino a sfiorare un’altra frazione prima di rituffarsi in discesa e, attraverso un castagneto, rientrare a casa.

Se vogliamo dare i numeri:
Poco più di sette chilometri, poco meno di 400 mt di dislivello positivo, poco meno di un’ora per chiudere l’anello.

mucca volante

La magia della corsa ha iniziato a manifestarsi mentre attraversavo il primo bosco.
Ho lasciato alle mie spalle i problemi del giorno e ho iniziato a pensare ad altro.
Sulla pietraia stavo fantasticando su una possibile variante del percorso.

L’aria era tiepida e gonfia di umidità (aveva piovuto tutto il giorno).
Il sole giocava a nascondino tra le nuvole sui monti che chiudono la valle.
Ero circondato dai suoni della natura: il cinguettio degli uccelli tra i rami, il placido scampanio delle vacche al pascolo, persino il rintocco del campanile sembrava naturale.

Ho imboccato la discesa finale, la mente stava già pregustando la doccia.
Ho lasciato che la forza di gravità mi facesse accelerare.
Ho attraversato un pratone, saltato una poderale e sono piombato sul sentiero che taglia il castagneto.

Il fatto è che proprio quel bosco era stato scelto da una mandria di vacche e manzetti che stavano apprezzando il gusto pieno di quelle erbe montane.

Non so chi fosse più sorpreso, se io che non le avevo mai incontrate in quel tratto o loro che si sono viste precipitare addosso una macchia colorata, fulminea e silenziosa.
L’effetto è stato un fuggi fuggi generale.

Non potete immaginare quanto veloci si muovano quei quadrupedi.
Siamo abituati a pensarli placidi e ruminanti, ma se messi alle strette filano veloci come cavalli.
E non potete immaginare che strepito hanno fatto attraversando di corsa il bosco: era tutto uno schiocco di rami spezzati, un frastuono di massi rotolanti e un clangore di campane.

Superato il primo attimo di sbigottimento ho sorriso e proseguito la mia corsa, regalando un ultimo brivido a tre vitelli che non avevano fatto a tempo a seguire le madri attraverso il bosco.

Sono gli incontri che rendono così piacevole correre da queste parti.
A volte è il frullo d’ala di un falco che si alza in volo, a volte un lampo bianco della coda di un capriolo.
A volte una mandria di vacche in fuga…

Qui non ci si annoia mai!

Andar di corsa in montagna

Ho passato lo scorso weekend a fare sport in montagna.

Sabato, con un’amica, ho fatto un bel giro di una ventina di chilometri e oltre mille metri di dislivello positivo.
Un giro immaginato durante la notte precedente e modificato in corso d’opera quando, salendo da nord verso la vetta di un monte, abbiamo trovato la neve e non essendo attrezzati con ramponi o ciaspole, abbiamo cambiato programma e abbiamo aggirato la vetta invece che salirla.
Appena rientrati a casa, abbiamo inforcato le mountain bike e abbiamo fatto un’altra decina di chilometri cercando il posto per l’allenamento di domenica.

Domenica, svegliatici con calma dopo una bella serata tra amici, abbiamo fatto colazione, ripreso le mountain bike e siamo andati a fare le ripetute lungo le condotte forzate dell’acqua (magari qualcuno non sa di cosa parlo, quindi ho messo una foto).
Appena rientrati a casa, un bel pranzetto in terrazzo dove ci siamo soffermati a prendere il sole prima di rientrare a Milano.

Valtellina-Vertical
Un’immagine della gara Valtellina Vertical Tube Race, che si corre lungo le condotte forzate dell’acqua

Non vi racconto tutto questo per farmi invidiare (  ), ma perché voglio parlarvi della mia idea di fare sport. E più precisamente di come il senso dello sport in generale e della corsa in particolare, cambi a seconda del luogo dove lo pratichiamo.
Voi direte: “bella scoperta Franz, chiaro che è più bello correre nel bosco in montagna che tra gli ippocastani del parco Sempione”. Vero, ma non proprio così immediato.

Correre in montagna significa cambiare completamente atteggiamento.

Significa dimenticare la distanza in chilometri e misurare solo i dislivelli.
Significa guardare l’orologio non per vedere a quanti minuti al chilometro stiamo andando, ma da quante ore siamo in giro.
Significa essere flessibili, pronti a tornare indietro, ad aggirare un ostacolo, a prendere (anche quando si è stanchi) la strada più lunga e più sicura invece che la scorciatoia.

Correre in montagna, fare attività sportiva in montagna, richiede una maggior attenzione, una maggior esperienza, in una parola una maggior cosapevolezza.

Scommetto che vi mancava qualcuno a farvi la predica il lunedì mattina…
Ma credo che questa sia una cosa davvero fondamentale.
Ed è per questo che ho accettato con gioia l’idea della Società Escursionisti Milanesi (la sezione CAI cui sono iscritto) di introdurre una serata su questi temi.

Il CAI è, per chi va in montagna, l’equivalente dell’Accademia della Crusca per chi scrive.
Racchiude in sè tutte le conoscenze legate alla montagna. E’ il punto di riferimento ufficiale (magari da alcuni percepito come un po’ noioso) delle attività alpine.

E’ chiaro che si può andare in montagna (persino a correre) anche senza aver parlato con il CAI.
Ma se cercate informazioni sicure è lì che dovete rivolgervi.

Lunedì prossimo, 14 maggio, ci troveremo a Milano, nella nuova sede della SEM, per far incontrare il mondo di chi ama la corsa e di chi ama la montagna.
Non bisogna assolutamente essere esperti di trail, ma non è necessario neppure essere dei neofiti (amici trailer di lunga data, venite a portare la vostra esperienza).
Sarà un momento di dialogo e l’occasione di scoprire come avvicinino la montagna gli esperti del CAI.

Ci sarà un ospite d’eccezione, Alessandro Gogna, uno dei fondatori e garanti di Mountain Wilderness, che parlerà proprio dell’approccio etico alla montagna.

Sarà una grande serata.
Confido che in molti veniate, con la mente aperta e la voglia di parlare.

A lunedì prossimo…

[Dettagli della serata a questo link]

Miti e modelli

Sabato mattina, mentre completavo il mio allenamento di una decina di chilometri, pensavo ai concorrenti della HardRock 100.

Si tratta di una gara mitica che si svolge negli Stati Uniti.
I trail americani, di solito, ci fanno ridere.
Sono lunghi, alcuni hanno anche parecchio dislivello, ma nella gran parte sono privi di difficoltà tecniche.

Ci sono delle eccezioni e la HardRock è una di queste.
100 miglia, quindi 166 chilometri, e 10.000 metri di dislivello positivo.
Ma quello che la rende davvero difficile è il fatto che si attraversano situazioni climatiche completamente opposte.
Si parte nel caldo torrido e si arriva a colli dove c’è ancora la neve.
I primi concorrenti arrivano dopo 25 ore di gara, il record, di poco sotto le 24, è di Kilian Jornet Burgada (sì, sempre lui) che l’aveva vinta nelle scorse tre edizioni.

Pensavo all’HardRock100 perché era partita la sera del venerdì e mentre io giravo tra la Montagnetta di San Siro e il cimitero di Musocco, loro stavano affrontando la seconda metà del percorso.
Pensavo all’intervista a Kilian il giorno prima della partenza.
Aveva detto alcune cose che mi avevano fatto riflettere.
La prima, che lui si prepara a queste gare in circa una settimana (nel senso che è sempre in forma e dedica una settimana a fare lavori specifici rispetto all’evento).
La seconda, che il giorno prima (mercoledì) era andato a fare un’uscita su un monte che voleva scalare. 60km con non so più quanto dislivello due giorni prima della gara! Certo che hanno una considerazione diversa delle distanze.
La terza, quella che mi aveva colpito di più, è che nel 50% delle sue uscite deve rinunciare per motivi “esterni” (il meteo, le condizioni della montagna, la sua forma) e non prendersi troppi rischi.

Ecco, anche alla luce del mio post di lunedì scorso, credo che questa frase andrebbe scolpita.
Kilian, una volta su due, rinuncia alla sua meta per non rischiare troppo.

Kilian Jornet Bourgada
Kilian Jornet Bourgada e Joe Grant all’HardRock100

La sera cerco i risultati e scopro che il campione catalano, al rientro alle gare dopo aver scalato l’Everest, al 70esimo miglio, uscendo da un nevaio, è scivolato e cadendo si è lussato una spalla.
Ha corso così fino al primo ristoro dove si è fatto immobilizzare l’arto.
Mancavano ancora 30 miglia, quasi 50 chilometri, e lui ha continuato in un testa a testa con Joe Grant.
Le foto lo ritraggono sorridente mentre spinge con un solo bastoncino.

Mike Foote sarà l’ultimo a cedere e resterà indietro e Kilian, per la quarta volta consecutiva, sarà il primo a baciare il muflone disegnato sulla roccia, il simbolo della gara che segna il traguardo.
Tutto lo sforzo per raggiungere questo obbiettivo è chiaramente visibile sul volto di Kilian e traspare nella voce delle interviste sulla linea del traguardo.

Ma forse la cosa più bella è il suo tweet a commento della gara.
Una foto in bianco e nero e un “What a day!” (Che giornata!) prima di passare a ringraziare tutti gli HardRockers presenti (pubblico, organizzatori, volontari, concorrenti…)

Kilian Jornet Bourgada
What a day! Thanks all Hardrockers (runners, crew, pacers, volunteers, orga…) Photo by @BergGrand

C’è poco da fare.
Kilian Jornet Burgada è un mito assoluto.
Scia, corre, arrampica come un dio.
Ma si comporta come un uomo, con le sue paure, le sue fragilità, che rendono ancora più grandi le imprese.

E mentre faticavo a chiudere il mio anello di corsa, mi chiedevo: “E’ Kilian il mio modello di atleta?”

La risposta è no.
Io mi ispiro a Kilian, ma imito la tenacia di due ragazze di origini latine che da aprile ho spiato “allenarsi” al mattino presto sotto casa mia: corricchiano per 10 minuti, poi camminano facendo degli esercizi ginnici, poi riprendono a corricchiare.
Il mio modello è la passione di un runner che incrocio spesso in Montagnetta. Avrà 75 anni, e corre con buona lena, poi si ferma a bere il caffè dopo la doccia con i suoi compagni di allenamento.
Imparo l’organizzazione dai tanti amatori capaci di incastrare 50 minuti di ripetute tra lavoro e famiglia.

Quelli sono i miei modelli.
Quelle sono le persone che fanno cose che potrei/dovrei fare anch’io.

La differenza tra mito e modello è proprio in questo.
Il mito mi rende orgoglioso di essere un Uomo.
Il modello è il traguardo che voglio raggiungere.

Confondere uno con l’altro può rovinare la vita.

Tra realtà e immaginario

E’ tutto il weekend che non riesco a togliermi dalla testa un nome: Luca Borgoni.
E’, anzi era, un ragazzo di 22 anni di Torino.
Uno sportivo, figlio di sportivi, abituato ad esprimere il massimo.
Aveva consegnato la tesi di laurea (sugli effetti degli integratori naturali in quota) che avrebbe dovuto discutere nei prossimi giorni.

Sabato è andato a fare una corsa in montagna, ha partecipato al Cervino Vertical, 1000 metri di dislivello in poco meno di 4 km.
E’ andato bene. I genitori lo hanno festeggiato al traguardo.
Poi ha deciso che voleva tentare di salire più in alto, raggiungere quota 3800 della Capanna Carrel, il rifugio che è il punto di partenza della salita alla vetta.

Un gruppo di scalatori che procedevano sulla stessa via e che lui aveva superato, lo hanno visto cadere.
300 metri di volo.
Niente più laurea, niente più montagna, niente più snowboard…

Luca Borgoni
Luca Borgoni, una grande passione per la montagna

La corsa in montagna è la mia vera passione.
Amo perdermi tra quei giganti.
Amo percorrere i sentieri cercando la sintonia con la Natura.

Forse per questo la notizia mi ha tanto colpito.
O forse perché ho dei figli di poco più grandi.

Luca era sicuramente un atleta preparato, sia fisicamente, sia come esperienza.
Ma c’è qualcosa di sbagliato nella sua morte.
Aveva 22 anni, e come tutti noi seguiva le gesta di Kilian e degli altri campioni.
Magari è stato questo che lo ha tratto in inganno. Un misto di entusiasmo giovanile e mal interpretata epica dello skyrunning.

Proprio venerdì avevo visto “Cervino, la montagna del mondo”, il documentario realizzato da Nicolò Bongiorno sulla Gran Becca (ecco il link al sito della RAI – dura quasi un’ora).
E’ un tributo alla montagna nella ricorrenza dei 150 anni dalla prima ascensione (2016).
50 minuti di lento incedere nella storia. Compiacendosi in riprese e fotografie a scapito della fluidità del racconto.
Nicolò Bongiorno sale in vetta accompagnato da Marco Barmasse, guida alpina e padre del celebre Hervé.
E’ un uomo giovane e in discreta forma fisica, eppure dal suo procedere, dal fiatone che ha all’uscita dei passaggi chiave della via, si intuisce che non si tratta di una passeggiata.

Il pensiero mi andava alle splendide riprese del record di Kilian sul Cervino.
Sottolineata dalla musica ritmata, la corsa di Kiki in salita e, soprattutto, in discesa, fanno apparire quella stessa via un gioco.

Il cinema è finzione.
La televisione è finzione.
Persino i documentari scientifici, pur nell’intento di fare informazione, sono posticci.

Ma questo meccanismo non è chiaro ai più.
C’è ancora chi non capisce la differenza tra le messeinscena di Forum e le vere aule giudiziarie, tra Striscia la Notizia o le Iene e il telegiornale o Report (con tutti i dubbi di faziosità), tra la nostra vita e i film di Hollywood.

Chi produce spot commerciali o video promozionali dell’attività in montagna dovrebbe considerare questo elemento.
Kilian è il risultato di una vita passata in montagna a fare allenamenti che nessuno di noi saprebbe affrontare (oltre che di un innegabile talento genetico).
Non basta indossare le stesse scarpe che indossa lui per salire l’Everest o per correre sui ghiacciai senza sicurezza.
Ci vogliono occhio, gambe, e tanta tantissima esperienza.

Gli organizzatori delle gare in montagna sono bravi.
Sottolineano sempre l’importanza della preparazione, ricordano la necessità dell’attrezzatura completa, scelgono sempre la prudenza del percorso ridotto quando le condizioni meteo lo suggeriscono.

Le guide alpine sembrano eccedere in prudenza.
Ma in realtà sanno cosa fanno: preferiscono arrivare un’ora più tardi o addirittura rinunciare alla vetta, per ritornare sempre a casa.
Lo hanno imparato partecipando ai recuperi dei corpi di decine di vittime dell’imprudenza.

Lo fanno i professionisti.
Chi siamo noi per saperne di più?
Aver guardato qualche video o letto qualche libro ci ha trasformati in esperti?

Scusate, magari tutto questo c’entra poco con la corsa, ma come dicevo all’inzio è un pensiero che ho in testa da sabato.

Luca non ha colpe, e se anche ne avesse avute, ha pagato il prezzo più alto.

E non venite a dirmi che almeno è morto facendo quello che più amava.
Lui di certo avrebbe preferito poter continuare a farlo.