Una vacanza particolare: senza allontanarmi da casa e senza cambiare troppo le cose che faccio, sono riuscito a rilassarmi
Sono stato in vacanza. Magari non ve ne siete neppure accorti, ma io ho tirato i remi in barca e per un paio di settimane ho staccato la spina (dal mondo digitale) e mi sono rifugiato sui sentieri.
Staccare per qualche giorno è una necessità più che un lusso.
Se mi volto indietro e osservo cosa ho fatto in questi 15 giorni, in realtà, non noto grandi differenze con i mesi precedenti.
Sono andato in montagna. Ho visto qualche amico. Ho letto, ho pensato a nuovi progetti, ho immaginato storie e avventure. Ho persino risolto qualche sporadico problema di lavoro…
Eppure mi sono rilassato, perché mi sono finalmente reimpossessato del mio tempo.
Le scadenze che ognuno di noi ha, siano lavorative, familiari o magari anche di divertimento, ci impongono ritmi. Poter decidere all’ultimo minuto cosa si farà nelle ore successive è un privilegio raro.
La mia vacanza è finita. Da ieri sono tornato al lavoro.
Ma ho deciso di portarmi dietro un briciolo di libertà. Di lasciare ogni giorno un paio d’ore in cui non ho nulla da fare. Un buco da riempire, magari oziando, oppure ascoltando musica. Ma senza scadenze da rispettare…
Ogni volta che esco per andare in montagna mi chiedo perché sia così importante per me. Alla fine credo si tratti del sentirmi parte della Natura
Ho salito la montagna. Attraverso il bosco verso la prima croce, dove mi sono fermato a riempirmi gli occhi di paesaggio.
E poi ancora in alto, ma lungo la lama sottile del crinale, sempre ad un passo dal baratro da cui saliva caldo il respiro della parete arroventata dal sole.
Rododenri in boccio e tenere foglie di mirtillo formavano un tappeto verde. Il sentiero si arrampicava in circonluzioni che spesso lo nascondevano dietro la vegetazione. Qualche albero secco, testimone e vestigia di un tempo antico e di antiche tempeste, resisteva spoglio lungo la cresta.
Ad ogni salto che superavo, nuove gobbe nascondevano il cielo. E cresceva la voglia di svelare l’arcano, di giungere lì dove più in alto non avrei potuto.
A sorpresa la vetta è un pianoro. Verde d’erba e azzurro di cielo. In lontananza si stagliano le vette amiche, i cui nomi sono ormai entrati nella mia coscienza. La Grivola, l’Emilius, la Becca di Nona. La valle di Rhemes si svela da quassù, tagliata dal nastro argenteo del fiume che l’ha generata.
Ci fermiamo a bearci delle nostre sensazioni. Pane, formaggio, una mela, un goccio d’acqua. Piaceri semplici conditi da una macchia viola di fiori.
All’improvviso il volo alto del gipeto che sfiora il pianoro per scoprire chi si muove sul suo terreno.
Qui è tutto così naturalmente al proprio posto che anch’io mi sento appagato. Andare o restare? Nuovi passi mi attirano verso il fondo valle, la casa e l’agognata birra fresca.
Grazie a Riccardo che mi ha fatto conoscere un pezzo della sua “montagna dietro casa”.
Mi sono spesso chiesto cosa mi spingesse (e cosa spingesse tanti altri) a praticare le Terre Alte. La ricerca di risposte alle domande della vita? La ricerca delle domande giuste per proseguire nella vita?
O più semplicemente per godere del piacere della fatica e di un paesaggio? O l’appagamento di raggiungere un obbiettivo (la vetta, il rifugio, il colle)?
Ma nessuno dei motivi che ho elencato mi soddisfa. Se fosse una specifica ragione, una volta ottenuta/raggiunta smetteremmo di praticare la montagna.
Invece io ci torno. Giorno dopo giorno. Anche nello stesso posto, sugli stessi sentieri.
Non posso farci nulla. Se sono in montagna sto meglio, mi sento più a mio agio. Ci sono illusioni della gioventù che so essere fiammate di vita, brevi ed intense. Il grande amore, il successo, la notorietà, la felicità. Ho smesso di inseguirle, preferendo le sorelle minori. Una relazione appagante, la soddisfazione di fare bene una cosa, pochi amici, la serenità.
Salire la montagna per me è parte integrante del vivere sereno. A Plan Cou, steso sull’erba, osservando il volo del gipeto, ero perfettamente sereno. Integrato in una natura più ampia. Che tutto comprende. Piccoli piaceri, piccole gioie, non desidero altro.
Il nuovo libro di Enrico Camanni e un avvincente giallo ambientato intorno al Monte Bianco. Protagonista la guida Nanni Settembrini e un’alpinista…
Mi è oggettivamente difficile non avere un pregiudizio. Enrico Camanni, l’autore di questo giallo, è uno dei miei punti di riferimento per quanto riguarda la storia della montagna e dell’alpinismo. Giornalista e scrittore, è una di quelle voci che seguo regolarmente, sia attraverso la carta stampata che nelle conferenze pubbliche.
Paradossalmente ne ho apprezzato le capacità di romanziere in tutti i molti saggi che ho letto (cito a campione La guerra di Joseph e lo stesso Alpi ribelli), la sua scrittura – senza scivolare nell’epico – riesce a trasformare la Storia in un racconto.
Avevo letto, molto tempo fa, il primo romanzo in cui appariva lo stesso protagonista (La sciatrice, Vivalda Editore, 2006) mi era piaciuto ma non mi aveva lasciato un ricordo profondo, anche perché in quel periodo cercavo storie vere di montagna e non storie di fantasia.
Invece sono incappato in questo giallo nel momento perfetto: stavo leggendo parecchi saggi e avevo voglia di una lettura che mi distraesse.
In breve la storia: Nanni Settembrini è una guida alpina che vive in Valle d’Aosta ed è capo del locale Soccorso Alpino. In questo suo ruolo, viene coinvolto in un intervento a seguito di una valanga che travolge un’alpinista.
I soccorritori riescono ad estrarla ancora viva (seppur incosciente) e la caricano sull’elicottero in direzione dell’ospedale. Ma quando continuano le ricerche seguendo la corda cui era legata, arrivano ad un capo libero senza trovare il compagno.
L’alpinista si sveglia dal coma ma non ricorda più nulla, lasciando il dubbio se fosse sola o meno sul ghiacciaio.
Toccherà a Settembrini, insieme ad una psichiatra incontrata sul luogo dell’incidente (lei e il compagno avevano allertato i soccorsi) ricostruire l’intera vicenda.
Non aggiungo altri particolari del plot per non togliere la suspance alla storia. Ma mi piace segnalare che il romanzo è ambientato intorno al Monte Bianco, si parla di montagna con una proprietà ed una conoscenza davvero rara (e non potevo aspettarmi nulla di diverso da uno scrittore/alpinista come Camanni) ma soprattutto che non si parla di sola montagna.
C’è molta vita in questo “Una coperta di neve”. La storia di Settembrini e il suo passato che torna prepotentemente alla luce. I suoi problemi di uomo divorziato con due figlie molto diverse.
A ben pensarci è un libro tutto al femminile: due figlie, una ex moglie ed una compagna, una madre, un’alpinista vittima dell’incidente, una psichiatra che lo aiuta, un’infermiera burbera che svela il suo lato più umano.
Sembra che Camanni si sia avventurato in esplorazione di una nuova via: quella dell’universo delle donne.
Leggetelo e mi saprete dire…
Una coperta di neve Enrico Camanni Mondadori, I gialli 293 pagg. / 16,00 euro
Rimettiamo il rapporto con la Natura al centro della proposta turistica.
Sto leggendo un bel saggio di Yuval Noah Harari, si intitola Homo Deus e il sottotitolo è “Breve storia del futuro”. Fa parte di quel gruppo di libri che avevo acquistato da tempo, avevo appoggiato sul comodino, ed era stato sommerso da nuovi acquisti. E’ stato pubblicato nel 2015 e scritto prima, ma offre una chiave di lettura davvero stimolante di quello che ci sta capitando in questi giorni.
Non l’ho ancora finito, ma nella prima parte propone di chiamare questa fase storica Antropocene invece che Olocene, asserendo che l’Uomo è stato l’autore di tutti i cambiamenti che caratterizzano quest’epoca. E’ una provocazione per sottolineare come tutto avvenga per merito (o a causa) dell’essere umano. Abbiamo addomesticato il pianeta, conquistandolo. Abbiamo modificato l’ambiente in cui viviamo, creando le città a nostra misura e modificando le speci animali e vegetali in modo a noi utile.
[Una nota a margine: Ma voi lo sapevate che misurando la biomassa dei grandi animali si scopre che gli animali selvatici cubano per 100 milioni di tonnellate, noi esseri umani valiamo 300 milioni di tonnellate e gli animali domestici ben 700 milioni di tonnellate?]
Nulla aveva mai impattato così drasticamente sulla Terra. Se anche un vulcano eruttasse, o un terremoto gigantesco distruggesse un’area vastissima o persino un meteorite colpisse un continente, la vastità degli effetti sarebbe nulla paragonandola ai cambiamenti che l’uomo, che ha colonizzato tutte le terre emerse, provoca a livello globale. I vantaggi e gli svantaggi della globalizzazione sono sotto gli occhi di tutti. L’incredibile rapidità di diffusione del Covid 19 è uno di questi.
Il tema del rapporto Uomo/Natura è uno di quelli che mi sono più cari. E’ ingenuo pensare che si possa tornare indietro: non siamo in grado di ricreare quello che abbiamo distrutto o modificato. Ma c’è ancora spazio per i singoli individui per comportarsi in un modo diverso, più rispettoso, nei confronti della Terra. E questa scelta permette a chi la compie di vivere meglio, più consapevolmente, la propria esistenza. Sono così convinto di ciò da aver cambiato la mia vita in questo senso.
Osservando quello che accade in queste settimane nei centri urbani, attraverso la televisione, i racconti degli amici, persino le pubblicità, viene da pensare che la gente stia impazzendo. Non nel senso che fanno cose da matti, ma che faticano a gestire lo stress.
Il Corona Virus ci ha spinto fuori dalla nostra comfort zone, minando le nostre sicurezze.
Pensavamo di esser pronti a fronteggiare qualsiasi malattia, ed ecco che un’influenza aggressiva e velocissima, cambia in modo drastico le nostre esistenze. Ci obbliga a stare a casa; ci rende più poveri; fa tremare il sistema sanitario. E noi scopriamo di non essere in grado di gestire tutto questo.
Chi vive a contatto con la Natura, seguendo le sue regole, invece, subisce meno questo stress. Probabilmente perché c’è l’abitudine a non avere il controllo su tutto, i ritmi di vita sono comandati da fattori esterni. Prendiamo ad esempio un orto: si semina dopo l’ultima nevicata (sperando di non sbagliare perché altrimenti si deve buttare tutto e ricominciare), si bagna se non piove, si strappano le piante che invadono il terreno che hai dissodato, si spera nel sole per raccogliere e via dicendo. I cicli naturali delle stagioni, poi, sono un manifesto alla continuità della vita. Potete indicare un messaggio più ottimista?
Tutto questo viene moltiplicato se si vive in montagna, dove gli imprevisti sono la norma, dove contare su te stesso come individuo e non sull’aiuto esterno è l’unica garanzia di sicurezza, dove anche la fatica è parte della vita.
Ecco quindi la mia proposta. Tra poche settimane saremo a giugno ed inizierà l’estate, proprio in concomitanza con il probabile allentamento delle maglie dell’isolamento. Dovremmo aprire le nostre case alla gente che viene dalle città. Dovremmo invitarli a vivere come viviamo noi. Restituirebbe un punto di vista più equilibrato e naturale sul mondo e magari tornerebbero a casa con un atteggiamento diverso nei rispetti del pianeta.
Anche chi ci governa, qui in Valle d’Aosta, dovrebbe seguire l’esempio di altre regioni montane e mandare un messaggio chiaro. Venite a trovarci e scoprirete dei valori fondanti della vita che tra cemento ed aria condizionata avete perso di vista. Sarebbe importante per l’economia della valle e rimetterebbe la natura ancora incontaminata che ci circonda al centro della nostra proposta turistica.
Evitare il turismo di massa (in rispetto al social distancing) e privilegiare i piccoli gruppi familiari. Ritornare alla lentezza dei ritmi naturali allontanandosi dalla frenesia dei tempi moderni. Assaporare i cibi semplici dei posti che attraversiamo dimenticando i prodotti artificiali od esotici. Rivitalizzare il proprio corpo con attività motorie e riscoprire quello che sappiamo e possiamo fare.
Insomma, usiamo quest’opportunità per cambiare in meglio. Accettiamo il cambiamento che ci è stato imposto e ripartiamo da esso. In fondo cosa abbiamo da perdere?
Il confine ci sfida ad andare oltre per conoscere meglio chi siamo e chi potremmo essere
Tutti parlano di autoisolamento e quarantena, così mi sono venuti in mente due provvedimenti simili ma opposti: il confino e l’esilio. Entrambi hanno a che fare con la libertà di movimento, ma il secondo consiste nell’impedirti di frequentare un certo posto (ad esempio l’esilio dall’Italia della famiglia Savoia) mentre il primo è una forma di prigionia in senso lato (divieto di abbandonare una città, una regione, una nazione).
In questo periodo siamo confinati nelle nostre case per la maggior parte del tempo, salvo poter uscire dall’abitazione, ma senza lasciare il territorio comunale, per alcuni specifici motivi. Tutte le polemiche sull’attività sportiva, sulle passeggiate dei bambini, sui supermarket più o meno affollati, vertono sulla larghezza di questi confini entro i quali, mi si perdoni il gioco di parole, noi siamo confinati.
Eppure a me il confine ha sempre fatto l’effetto opposto. Non riesco a vedere un confine come qualcosa di diverso da un’opportunità, una sfida ad un mondo nuovo da conoscere.
Ho trascorso una grande parte della mia adolescenza a Trieste, una delle città di confine per antonomasia. Infilata in quell’angolo d’Italia a Nord Est, tra Slovenia ed Austria, con una parte della popolazione che parla lo sloveno come madre lingua, città a vocazione marinara dal cui porto si dipartivano le rotte per l’oriente, ha nel suo dna l’essere poliedrica. Si parla l’italiano, anche se il dialetto la fa da padrone, lo sloveno, il tedesco e – ovviamente – l’inglese. Si prega in chiese cattoliche, greco ortodosse, serbo ortdosse, anglicane, valdesi oltre, naturalmente, la sinagoga e la moschea. E’ fatta di contrasti: ruvida al limite del grezzo, vanta il maggior numero di librerie e teatri rispetto alla popolazione; terra di passaggio ha accolto illustri scienziati e letterati grazie all’osservatorio astronomico, all’acceleratore di particelle, al centro internazionale di fisica teorica. Per me che ci sono cresciuto e che ne sono stato formato, il confine è sempre stato sinonimo di dualismo, di coesistenza pacifica tra mondi affini ma diversi. E questo modo di essere mi è stato inoculato sotto pelle, come un virus.
Così ho sempre vissuto alla ricerca di quel confine, di quelle differenze con gli altri che mi completavano.
La vita e le mie scelte, mi hanno portato a traversare tutta l’Italia in senso trasversale, dal Nord Est al Nord Ovest e oggi vivo in Valle d’Aosta. Di nuovo sul confine…
Ma questa volta il confine che ho scelto non è tra l’Italia e la Francia o la Svizzera (pur essendo innegabilmente ai bordi del nostro Paese). Ho scelto un piccolo villaggio di mezza montagna (1.000 metri sul livello del mare); una casa ai bordi dell’abitato cosicchè posso uscire dal cancelletto del mio giardino, attraversare la strada asfaltata, ed entrare nel bosco. Da lì posso salire le montagne senza più dover passare attraverso paesi, quasi senza vedere più le strade asfaltate.
E’ il mio nuovo confine. Il limite tra il mondo urbanizzato e quello ancora selvaggio.
Ho sempre amato viaggiare. Probabilmente proprio alla ricerca di quelle diversità che una vita al confine mi aveva insegnato a conoscere. E il mio viaggio continua. Copro distanze molto più brevi e lo faccio a piedi e non più con l’aereoplano. Sto cercando le nostre radici, quelle che l’uomo moderno sta dimenticando, sommerse da tecnologia e comodità. Abbiamo piegato il mondo alle nostre esigenze, l’abbiamo modellato a misura d’essere umano, ma così facendo abbiamo sacrificato la nostra capacità di adattarci a qualcosa di diverso, abbiamo rinunciato alla capacità di cambiare e quindi di esplorare nuove possibilità.
Il confine è esattamente questo: il limite tra ciò che siamo e quello che potremmo essere. Per il momento io proseguo nel mio viaggio, senza timore di perdere ciò che lascio alle mie spalle, spinto solo dalla curiosità di scoprire cosa ci sia oltre…
Le carte geografiche vere e mentali e il piacere di ripercorrere i sentieri
C’è un’esperienza, piuttosto comune per chi va per monti, per la quale provo un fascino assoluto. Se non è il principale motivo per il quale amo andare lungo i sentieri, è certamente il principio a cui mi ispiro nella scelta dei percorsi.
Parto da lontano. La mia testa funziona in modo bizzarro: sono capace di perdermi al volante della mia auto, ma ogni metro che faccio a piedi lascia una traccia indelebile nelle mie sinapsi. E ogni traccia va a comporre un’accurata mappa generale con la quale mi oriento.
Le tracce nel mio cervello sono molto particolari e molto dettagliate: so che salendo un sentiero incontrerò un albero torto o che poco dopo la curva, appena oltre il rudere della stalla, ci sarà una fonte d’acqua. E a rendere vivido il particolare, a fissarlo in modo permanente nella mia testa, ci sono i ricordi personali (qui mi sono fermato a mangiare, qui ho visto quel gruppo di stambecchi, qui mi sono sdraiato a prendere il sole) e le emozioni (il vento sul viso quel giorno con le nuvole, la paura di dover tornare indietro, la soddisfazione di una vetta).
Così la sensazione che più amo è quando un pezzo di sentiero si congiunge ad un altro pezzo, e la mia mappa si allarga, delle aree grigie diventano vivide. Quel piccolo click mentale della tessera del puzzle che va al suo posto.
Amo le carte geografiche, le mappe dei sentieri, le studio prima dell’escursione e le riguardo dopo. Collego ogni simbolo grafico ai miei ricordi. Così spesso mi basta scorrere il dito su una vecchia cartina per rivivere dei bellissimi istanti.
Nelle giornate di pioggia o in questi giorni di autoisolamento, è bello passare un pomeriggio in compagnia di queste vecchie amiche.
Poi ci sono gli atlanti stradali. Carte pensate per chi viaggia in automobile. Grosse linee che balzano fuori dalla carta e annullano i particolari. Paesi che diventano puntini, ponti che sono un tratteggio, montagne appiattite e fiumi trasformati in linee sottili e quasi invisibili. Un po’ quello che succede quando viaggi in autostrada e la velocità rende sfocato il paesaggio, annulla odori e suoni, confonde i colori.
Ed ecco che torniamo al punto di partenza. Nulla mi dà più soddisfazione di quando, valicando un colle e scendendo al paese di fondo valle, realizzo che a piedi ho fatto molta meno strada che gli altri in automobile. E’ la vendetta di Davide su Golia, la rivincita dei poveri, ma mi riempie il cuore di orgoglio.
Potete immaginare la Valle d’Aosta come una lisca di pesce. Dalla valle centrale dove scorre la Dora, si dipartono numerose valle laterali. Per congiungere il paese in testa ad una valle laterale con il suo omologo nella valle parallela, le strade asfaltate ridiscendono fino alla valle centrale.
Noi no. Noi balziamo di colle in colle, di paese in paese, senza mai deviare dall’obbiettivo.
Questo prendere la distanza dall’asfalto, il ricercare uno spazio ancora selvaggio, un cammino a misura d’uomo e non di veicolo, è il mio Sacro Graal.
Le due Alte Vie che cingono la Valle (il percorso del Tor des Géants per i trailers) sono un perfetto esempio di tutto ciò. Ma ce ne sono molte altre: i percorsi dei ru (i canali disegnati dall’uomo per portare acqua ai campi), le vie che congiungono le valli, e quelle che io chiamo concatenazioni (rubando il termine all’alpinismo) linee immaginarie che mettono insieme luoghi a me cari o, più semplicemente, le case degli amici alla mia.
In questo inverno strano, sto percorrendo a tratti il Cammino Balteo, che pecca forse di essere troppo vicino alla valle centrale e all’autostrada che la percorre, ma in cambio regale scorci particolarissimi e piccole gemme dimenticate.
Ma di questo bisognerà parlarne in un altro momento…
Le prime volte che sono venuto in Valle d’Aosta cercando una casa dove potermi trasferire, mi avevano parlato del versante envers (che si pronuncia alla francese anvèrs) e di quello adret (che si pronuncia adrè). In pratica sono i due lati della valle centrale, quello posto alla sinistra orografica è quello adret (letteralmente dritto o diretto) mentre quello dall’altra parte del fiume Dora è l’envers (letteralmente inverso).
Chi vende case magnifica appezzamenti ed edifici costruiti all’adret, spiegando che il sole illumina quel versante della Valle. Cosa che per uno che veniva dalla pianura, dove tutto è illuminato nello stesso modo, non aveva alcun senso.
Negli anni seguenti, a cena tra amici, mi capitava spesso che, magari prendendosi in giro, i valdostani si dividessero tra quelli dell’envers e quelli dell’adret. I primi erano considerati dai secondi un po’ strani, più “tardi” degli altri, a causa della mancata esposizione al sole. Le frasi si concludevano spesso con un “che cosa ne vuoi capire tu che vedi il sole per tre mesi all’anno” e via dicendo.
Vivendo all’adret, non mi ero mai posto il problema. Anzi, l’estate quando andavo per sentieri all’envers, notavo che non c’era questa grande differenza.
Poi un giorno d’inverno ho capito. E la mia visione del mondo inverso è cambiata.
Sui monti era scesa la neve, ma a bassa quota (il letto della Dora è intorno ai 500 mt sul livello del mare) non ce n’era proprio. Eppure, risalendo lungo la statale da Saint Vincent verso Morgex, i campi e i pascoli a sinistra erano bianchissimi; un osservatore superficiale avrebbe potuto pensare che lì fosse nevicato, ma sembrava strano che ci fosse neve sul fondo valle e niente sulle pendici…
La sera sono dovuto passare per un paese all’envers e così ho proseguito da quel lato e subito mi sono reso conto di un fenomeno particolare. L’umidità dell’aria (dovuta alla presenza della Dora) e il minor irradiamento solare (con le montagne che schermavano il sole) facevano sì che si formassero delle concrezioni ghiacciate in tutto e per tutto simili ai cristalli minerali.
Uno spettacolo strano e meraviglioso, tanto da fermarmi a fare qualche scatto con il telefono.
Da quando vivo qui non finisco di stupirmi dei fenomeni naturali che prima in città restavano nascosti. Cose semplici, come il percepire il cambio delle stagioni, o il modificarsi della terra nelle varie ore del giorno. Come il canto del vento al mattino tra le fronde o l’arrivo dell’autunno annunciato dalle danze delle foglie nel cielo.
Ovviamente vale per me. Magari altri noterebbero il freddo o la scomodità del negozio distante, ma ogni giorno che passa sono più felice di aver scelto di vivere in un luogo dove la natura detta ancora legge.
Come ogni seconda domenica di Settembre, un migliaio di trailer appassionati si danno appuntamento a Courmayeur per compiere il periplo della Valle d’Aosta lungo le due Alte Vie [per chi non lo sapesse sono 330km e 24.000 mt di dislivello positivo da percorrere, senza soste, in 150 ore di tempo massimo NdA]
Questa è la decima edizione (quindi il TorX) e viene festeggiato in modo epico, aggiungendo alle due gare classiche (Tor des Géants e Tot Dret) due nuove prove. Una, il Passage au Malatrà, è fatta apposta per i “vorrei ma non posso”, chi non ha nelle gambe la distanza ma vuole “assaggiare” il clima Tor. 30 km e 2300 mt D+, gli ultimi 30 del TdG, quelli caratterizzati dal mitico passaggio al col Malatrà, appunto.
Ma la seconda gara è quella davvero leggendaria, al limite del possibile. Si chiama Tor des Glacier (il Glas, per gli addetti), percorre le due Alte Vie dimenticate (la 3 e la 4), passa a filo ai ghiacciai, è lungo 450km e sale per 34.000 mt. E come se non bastasse, non è segnato e si fa in semi autonomia.
Venerdì sera ero a Courmayeur a veder partire questi 100 coraggiosi, scelti tra i finisher delle passate edizioni. Una partenza da brividi, non fosse altro perché il meteo era volto al brutto e la temperatura scesa di parecchi gradi. Loro si apprestavano a partire nella notte, con il cielo coperto da nubi e avvisaglie di neve sui colli alti.
Sono in gara, in questo momento, hanno passato tre notti all’addiaccio e stanno ancora viaggiando, sui confini della leggenda (nessuno l’ha mai fatto e non è ancora certo che il prossimo anno il Glas si farà di nuovo).
Ma torniamo al Tor des Génts. Ieri mattina sono salito verso il ristoro all’alpe Youlaz, sotto il primo colle.
Salendo l’aria si è via via raffreddata e ad un paio di centiaia di metri sotto il ristoro, ha iniziato a nevicare.
Già, a nevicare. Non i fiocchi larghi e morbidi della neve invernale, quelli pungenti e duri, a metà tra grandine e neve. E pensavo al resto d’Italia, dove l’estate è agli sgoccioli. Mi sembrava quasi di essere su un altro pianeta.
Arrivato al ristoro ho osservato il vallone da cui sarebbe a breve scesi i concorrenti del Tor. Era imbiancato e magico. Certo una prova di accesso non banale per i concorrenti di questa edizione.
Arrivavano segnati in volto, con il cappello coperto di neve, le giacche svolazzanti nel vento, concentrati sulla loro gara. Mangiavano un boccone, dicevano due parole, salutavano gli amici e ripartivano.
Un’edizione davvero segnata da toni di straordinarietà, quasi epici.
Da ieri sera, ovviamente, passo regolarmente nel sito del Tor per verificare la situazione dei tanti amici in gara. E’ una droga di cui mi libererò solo sabato prossimo quando, anche per quest’anno, tutto sarà finito.
Per un fortunato caso del destino, da quando vivo in Valle d’Aosta, ogni volta che vengo a Milano dalla finestra dell’ufficio riesco a vedere le montagne.
Oggi no. E c’è una nuova sensazione che mi opprime l’anima. Quasi un senso di claustrofobia.
Così ho deciso di andare a correre. Per sentirmi libero…
Domenica si corre la Milano Marathon. Ed io, nel mio piccolo, correrò una frazione di una staffetta per Emergency.
E’ record di iscritti: 3.700 staffette che si aggiungono agli oltre 7.000 maratoneti. Sono curioso di vedere come reagirò in mezzo a tanta gente.
Magari ci sarà di nuovo quel senso di claustrofobia.
In effetti quello che mi ha spinto verso il trail, la corsa in Natura, è stato il senso di libertà che mi dava correre senza essere costretto in percorsi definiti; correre in solitudine o in piccoli numeri.
Però ci sono dei lati negativi di questa visione romantica della corsa.
Nelle ultime settimane ho ripreso ad allenarmi con una certa regolarità (per evitare figuracce drammatiche domenica in gara). Ovviamente alterno uscite a Milano (quando sono in città) con uscite sulla sterrata sotto casa (quando sono in valle).
E ho scoperto che a parità di fatica, a Milano guadagno una quindicina di secondi a chilometro.
Bella scoperta! Direte voi. In montagna non ci sono tratti piani, a Milano fai fatica a trovare le salite. E’ vero, ma a volte abbiamo bisogno di sbatterci il naso per renderci conto delle cose.
Un altro problema, in montagna, è che devi trovare tutta la forza dentro di te. In città, invece, ci sono talmente tante persone a correre che è facile trovare “stimoli esterni”, che sia un runner da raggiungere, un amico che incontri per caso, o solamente la gioia condivisa di correre dove tutti corrono.
A fine corsa sono tornato in ufficio. La nostra prigione quotidiana. E ho apprezzato, una volta di più, quel senso di libertà che la corsa ti regala…
Stamattina, dopo un paio di settimane in cui non riuscivo a farlo, ho indossato i pantaloni da trekking, calzato le scarpe da trail, impugnato i bastoncini e sono uscito.
Proprio sopra casa mia parte un sentiero. Con l’amico Pietro lo avevamo pulito poco tempo fa, poi aveva nevicato, insomma ero curioso di vedere in che situazioni si trovasse.
Volevo poi vedere a che punto erano i lavori di bonifica delle miniere di serpentino, un minerale di amianto tristemente noto per essere il componente base dell’eternit.
Quindi, spinto dall’entusiasmo, sono uscito appena il termometro è salito sopra lo zero e mi sono avviato.
Già da subito ho notato che, nonostante fossi il primo essere umano a passare di lì dopo le recenti nevicate, non ero di certo l’unico essere vivente. Tracce di ogni dimensione e forma seguivano il sentiero.
Gli animali sono furbi, o forse siamo noi uomini che copiamo gli animali quando tracciamo i sentieri. Sta di fatto che decine di animali erano già passati di là.
Si riconosceva l’orma tonda del capriolo, quella più grossa del cinghiale, lo zampino della volpe, quello inconfondibile dei gatti.
Salivo e leggevo il terreno. Ero così preso a seguire le orme, che spesso ero portato fuori traccia, e lo capivo dalle pendenze innaturali cui le mie gambe lunghe e poco agili, rispetto agli animali che mi avevano preceduto, faticavano ad adattarsi.
Sono arrivato sulla piana, dove il vento soffia sempre impetuoso. Oggi ero graziato da una meravigliosa giornata di sole, ma le raffiche avevano disegnato con la neve delle morbide onde in cui affondavo fino al ginocchio.
Ancora in salita. Cercando di indovinare dove passa il sentiero. Ero stupito di come nessuno fosse passato. In fondo ero a poche decine di minuti dal villaggio. Finalmente raggiungo il paese che rappresentava il punto più alto, il gran premio della montagna, e quasi a celebrare l’avvenimento il campanile suonava mezzogiorno.
Ho salutato la chiesetta e mi sono lanciato in discesa. Nelle zone d’ombra, nel bosco, la neve lasciava il passo al ghiaccio. Così i bastoncini aiutavano a mantenere l’equilibrio e, tutto sommato, anche la velocità ne beneficiava.
Mi sono spostato verso ovest, fino a quando ho visto la mia casa, un puntino dall’alto, tutto sulla sinistra. Era il momento di tornare.
Ho imboccato un sentiero che conosco a menadito. Che ho percorso decine di volte, sia di giorno che di notte. E’ stato allora che ho notato che le uniche tracce sul sentiero ero quelle di un grosso cane. Ma nessun animale domestico si avventura in quei boschi senza il padrone.
Da almeno un anno sento storie di lupi che girovagano intorno alle nostre case, ma solo oggi ne ho avuto una prova diretta.
Ho parlato con i miei vicini, loro sono preoccupati per le pecore e gli altri animali. Per loro l’arrivo del lupo è sinonimo di povertà. Di perdita.
Ma io non riesco a non pensare che sono loro i veri re del bosco. Non il maestoso cervo, il cinghiale che ara il terreno, o il goffo tasso.
I lupi, che percorrono decine di chilometri ogni notte per andare a predare un animale debole. I lupi, che vengono dall’Appennino, e sono risaliti fino alla Liguria e da lì lungo le Alpi sono arrivati da noi. I lupi, che solitari o in branco, si muovono come un individuo.
E, pensando a questi miei nuovi vicini, sono arrivato a casa. Felice, una volta di più, che la Natura trovi ancora un suo spazio.