La montagna

Ogni volta che esco per andare in montagna mi chiedo perché sia così importante per me. Alla fine credo si tratti del sentirmi parte della Natura

Ho salito la montagna.
Attraverso il bosco verso la prima croce, dove mi sono fermato a riempirmi gli occhi di paesaggio.

E poi ancora in alto, ma lungo la lama sottile del crinale, sempre ad un passo dal baratro da cui saliva caldo il respiro della parete arroventata dal sole.

Rododenri in boccio e tenere foglie di mirtillo formavano un tappeto verde.
Il sentiero si arrampicava in circonluzioni che spesso lo nascondevano dietro la vegetazione.
Qualche albero secco, testimone e vestigia di un tempo antico e di antiche tempeste, resisteva spoglio lungo la cresta.

Ad ogni salto che superavo, nuove gobbe nascondevano il cielo.
E cresceva la voglia di svelare l’arcano, di giungere lì dove più in alto non avrei potuto.

A sorpresa la vetta è un pianoro.
Verde d’erba e azzurro di cielo.
In lontananza si stagliano le vette amiche, i cui nomi sono ormai entrati nella mia coscienza. La Grivola, l’Emilius, la Becca di Nona.
La valle di Rhemes si svela da quassù, tagliata dal nastro argenteo del fiume che l’ha generata.

Ci fermiamo a bearci delle nostre sensazioni.
Pane, formaggio, una mela, un goccio d’acqua.
Piaceri semplici conditi da una macchia viola di fiori.

fiori viola

All’improvviso il volo alto del gipeto che sfiora il pianoro per scoprire chi si muove sul suo terreno.

Qui è tutto così naturalmente al proprio posto che anch’io mi sento appagato.
Andare o restare?
Nuovi passi mi attirano verso il fondo valle, la casa e l’agognata birra fresca.

Grazie a Riccardo che mi ha fatto conoscere un pezzo della sua “montagna dietro casa”.


Mi sono spesso chiesto cosa mi spingesse (e cosa spingesse tanti altri) a praticare le Terre Alte.
La ricerca di risposte alle domande della vita?
La ricerca delle domande giuste per proseguire nella vita?

O più semplicemente per godere del piacere della fatica e di un paesaggio?
O l’appagamento di raggiungere un obbiettivo (la vetta, il rifugio, il colle)?

Ma nessuno dei motivi che ho elencato mi soddisfa.
Se fosse una specifica ragione, una volta ottenuta/raggiunta smetteremmo di praticare la montagna.

Invece io ci torno.
Giorno dopo giorno.
Anche nello stesso posto, sugli stessi sentieri.

Non posso farci nulla. Se sono in montagna sto meglio, mi sento più a mio agio.
Ci sono illusioni della gioventù che so essere fiammate di vita, brevi ed intense.
Il grande amore, il successo, la notorietà, la felicità.
Ho smesso di inseguirle, preferendo le sorelle minori.
Una relazione appagante, la soddisfazione di fare bene una cosa, pochi amici, la serenità.

Salire la montagna per me è parte integrante del vivere sereno.
A Plan Cou, steso sull’erba, osservando il volo del gipeto, ero perfettamente sereno.
Integrato in una natura più ampia. Che tutto comprende.
Piccoli piaceri, piccole gioie, non desidero altro.

Una coperta di neve

Il nuovo libro di Enrico Camanni e un avvincente giallo ambientato intorno al Monte Bianco. Protagonista la guida Nanni Settembrini e un’alpinista…

Una coperta di Neve

Mi è oggettivamente difficile non avere un pregiudizio. Enrico Camanni, l’autore di questo giallo, è uno dei miei punti di riferimento per quanto riguarda la storia della montagna e dell’alpinismo. Giornalista e scrittore, è una di quelle voci che seguo regolarmente, sia attraverso la carta stampata che nelle conferenze pubbliche.

Paradossalmente ne ho apprezzato le capacità di romanziere in tutti i molti saggi che ho letto (cito a campione La guerra di Joseph e lo stesso Alpi ribelli), la sua scrittura – senza scivolare nell’epico – riesce a trasformare la Storia in un racconto.

Avevo letto, molto tempo fa, il primo romanzo in cui appariva lo stesso protagonista (La sciatrice, Vivalda Editore, 2006) mi era piaciuto ma non mi aveva lasciato un ricordo profondo, anche perché in quel periodo cercavo storie vere di montagna e non storie di fantasia.

Invece sono incappato in questo giallo nel momento perfetto: stavo leggendo parecchi saggi e avevo voglia di una lettura che mi distraesse.

In breve la storia: Nanni Settembrini è una guida alpina che vive in Valle d’Aosta ed è capo del locale Soccorso Alpino. In questo suo ruolo, viene coinvolto in un intervento a seguito di una valanga che travolge un’alpinista.

I soccorritori riescono ad estrarla ancora viva (seppur incosciente) e la caricano sull’elicottero in direzione dell’ospedale. Ma quando continuano le ricerche seguendo la corda cui era legata, arrivano ad un capo libero senza trovare il compagno.

L’alpinista si sveglia dal coma ma non ricorda più nulla, lasciando il dubbio se fosse sola o meno sul ghiacciaio.

Toccherà a Settembrini, insieme ad una psichiatra incontrata sul luogo dell’incidente (lei e il compagno avevano allertato i soccorsi) ricostruire l’intera vicenda.

Non aggiungo altri particolari del plot per non togliere la suspance alla storia. Ma mi piace segnalare che il romanzo è ambientato intorno al Monte Bianco, si parla di montagna con una proprietà ed una conoscenza davvero rara (e non potevo aspettarmi nulla di diverso da uno scrittore/alpinista come Camanni) ma soprattutto che non si parla di sola montagna.

C’è molta vita in questo “Una coperta di neve”. La storia di Settembrini e il suo passato che torna prepotentemente alla luce. I suoi problemi di uomo divorziato con due figlie molto diverse.

A ben pensarci è un libro tutto al femminile: due figlie, una ex moglie ed una compagna, una madre, un’alpinista vittima dell’incidente, una psichiatra che lo aiuta, un’infermiera burbera che svela il suo lato più umano.

Sembra che Camanni si sia avventurato in esplorazione di una nuova via: quella dell’universo delle donne.

Leggetelo e mi saprete dire…

Una coperta di neve
Enrico Camanni
Mondadori, I gialli
293 pagg. / 16,00 euro

Dopo il Covid 19

Rimettiamo il rapporto con la Natura al centro della proposta turistica.

Sto leggendo un bel saggio di Yuval Noah Harari, si intitola Homo Deus e il sottotitolo è “Breve storia del futuro”.
Fa parte di quel gruppo di libri che avevo acquistato da tempo, avevo appoggiato sul comodino, ed era stato sommerso da nuovi acquisti.
E’ stato pubblicato nel 2015 e scritto prima, ma offre una chiave di lettura davvero stimolante di quello che ci sta capitando in questi giorni.

Non l’ho ancora finito, ma nella prima parte propone di chiamare questa fase storica Antropocene invece che Olocene, asserendo che l’Uomo è stato l’autore di tutti i cambiamenti che caratterizzano quest’epoca. E’ una provocazione per sottolineare come tutto avvenga per merito (o a causa) dell’essere umano.
Abbiamo addomesticato il pianeta, conquistandolo.
Abbiamo modificato l’ambiente in cui viviamo, creando le città a nostra misura e modificando le speci animali e vegetali in modo a noi utile.

[Una nota a margine: Ma voi lo sapevate che misurando la biomassa dei grandi animali si scopre che gli animali selvatici cubano per 100 milioni di tonnellate, noi esseri umani valiamo 300 milioni di tonnellate e gli animali domestici ben 700 milioni di tonnellate?]

Nulla aveva mai impattato così drasticamente sulla Terra.
Se anche un vulcano eruttasse, o un terremoto gigantesco distruggesse un’area vastissima o persino un meteorite colpisse un continente, la vastità degli effetti sarebbe nulla paragonandola ai cambiamenti che l’uomo, che ha colonizzato tutte le terre emerse, provoca a livello globale.
I vantaggi e gli svantaggi della globalizzazione sono sotto gli occhi di tutti.
L’incredibile rapidità di diffusione del Covid 19 è uno di questi.

Il tema del rapporto Uomo/Natura è uno di quelli che mi sono più cari.
E’ ingenuo pensare che si possa tornare indietro: non siamo in grado di ricreare quello che abbiamo distrutto o modificato.
Ma c’è ancora spazio per i singoli individui per comportarsi in un modo diverso, più rispettoso, nei confronti della Terra.
E questa scelta permette a chi la compie di vivere meglio, più consapevolmente, la propria esistenza.
Sono così convinto di ciò da aver cambiato la mia vita in questo senso.

Osservando quello che accade in queste settimane nei centri urbani, attraverso la televisione, i racconti degli amici, persino le pubblicità, viene da pensare che la gente stia impazzendo.
Non nel senso che fanno cose da matti, ma che faticano a gestire lo stress.

Il Corona Virus ci ha spinto fuori dalla nostra comfort zone, minando le nostre sicurezze.

Pensavamo di esser pronti a fronteggiare qualsiasi malattia, ed ecco che un’influenza aggressiva e velocissima, cambia in modo drastico le nostre esistenze. Ci obbliga a stare a casa; ci rende più poveri; fa tremare il sistema sanitario.
E noi scopriamo di non essere in grado di gestire tutto questo.

rifugio Alpenzu
L’arrivo al rifugio Alpenzu (foto tratta da inalto.org)

Chi vive a contatto con la Natura, seguendo le sue regole, invece, subisce meno questo stress.
Probabilmente perché c’è l’abitudine a non avere il controllo su tutto, i ritmi di vita sono comandati da fattori esterni.
Prendiamo ad esempio un orto: si semina dopo l’ultima nevicata (sperando di non sbagliare perché altrimenti si deve buttare tutto e ricominciare), si bagna se non piove, si strappano le piante che invadono il terreno che hai dissodato, si spera nel sole per raccogliere e via dicendo.
I cicli naturali delle stagioni, poi, sono un manifesto alla continuità della vita. Potete indicare un messaggio più ottimista?

Tutto questo viene moltiplicato se si vive in montagna, dove gli imprevisti sono la norma, dove contare su te stesso come individuo e non sull’aiuto esterno è l’unica garanzia di sicurezza, dove anche la fatica è parte della vita.

Ecco quindi la mia proposta.
Tra poche settimane saremo a giugno ed inizierà l’estate, proprio in concomitanza con il probabile allentamento delle maglie dell’isolamento.
Dovremmo aprire le nostre case alla gente che viene dalle città.
Dovremmo invitarli a vivere come viviamo noi.
Restituirebbe un punto di vista più equilibrato e naturale sul mondo e magari tornerebbero a casa con un atteggiamento diverso nei rispetti del pianeta.

Anche chi ci governa, qui in Valle d’Aosta, dovrebbe seguire l’esempio di altre regioni montane e mandare un messaggio chiaro.
Venite a trovarci e scoprirete dei valori fondanti della vita che tra cemento ed aria condizionata avete perso di vista.
Sarebbe importante per l’economia della valle e rimetterebbe la natura ancora incontaminata che ci circonda al centro della nostra proposta turistica.

Evitare il turismo di massa (in rispetto al social distancing) e privilegiare i piccoli gruppi familiari.
Ritornare alla lentezza dei ritmi naturali allontanandosi dalla frenesia dei tempi moderni.
Assaporare i cibi semplici dei posti che attraversiamo dimenticando i prodotti artificiali od esotici.
Rivitalizzare il proprio corpo con attività motorie e riscoprire quello che sappiamo e possiamo fare.

Insomma, usiamo quest’opportunità per cambiare in meglio.
Accettiamo il cambiamento che ci è stato imposto e ripartiamo da esso.
In fondo cosa abbiamo da perdere?

Il senso della legge

Di nuovo su diritto di correre e sui limiti imposti dal Corona Virus. Ma non potremmo usare un po’ di buon senso?

Ai tempi in cui studiavo giurisprudenza (prima di mollare l’università e iniziare a lavorare) la materia che più mi aveva affascinato era Filosofia del Diritto.
Mi era piaciuta così tanto che avevo deciso di fare la tesi su un aspetto peculiare: come la legge si adatta al mutare della nostra società.
Come fa una regola scritta negli anni ’50 a valere ancora nel 2020?
Fondamentalmente ci sono due meccanismi: il primo sono i concetti generici (pensate ad esempio al “comune senso del pudore” o la “cura del buon padre di famiglia”) il secondo è la giurisprudenza, cioé l’interpretazione che i magistrati danno alla legge.

Il compito delicato dei tribunali è quello di non attestarsi al senso letterale delle norme ma perseguire la volontà del legislatore (la cosiddetta ratio legis).

Tutto questo mi è venuto in mente commentando il mio post di ieri (che trovate qui) quando parlavo con alcuni amici delle difficoltà che abbiamo in Valle d’Aosta a praticare l’attività sportiva.

posto di blocco dei carabinieri

E’ un problema comune che affligge tutta Italia, ma ovviamente andrebbe contestualizzato.

Se vivo in centro a Milano ed esco a correre andrò al parco e, come me, andranno le decine di altri runners che vivono nei palazzi attorno al mio.
Persino allenarmi sulle scale della mia abitazione potrebbe creare problemi di distanziamento sociale.

Se vivo in un paesino della Valle d’Aosta, è più probabile che incontri qualcuno restando nei 200 metri dalla mia abitazione che imboccando il sentiero dietro casa e inoltrandomi nel bosco.

Ci sono tutta una serie di considerazioni e precisazioni che vanno fatte.

  1. Il mio andar per boschi deve essere solitario e non in gruppo con altri.
  2. La difficoltà tecnica dell’uscita dev’essere minima per non rischiare di finire giù da una parete e dover chiedere l’intervento del Soccorso Alpino.
  3. Devo evitare i luoghi di possibile incontro con altri (niente passaggi per centri abitati ecc)
  4. Devo adottare un comportamento prudente (non allontanarmi troppo, non rischiare di ammalarmi, ecc), persino più prudente del solito.

Ma tutto considerato, mi sembra più sano allontanarmi da casa che girare nei 200 metri.

Dico questo perché in Valle (ma mi dicono anche altrove) ci sono pattuglie della forestale, a piedi, in auto, con elicotteri e droni, che controllano chi va a camminare in montagna.
Non lo trovo sbagliato, se lo scopo è quello di evitare situazioni a rischio.
Ma mi sembrerebbe un inutile perseguimento del senso letterale della norma qualora si cercasse chi sta soltanto beneficiando del vivere in una zona poco abitata.

In questo caso la giurisprudenza non si è ancora formata (norme troppo recenti), ma un gruppo di nove magistrati ha scritto una lettera (qui il link) in cui, parlando da privati cittadini, sostanzialmente chiede una revisione dell’applicazione della regola, una sua interpretazione più vicina alla ratio.

Un paio di giorni prima, in quasi 7.500 persone abbiamo firmato una petizione (qui il link per firmare anche tu) in cui si chiedeva di poter riavere le nostre montagne.

Non scordiamoci che, nonostante il tambureggiante ripetere dei media dell’hastag #stateacasa, non ci viene chiesto di rimanere nella nostra abitazione ma di non avvicinarci ad altri. L’hastag corretto dovrebbe essere #statelontani.
L’epidemia si combatte restando distanti dagli altri (in modo che il virus non si propaghi) ma la malattia si sconfigge con uno stile di vita sano che prevede, tra le altre cose, l’attività fisica.

Non sono qui a sobillare la gente, a proporre di uscire a qualunque costo.
Non voglio fomentare ribellioni e gridare alla violazione del diritto costituzionale di movimento (diritto sancito dalla Costituzione ma che può essere limitato da “maggiori interessi di salute pubblica”).
Vorrei solo che si usasse un po’ più di buon senso.

Un’ultima nota malinconica per i miei amici milanesi.
Mi spiace per voi. Davvero.
Io credo che se correrò quando voi non potete farlo, non sarà una mancanza di rispetto o di solidarietà nei vostri confronti.
Sono cose che capitano: questa volta è andata bene a me, la prossima toccherà a voi.
E speriamo davvero di poter ritornare tutti a correre al più presto.

Dietro un filtro Instagram

Durante il lungo fine settimana di Ognissanti, le nuvole hanno preso d’assedio il mio paese. Mi svegliavo avvolto da una coltre lattiginosa e la sera faceva buio prima di aver visto il cielo.

“Sembra di essere a Milano” mi sono detto.
Ma quando sono sceso a valle a fare la spesa, ho scoperto che si trattava proprio di nuvole, non di nebbia.

La controprova l’ho avuta sabato mattina quando sono uscito a correre.

Mi era sembrato che il cielo si aprisse (traduzione: ero riuscito a scorgere le altre case del paese) così, senza esitare, ho indossato le scarpette e sono partito.

Nei primi chilometri, invece, era proprio come correre nella nebbia.
Fiato corto, come se respirassi acqua, visibilità scarsa (tanto che ad un certo punto del mio solito giro ero incerto su dove fossi arrivato).

Correvo lungo una poderale, con prati alla mia destra e alla mia sinistra, avevo sentito il muggito di una mucca e qualche campanaccio poco prima, ma era l’unica traccia di vita animata attorno a me.

Decido di allungare un po’ e continuo fino a raggiungere la croce al colle, ma anche lì, nonostante si passi un tratto d’asfaltata, nessun segno di presenze umane.

Sconcertato piego a sinistra e decido di ritornare per il bosco.

E lì si compie la magia.

La bambagia bianca attraverso la quale correvo, non riesce a penetrare del tutto i fusti degli alberi, così le nuvole devono manifestarsi per quello che sono e si sfrangiano e si sfilacciano avvolgendo solo in parte le chiome degli alberi.

Se alzo gli occhi continuo a vedere in lontananza il muro bianco, ma è come se la foresta fungesse da scudo.

Foliage autunnale

La luce penetra e crea un effetto strano, quasi come un filtro di instagram. Tutti i colori, forse per il contrasto con il biancore esterno, appaiono più vividi: le foglie dei faggi sono d’oro, quelle dei castagni sono bronzee, e se abbasso lo sguardo verso il sentiero scopro di calpestare una tavolozza che va dal marrone scuro al giallo, passando per tutte le possibili sfumature.

Rincuorato da questa sinfonia di colori accelero il passo per arrivare al più presto sulla piana da dove solitamente scorgo il Monte Bianco, il Monte Zerbion, il Mont Avic e tutte le belle cime a cui ho imparato a dare del tu…

Ma grande è la mia delusione quando, sul limitar del bosco, scopro che ad attendermi c’è di nuovo il velo bianco che tutto copre.

Per ripicca ho allungato ancora, sono arrivato al paese sopra al mio e sono sceso lungo la strada asfaltata, tenendo un ritmo d’altri tempi (in discesa siamo buoni tutti!).

Ma anche qui non c’era traccia d’anima viva (e non scelgo le parole a caso, visto che sono passato proprio accanto al camposanto).

Arrivato a casa, prima di infilarmi sotto la doccia, ho acceso la televisione, tanto per essere sicuro che il mondo non fosse finito…

Cronache da un altro pianeta

Ieri è partito il Tor des Géants.

Come ogni seconda domenica di Settembre, un migliaio di trailer appassionati si danno appuntamento a Courmayeur per compiere il periplo della Valle d’Aosta lungo le due Alte Vie [per chi non lo sapesse sono 330km e 24.000 mt di dislivello positivo da percorrere, senza soste, in 150 ore di tempo massimo NdA]

Questa è la decima edizione (quindi il TorX) e viene festeggiato in modo epico, aggiungendo alle due gare classiche (Tor des Géants e Tot Dret) due nuove prove. Una, il Passage au Malatrà, è fatta apposta per i “vorrei ma non posso”, chi non ha nelle gambe la distanza ma vuole “assaggiare” il clima Tor. 30 km e 2300 mt D+, gli ultimi 30 del TdG, quelli caratterizzati dal mitico passaggio al col Malatrà, appunto.

Ma la seconda gara è quella davvero leggendaria, al limite del possibile. Si chiama Tor des Glacier (il Glas, per gli addetti), percorre le due Alte Vie dimenticate (la 3 e la 4), passa a filo ai ghiacciai, è lungo 450km e sale per 34.000 mt. E come se non bastasse, non è segnato e si fa in semi autonomia.

Venerdì sera ero a Courmayeur a veder partire questi 100 coraggiosi, scelti tra i finisher delle passate edizioni. Una partenza da brividi, non fosse altro perché il meteo era volto al brutto e la temperatura scesa di parecchi gradi. Loro si apprestavano a partire nella notte, con il cielo coperto da nubi e avvisaglie di neve sui colli alti.

Sono in gara, in questo momento, hanno passato tre notti all’addiaccio e stanno ancora viaggiando, sui confini della leggenda (nessuno l’ha mai fatto e non è ancora certo che il prossimo anno il Glas si farà di nuovo).

Ma torniamo al Tor des Génts.
Ieri mattina sono salito verso il ristoro all’alpe Youlaz, sotto il primo colle.

Salendo l’aria si è via via raffreddata e ad un paio di centiaia di metri sotto il ristoro, ha iniziato a nevicare.

Già, a nevicare. Non i fiocchi larghi e morbidi della neve invernale, quelli pungenti e duri, a metà tra grandine e neve. E pensavo al resto d’Italia, dove l’estate è agli sgoccioli. Mi sembrava quasi di essere su un altro pianeta.

Lisa Borzani al Col Arp
Lisa Borzani al col Arp – TdG 2019 (ph Giacomo Buzio – Archivio TdG)

Arrivato al ristoro ho osservato il vallone da cui sarebbe a breve scesi i concorrenti del Tor. Era imbiancato e magico. Certo una prova di accesso non banale per i concorrenti di questa edizione.

Arrivavano segnati in volto, con il cappello coperto di neve, le giacche svolazzanti nel vento, concentrati sulla loro gara. Mangiavano un boccone, dicevano due parole, salutavano gli amici e ripartivano.

Un’edizione davvero segnata da toni di straordinarietà, quasi epici.

Da ieri sera, ovviamente, passo regolarmente nel sito del Tor per verificare la situazione dei tanti amici in gara. E’ una droga di cui mi libererò solo sabato prossimo quando, anche per quest’anno, tutto sarà finito.

Ma sarà una settimana lunghissima…

Le mucche e la condivisione

Intorno a casa mia, come dappertutto in montagna, quando una persona ha un pezzo di terreno e non lo usa per far fieno, lo impresta ad un amico perché ci porti a pascolare le bestie (mucche o pecore che siano).

Il secondo si garantisce cibo gratis agli animali, il primo si trova il terreno senza erbacce e ben concimato (!)

Così da qualche giorno, durante la notte mi fanno compagnia i campanacci di una mezza dozzina di mucche che pascolano placide sotto casa. E al mattino, invece che il gallo è un muggito poderoso che mi tira giù dal letto.

Domenica, invece che alzarmi e fare colazione, ho deciso che sarei uscito a fare una corsetta.

Di solito esco in pausa pranzo o la sera, ma – visto che ero sveglio – ho pensato di inaugurare le uscite mattutine. Erano le 6 e 30 circa, l’aria era fresca, pulita, odorosa di bosco.

Dopo il riscaldamento e un tratto di sterrata, visto che le gambe giravano poco, ho tagliato per un sentiero sul quale da un po’ volevo tornare. Tra grosse rocce e tronchi d’albero, la traccia si insinuava tortuosa nel bosco. C’ero già stato, come detto, ma non ancora quest’anno. Quindi volevo sincerarmi della percorribilità.

Come spesso mi accade, dopo una decina di minuti mi sono distratto completamente ed ho iniziato ad osservare la natura. Specialmente al mattino presto, è facile incrociare degli animali, anche se ad agosto tendono a restare più verso le vette. Comunque ho incrociato una cerva che è fuggita emettendo il suo caratteristico verso così simile al cane, ed un capriolo che mi osservava dai bordi di un pascolo.

Senza quasi accorgermene sono uscito dal bosco e arrivato sulla poderale che porta al paese sopra il mio.

Ho alzato gli occhi e ho visto le cime che sovrastano quella zona, trasformate dal sole che sorgeva. Avevano un colore rosa tenue che regalava loro un fascino speciale, meglio che in qualsiasi altra ora del giorno.

Benedette le mucche che mi aveavno svegliato!

mucca

Mi sono un po’ dispiaciuto di non avere con me il cellulare e non poter scattare una foto. Ma procedendo lungo la strada e riempiendomi gli occhi di quello spettacolo che cambiava di minuto in minuto, mi sono ricreduto. Perché fare una foto quando potevo usare quel tempo per notare i particolari?

Certo avrei potuto aggiungerla a questo post e condividerla con voi.

Ma la verità è che non si sarebbe trattato di vera condivisione.
Avreste dovuto essere lì con me, allora sì avremmo condiviso quell’esperienza.

FaceBook ci ha abituato ad un linguaggio che confonde.

Il “Mi Piace” che non costa niente e che si dà a tutti, anche se poi magari non ci piace poi così tanto.
Il “Condividi” che, di nuovo, è un atto gratuito, che non costa nulla, neppure la fatica di pensare un momento.

Sono ancora legato al significato tradizionale di quei termini.

Mi ricordo come mi tremavano le ginocchia quando ho confessato alla prima ragazza che mi piaceva.
Mi ricordo il profondo senso di gratitudine che avevo provato quando, in un bivacco in cui mi ero dovuto fermare, un vecchio signore aveva condiviso con me (che non avevo nulla) la sua cena.

Sbaglierò, ma stiamo rischiando di annacquare il significato profondo delle cose.

Ho imboccato la discesa e sono arrivato di gran lena alle spalle delle mie amiche mucche suscitando un coro di sdegnati muggiti.

Pane al pane, vino al vino.
Credo sia meglio ritornare lì.

Il re del bosco

Stamattina, dopo un paio di settimane in cui non riuscivo a farlo, ho indossato i pantaloni da trekking, calzato le scarpe da trail, impugnato i bastoncini e sono uscito.

Proprio sopra casa mia parte un sentiero.
Con l’amico Pietro lo avevamo pulito poco tempo fa, poi aveva nevicato, insomma ero curioso di vedere in che situazioni si trovasse.

Volevo poi vedere a che punto erano i lavori di bonifica delle miniere di serpentino, un minerale di amianto tristemente noto per essere il componente base dell’eternit.

Quindi, spinto dall’entusiasmo, sono uscito appena il termometro è salito sopra lo zero e mi sono avviato.

Già da subito ho notato che, nonostante fossi il primo essere umano a passare di lì dopo le recenti nevicate, non ero di certo l’unico essere vivente.
Tracce di ogni dimensione e forma seguivano il sentiero.

Gli animali sono furbi, o forse siamo noi uomini che copiamo gli animali quando tracciamo i sentieri.
Sta di fatto che decine di animali erano già passati di là.

Si riconosceva l’orma tonda del capriolo, quella più grossa del cinghiale, lo zampino della volpe, quello inconfondibile dei gatti.

Salivo e leggevo il terreno.
Ero così preso a seguire le orme, che spesso ero portato fuori traccia, e lo capivo dalle pendenze innaturali cui le mie gambe lunghe e poco agili, rispetto agli animali che mi avevano preceduto, faticavano ad adattarsi.

albero
Un albero d’inverno nella piana d’Ersaz (ph Franz Rossi)

Sono arrivato sulla piana, dove il vento soffia sempre impetuoso.
Oggi ero graziato da una meravigliosa giornata di sole, ma le raffiche avevano disegnato con la neve delle morbide onde in cui affondavo fino al ginocchio.

Ancora in salita. Cercando di indovinare dove passa il sentiero.
Ero stupito di come nessuno fosse passato. In fondo ero a poche decine di minuti dal villaggio.
Finalmente raggiungo il paese che rappresentava il punto più alto, il gran premio della montagna, e quasi a celebrare l’avvenimento il campanile suonava mezzogiorno.

Ho salutato la chiesetta e mi sono lanciato in discesa.
Nelle zone d’ombra, nel bosco, la neve lasciava il passo al ghiaccio.
Così i bastoncini aiutavano a mantenere l’equilibrio e, tutto sommato, anche la velocità ne beneficiava.

Mi sono spostato verso ovest, fino a quando ho visto la mia casa, un puntino dall’alto, tutto sulla sinistra.
Era il momento di tornare.

traccia di lupo

Ho imboccato un sentiero che conosco a menadito.
Che ho percorso decine di volte, sia di giorno che di notte.
E’ stato allora che ho notato che le uniche tracce sul sentiero ero quelle di un grosso cane.
Ma nessun animale domestico si avventura in quei boschi senza il padrone.

Da almeno un anno sento storie di lupi che girovagano intorno alle nostre case, ma solo oggi ne ho avuto una prova diretta.

Ho parlato con i miei vicini, loro sono preoccupati per le pecore e gli altri animali.
Per loro l’arrivo del lupo è sinonimo di povertà. Di perdita.

Ma io non riesco a non pensare che sono loro i veri re del bosco.
Non il maestoso cervo, il cinghiale che ara il terreno, o il goffo tasso.

I lupi, che percorrono decine di chilometri ogni notte per andare a predare un animale debole.
I lupi, che vengono dall’Appennino, e sono risaliti fino alla Liguria e da lì lungo le Alpi sono arrivati da noi.
I lupi, che solitari o in branco, si muovono come un individuo.

E, pensando a questi miei nuovi vicini, sono arrivato a casa.
Felice, una volta di più, che la Natura trovi ancora un suo spazio.

Effetto Tor

Fuori è notte.
Seduto sulla poltrona accanto alla grande finestra osservo il cielo stellato.

“Sono fortunato, il bollettino meteo promette bello per i prossimi giorni” penso “almeno i primi colli non li farò con l’acqua ed il freddo”

E’ l’Effetto Tor.

Tutto, ormai da qualche settimana, è catalizzato dall’appuntamento di domenica mattina.
Tutto viene interpretato e filtrato attraverso le lenti distorcenti di questa gara-evento.

La mente si inerpica in ipotesi e previsioni; il cuore si proietta verso i colli che ricordo come se ci fossi passato ieri.
Sono completamente preso.

Non so perché avvenga.
Probabilmente perché, via via che ci si avvicina, si tende a non riuscire più a vedere la sfida nella sua interezza. Un po’ come quando, per osservare un edificio molto alto, sei costetto a fare un passo indietro.

Eppure il Tor des Geànts lo conosco bene.
Conosco il suo fascino segreto, e credevo di esserne ormai immune.

Una notte al Tor des Geants: Col Champillon edizione 2014 (ph. Enrico Romanzi - Archivio TdG)
Una notte al Tor des Geants: Col Champillon edizione 2014 (ph. Enrico Romanzi – Archivio TdG)

Il Tor è il regno della semplificazione.

Devi solo partire e camminare.
Abbandonando dietro a te, insieme agli oggetti superflui, anche tutti i pensieri e le preoccupazioni.

Camminare.
Salire e scendere i colli.
Mangiare, bere.
Quando sei stanco riposare.
Ma poco, perché c’è il sentiero che ti chiama.

Cosa c’è di più semplice di questo.

A me, uomo di azienda, cui viene richiesto di essere multitasking, di assumere decisioni e responsabilità ogni minuto, di avere risposte lineari a problemi complessi e soluzioni sorprendenti per imprevisti dell’ultimo minuto.

A me, uomo di famiglia, cui viene richiesto di essere presente ed efficace, ma rispettoso dell’indipendenza altrui.

A me, uomo di città, abituato a piegare gli eventi naturali con un semplice tasto di un telecomando o con un interruttore.

A me, dio delle situazioni complesse, spaventa la sfida di questa semplicità estrema.

Domenica (ormai tra poche ore) si parte.
Sarà un viaggio dalla durata incerta (potrei non riuscire a passare il cancello della prima base vita) ma della cui intensità non ho dubbi.

Questo è l’ultimo post sul blog fino a quando sarò ritornato a casa.
Posterò qualche foto su Instagram o magari qualche Tweet.
Ma la prossima volta che racconterò qualcosa sarà già venata dal rimpianto dell’esperienza finita.

Questo è l’Effetto Tor.
Un’esperienza totalizzante che non ti lascia tregua.

E adesso è meglio che vada a dormire, perché nella prossima settimana potrò farlo per solo qualche ora.

Post Scriptum: Aggiungo qualche nota per chi non sapesse cosa sia il Tor des Geants (chi lo conosce può saltare).

Si tratta di un trail lungo 330km e con un dislivello positivo di 24mila metri.
Si svolge lungo le due Alte Vie della Valle d’Aosta, valica colli oltre i 3.000 metri di quota e ha un tempo massimo di 150 ore (sei giorni e sei ore).

Si corre senza soluzione di continuità.
I primi dormono pochissimo per vincere.
Gli ultimi dormono pochissimo per arrivare nel tempo massimo.
In tutto si dormono tra le 10 e le 15 ore in sei giorni e sei notti.

Porti con te uno zaino con tutto il fabbisogno per passare da una base vita all’altra.
Le basi vita (sei in tutto) sono delle stazioni poste a fondo valle dove i concorrenti trovano cibo, assistenza medica, docce, letti per dormire e soprattutto un borsone con dentro abiti di ricambio e oggetti personali.

Si corre con qualsiasi tempo (salvo non vi sia pericolo per i concorrenti). Pioggia, nebbia, freddo.
Chi arriva in fondo (di solito circa il 60% dei partenti) viene ricompensato con una giacca con scritto Finisher.
Il premio più ambito per ogni trailer.

Un dolce Tor-mento

Si riparte.
Ho passato un bel mese rilassante andando per monti, anche se un appuntamento incombente mi ha un po’ tolto la serenità del viaggiare per viaggiare.
Mi riferisco a domenica prossima quando sarò di nuovo alla partenza del Tor des Geànts.

Ne ho parlato così tanto (e tanto ne hanno parlato gli altri) che mi sembra perfino inutile spiegare di che cosa si tratti.
E’ un ultratrail ed è una gara.
Il percorso è spettacolare: concatena le due Alte Vie della Valle d’Aosta, si parte da Courmayeur e lì si ritorna dopo aver percorso 330 km e salito 24.000 metri di dislivello positivo. Il tutto nel tempo massimo di 150 ore (sei giorni e sei ore).
Si chiama Tor des Geànts, che in patois significa Giro dei Giganti, perché tocca alcune delle più belle cime d’Europa: il Monte Bianco, il Monte Rosa, il Cervino, il Gran Paradiso per citare solo quelli più noti.

E’ una gara speciale, che ho nel cuore.
Ma quest’anno, un po’ per incoscienza, un po’ perché ho saputo solo all’ultimo minuto che avrei partecipato, non l’ho preparata a sufficienza.

Quindi adesso sono qui, a sette giorni dal via, a preoccuparmi mentre leggo i cancelli orari, i dislivelli e – ahimé – i riscontri dei miei ultimi allenamenti. Troppo lento a salire. Troppo corte le uscite. Troppo poche le ore totali spese a vagar per monti.

Allo stesso tempo, però, mi ha preso un’incredibile euforia.
Leggere i nomi dei luoghi che conosco così bene (ho partecipato a tre Tor e percorso quei sentieri almeno il doppio delle volte) mi sta facendo rivivere tutte le emozioni di quelle partecipazioni.

Alla partenza del Tor des Geànts 2013
Alla partenza del Tor des Geànts 2013

Perché il Tor des Geànts è soprattutto questo: un flusso continuo di emozioni che sovrasta la fatica, il sonno, il dolore.
La testa mi dice che non sono pronto, il cuore mi dice che non vedo l’ora di schierarmi al via e che vada come vada.

Ho messo in conto di poter non superare il primo cancello alla base vita di Valgrisanche.
Ho detto che sarei felice di arrivare alla seconda base vita a Cogne.
Considererei una vittoria arrivare a Donnas, a metà giro.

Ma sono tutte supposizioni e calcoli.
La verità è che partirò cercando di tirare avanti per tutte le 150 ore della gara.
Il problema, per la prima volta, non sarà il sonno (che è il peggior nemico dei partecipanti) ma la fatica. O meglio la mia scarsa abitudine alla fatica di quest’anno.

La foto mi ritrae alla partenza dell’edizione 2013.
Quel giorno pioveva e le previsioni volgevano al peggio.
Eppure sorrido come un ebete. Come un innamorato.

Questo è il Tor, un tormento ed una passione.
O magari la via che, attraverso il tormento, conduce alla felicità.

Non penso altro che al Tor, in questi giorni.
Quindi preparatevi: tenderò ad essere monotematico per le prossime settimane!