Il viaggiatore

Un breve racconto, ispirato dai miei recenti giri
Come cambiano i luoghi e le persone quando torni in un posto dove sei stato precedentemente?

Un breve racconto, ispirato dai miei recenti giri a piedi (ma esiste davvero un modo diverso di viaggiare?)
Come cambiano i luoghi e le persone quando torni in un posto dove sei stato precedentemente?
Tu magari hai percorso centinaia di chilometri e loro non si sono mossi. Ma questo rende la tua esperienza più ricca?
Una piccola lezione di umiltà che ho imparato.

Entrò nella locanda ed andò a sedersi esattamente nello stesso posto dove si era seduto solo due lune prima: in un angolo della sala buia, con la finestra alla destra e proprio in faccia alla porta d’ingresso.
Era solo nella stanza. Che differenza con la prima volta, quando tutti i tavoli erano occupati da gente di tutte le lingue e aveva dovuto aspettare prima che la giovane ragazza carina (il primo dei due motivi per cui era tornato) lo notasse e gli chiedesse se voleva mangiare o solo bere.

Stasera la situazione era diversa.
Appena seduto venne avvicinato da una donna della sua età.
Il viso segnato dalla vita, i capelli grigi raccolti in un’acconciatura pratica, un corpo ancora magro, temprato dal lavoro.
Scoprì che era la padrona della locanda. Gli chiese se volesse da bere, ma lui rispose che voleva mangiare e passare lì la notte.

Un ragazzino curioso si affacciava dalla porta della cucina ma la donna lo rimandò indietro con poche parole della lingua locale.
Lui parlava la lingua franca, ma non era poi così diversa dal dialetto del posto e, tra i gesti della donna e le mezze parole, capì che il ragazzo doveva aiutarla in cucina.

viaggiatore

Il cibo.
Ecco il secondo motivo per cui era tornato in quella locanda.
Nel suo lungo viaggio che dal mare francese lo aveva portato a cercare nuovi sbocchi commerciali intorno alle ricche città della pianura al di là dei monti, gli aveva fatto incrociare tante persone e tanti cibi cucinati in guise diverse.
Ma la locanda occitana era rimasta saldamente impressa nelle sue papille gustative.

Gli era piaciuta ogni cosa, dalla calda zuppa che gli avevano servito e che, insieme al primo bicchiere di vino rosso, gli aveva scaldato il corpo, fino alla carne succosa, alle patate al forno, al dolce il cui gusto, contrastato dall’amaro di erbe, lo aveva accompagnato nella notte.

Così, un po’ deluso che la bionda giovinetta non ci fosse, disse alla donna che gli portasse quel che c’era, preparandosi in cuor suo alla seconda delusione della giornata.

Mentre attendeva la pietanza, sorseggiando un saporoso vino rosso, si scoperse a pensare a come fosse strana l’esistenza del viaggiatore.
Negli ultimi due mesi, la sua vita era stata frenetica, non aveva mai dormito due notti nello stesso posto, aveva conosciuto persone diverse, visto cose che non avrebbe mai immaginato potessero esistere, scoperto mondi al di là di un colle e città dove pensava esistessero solo boschi.

Dopo la prima visita in primavera, tornava a quella locanda mentre l’autunno già bussava alle porte. Le nubi, che qualche settimana prima fuggivano leggere, oggi erano foriere di pioggia e la prima neve aveva imbiancato le vette.
La sua vita era stata un turbine, senza certezze. E lui per quello era grato al destino che lo aveva forgiato viaggiatore.

Negli stessi due mesi, la donna della locanda si era alzata ogni giorno nello stesso posto ed aveva ripetuto quotidianamente gli stessi gesti.
Certo, alla sua soglia si erano avvicendati decine di stranieri e probabilmente le avevano raccontato storie incredibili.
Ma quelle storie lui le aveva vissute, lei solo ascoltate.

Con questi pensieri e quest’animo quasi di compatimento attendeva, ora, la donna e il cibo.

Dalla cucina riusciva a captare brandelli di conversazioni.
Scoprì che il ragazzo era il nipote e che la donna lo stava istruendo alla difficile arte del far da mangiare.

La cena volò via leggera.
Complice il buon cibo (la sua seconda aspettativa non venne delusa) e la conversazione con la donna.
Così scoprì che forse la giovinetta aveva il fascino della freschezza, ma che a lui piaceva immensamente di più la conversazione con la locandiera.

Non essendoci altri ospiti, lei gli dedicò più tempo e lui – magari mal interpretando quest’attenzione – le dedicò qualche timida avances.
Il dolce fu un trionfo di gusti. Una torta di nocciole che sicuramente venivano dai boschi intorno, accompagnata dal gusto rotondo di un vino rosso maturo.

Si alzò dalla sedia e se ne andò in camera.
Decise di lasciare aperta la porta, cullando la speranza che la donna decidesse di venirlo a trovare.
Mentre si addormentava, pensava ancora a quanta vita lui avesse visto e, per contro, quanto fosse statica e noiosa l’esistenza della locandiera.

Poi – proprio un attimo prima che Morfeo si impadronisse di lui – fu folgorato dalla comprensione di quanto ottusa fosse questa sua visione.
Non ci sono poi così grandi differenze tra chi viaggia in luoghi lontani e chi in profondità nelle cose che fa.
Entrambi scoprono nuovi mondi, entrambi si arricchiscono di esperienze. Entrambi incorrono nello stesso rischio di dimenticare.
Volse un ultimo sguardo all’uscio della stanza che rimaneva desolatamente vuoto.
E per la prima volta provò nostalgia di casa.

Non esistono posti lontani

Finalmente posso parlare di questo libro che ho letto un paio di settimane fa e che da domani sarà in tutte le librerie

Ho avuto la fortuna di leggerlo un paio di settimane fa, quando l’ho ricevuto in anteprima per poterlo presentare durante la rassegna Saint-Vincent Livres, ma dal 9 luglio sarà in tutte le librerie.

non esistono posti lontani

Tutti i libri di Franco Faggiani scorrono veloci come l’acqua di un torrente: la storia si svela pagina dopo pagina, i personaggi appaiono e scompaiono mentre i protagonisti crescono e si fanno amare.

Ogni storia che Franco Faggiani racconta, diventa un viaggio, e alla fine chiudi il libro e già hai nostalgia di quella voce che ti ha tenuto compagnia.

“Non esistono posti lontani” è il terzo romanzo che questo prolifico autore pubblica con Fazi.
Non si tratta di una serie, ma dopo le montagne del Piemonte de “La manutenzione dei sensi” e quelle giapponesi de “Il guardiano della collina dei ciliegi” ero curioso di scoprire su quali montagne l’avrebbe portato la fantasia. E non sono stato deluso…

Al centro della storia c’è di nuovo una coppia improbabile: Filippo Cavalcanti, un professore ed archeologo romano avanti negli anni e Quintino Aragonese, un giovane meccanico trafficone di origini campane. Impareranno a fidarsi l’uno dell’altro e il rispetto diverrà presto amicizia.

Siamo nei mesi finali della seconda guerra mondiale. I tedeschi stanno abbandonando l’Italia spinti dagli Alleati che sono sbarcati ad Anzio, ma vogliono portare con loro in Germania alcune opere d’arte che il regime fascista compiacente ha loro concesso.

All’archeologo, declassato a factotum del Ministero dell’Educazione Nazionale per non aver aderito al Partito, viene dato il compito di lasciare Roma e di andare a Bressanone per controllare che i capolavori fossero imballati con cura.

In lui scatta qualcosa e decide, aiutato dall’improbabile compagno di avventura napoletano, di rubare a sua volta i tesori ai tedeschi e di restituirli all’Italia.

A bordo di un vecchio camion, amorevolmente riparato e manutenuto dal napoletano, scenderanno la penisola lungo la dorsale degli Appennini. Il viaggio sarà denso di emozioni ed incontri e il finale, per nulla scontato, saprà sorprendervi.

Sono molte le sfaccettature appassionanti di “Non esistono posti lontani”.

In primis la figura del protagonista. Filippo Cavalcanti è austero, quasi ingessato, con i piedi ben piantati in un sistema di valori tradizionale e una solida cultura classica. Eppure saprà adattarsi ad un mondo che sta cambiando.

Il rapporto tra Filippo e Quintino nasce sotto un pessimo presupposto, ma si sviluppa rapidamente. Potrebbero essere padre e figlio, ma – pur non comprendendosi a pieno – si rispettano ed imparano l’uno dall’altro.

Infine il bellissimo sfondo a tutta la storia, quei panorami dell’Appennino, i piccoli paesi della Toscana e del Lazio, le figure evocate dall’autore, il pastore, il vecchio abate, il mercante… insomma un mondo antico riportato alla luce per fare da coprotagonista nella storia.

Mi mordo la lingua e mi fermo qui per non rubarvi il piacere di scoprire di più.

Non esistono posti lontani
Franco Faggiani
Fazi Editore, Le strade
285 pagg. / 18,00 euro

La casa cos’è?

Nelle scorse settimane sono stato impegnato a traslocare.
Lunedì scorso ho dormito per l’ultima volta nel mio appartamento di Milano e martedì ho consegnato le chiavi ai nuovi proprietari.

Me ne sono andato. Ho chiuso per l’ultima volta quella porta, senza provare nulla.
Tanto che mi sono chiesto cosa ci fosse che non andava in me.

Ho vissuto in quella casa per 18 anni. Sono stati anni pieni.
Vivevo con la mia famiglia, con due cani, avevo un sacco di cose da fare.
Come ogni vita aveva gli alti e i bassi, ma al setaccio della memoria oggi rimangono soprattutto i bei momenti.

Eppure non ho provato alcun rimpianto uscendo per l’ultima volta da quel portone, lungo il vialetto del giardino, osservando il risvegliarsi delle strade che tante volte ho percorso.

MontBlanc
Il Monte Bianco dalla terrazza della mia casa (ph. Franz Rossi)

Stamattina mi sono svegliato nella mia nuova casa.
O meglio quella che era già la mia casa nei week end e durante le vacanze ma che adesso è diventata la sola casa.
Sono uscito in terrazzo e ho fotografato il Mont Blanc per condividere la vista con voi.

Molti intuiranno il motivo di questa mia scelta.

Eppure di nuovo non mi sento “arrivato”.
Sono soddisfatto di dove sono, è un lunghissimo passo avanti nel mio progetto personale di ricerca della felicità, ma è una tappa.

Io vivo per il viaggio.
Non ho posti dove tornare.
Casa è dove mi fermo la notte.

Ogni traguardo è una nuova linea di partenza.
Qualcuno penserà che è un modo stressante di condurre la propria esistenza.

Ma io solo così mi sento vivo.

#26W26M /4: What’s next?

Quando ho provato a scrivere della trasferta nella Grande Mela, ho scoperto ben presto che avrei avuto bisogno di dividere il racconto a puntate.
Ecco la puntata finale…

What’s next?
L’avventura è finita.
Il progetto #26W26M è concluso.
E adesso?

Ne ho già scritto subito dopo la maratona (clicca qui), alla fine c’è un senso di vuoto che fatichi a riempire.
Niente più tabella, niente più traguardo (fisico e metaforico) da tagliare.
Ci si sente un po’ sperduti.

La società per cui corro si chiama almosthere ASD ed è un prolungamento della almostthere srl che ha organizzato la trasferta a New York.
I due nomi, Almost there (quasi lì) e Almost here (quasi qui), sono stati concepiti proprio durante la New York City Marathon di qualche anno fa.
La gente, tifando, ti urla “C’mon man, you’re almost there” fin dal primo metro della gara.

Vuol dire – mi perdonino quelli che l’inglese lo parlano – “Forza Uomo, ci sei quasi”.
Ma il significato, per noi che vestiamo la maglietta almosthere, cambia parecchio.
Suona quasi come se ci incitassero a non mollare in quanto membri del team (“Forza Uomo, tu sei un almostthere!”)
Brividi extra lungo il percorso…

Però, alla fine, quando in fila stavamo procedendo al ritiro delle sacche, lo stesso mantra ripetuto dai volontari (“Keep moving, you’re almost there” – “Continua a camminare ci sei quasi”) diventava quasi irritante. Il furgone UPS con la mia sacca sembrava irraggiungibile.
Il “there” era un luogo quasi stregato che si allontanava mentre mi ci avvicinavo.

Ecco, a quell’accezione di almost there ho pensato in questa settimana.
Tutto questo mio muovermi dove è diretto?
Quale sarà la prossima tappa del mio viaggio?

Ho sempre pensato che è meglio partire che stare a casa a decidere dove andare.
Anche quando ho girato a caso per il mondo, sono sempre rientrato più ricco.
Persone, luoghi, esperienze.
E non dipende da quanto lontano vai, ma solo da quanto di te stesso lasci a casa.
Come se solo lo spirito vuoto potesse essere riempito.

Franz a New York
Felice dei risultati ottenuti, nella mia stanza all’Empire Hotel, dopo la maratona di New York

La foto finale mi ritrae medaglia al collo, maglietta di Emergency, grattacieli di New York alle mie spalle.
Ed è proprio così.

Sono felice dei due obbiettivi portati a casa: la medaglia e la raccolta fondi per il centro profughi di Arbat
[NdA: mancano 13 euro per superare i tremila euro, datemi l’ultima spinta, cliccate qui!]
Sono felice che lungo le 26 settimane mi sia rimesso in forma: era la condizione minima e necessaria per affrontare la gara.
Ma sono felice anche perché questa ritrovata forma mi permetterà di intraprendere nuove esperienze.

Non so ancora cosa farò.
Probabilmente cercherò i sentieri delle mie amate montagne.
Ma proprio per quello che ho detto prima, non voglio fare progetti.

Al blog non rinuncio.
E’ diventata una piacevole routine (necessaria allo scrittore più che al runner).

Quindi continuate a passare di qua, che di cose di cui chiacchierare ce ne sono sempre…

Post Scriptum: per chi ne avesse voglia, con Alessandro, Ippolito, Matteo e Pierpaolo, i cinque maratoneti del progetto #26W26M, faremo una serata di racconti e festa.
Appuntamento domenica 17 dicembre (alle 18:00) presso Casa Emergency, in via Santa Croce 19 a Milano. Passateci a salutare!

Un sogno ed una promessa

In queste ore io starò correndo la New York City Marathon.
Così ho pensato di farvi compagnia lo stesso con un vecchio pezzo che avevo scritto e che, in qualche modo, si è rivelato profetico…

New York mappa

Il potere evocativo di una cartina stradale

Nel mio ufficio, appesa al muro, c’è una vecchia mappa di New York.
Sono affezionato a quella cartina.
Porta su di sè i segni del tempo e dell’uso.

I colori sono delicati, quasi fosse un acquarello, con le linee forti – verdi, azzurre, rosse ed arancione – della metropolitana che tagliano i quartieri.
Le linee nette delle strade che formano un reticolo geometrico perfetto con i nomi che sono numeri ordinali.
Le aree verde pallido e azzurro chiaro che individuano i parchi cittadini e le acque dell’Hudson e dell’East River.

Nonostante ora sia preservata sotto vetro, si riconoscono ancora le pieghe sulla carta.
Quelle perfette e sottili derivanti dalla piegatura originale e quelle più grezze dovute all’uso.
In un paio di punti, vicino ai bordi, la piega si è trasformata in uno strappo.

Sulla parte destra un doppio cerchio perfetto e marrone indica dove sono state appoggiate due tazze di caffé (Starbucks mi piace credere).
Alcune gocce di caffé sono volate e hanno marchiato alcune zone della cartina. Ma probabilmente era un Cappuccino, oppure il tempo ha fatto la sua magia, e il colore beige chiaro le ha mimetizzate con i colori tenui del resto della mappa.

Non è mia.
Non so neppure con precisione di chi fosse.
L’ho trovata facendo pulizia nel magazzino, scegliendo cosa buttare e cosa tenere.

Era coperta di polvere ma emanava quella dignità tipica delle mappe.
Ogni cartina cela in sè una promessa di avventure.
I nomi evocano immagini di luoghi: stazioni della metro, piazze, stradine.

Specialmente a New York, ogni nome richiama alla mente spezzoni di film, citazioni di libri, immagini famose.
I sobborghi: The Bronx, la celeberrima Manhattan, l’italiana Brooklyn, o i Queens e Staten Island.
Mi basta chiudere gli occhi per rivedere la folle cavalcata notturna dei Guerrieri della notte, le immagini sognanti in bianco e nero di Manhattan di Woody Allen o quelle vibranti di storia della NY anni ’30 di  C’era una volta in America di Sergio Leone.

A New York sono stato solo una volta, per poche ore. In transito al JFK, avevo approfittato di un ritardo del mio volo per salire su un treno e sbucare a Union Station.
Nevicava, io venivo da Dallas ed ero vestito leggero. Ero entrato in uno store ed avevo acquistato un giubbotto dei Knicks.
Avevo vagato per quelle vie enormi, naso all’aria, riconoscendo l’Empire State Building, i cartelloni di Times Square, emozionandomi per il cartello che indicava il Central Park
Poi ero risalito sul treno, avevo passato di corsa il security check all’aeroporto e mi ero addormentato sul sedile con gli occhi pieni delle luci della metropoli.

La mappa mi guarda dalla parete.
E io continuo ad osservarla e a pensare.

E’ un sogno ed una promessa.
Ci sono tante cose da fare ancora nella vita.
Tante opportunità da cogliere…

Forse è il momento di fare di nuovo le valige.

Il rush di endorfine

Come tutti i bravi drogati, anche noi runner abbiamo bisogno di ricevere, con una certa regolarità, la nostra dose.

Siamo dipendenti dalle endorfine, una sostanza prodotta dal nostro corpo in condizioni particolari (ad esempio al termine di uno sforzo fisico intenso o durante l’orgasmo).

Per dirla con parole povere, le endorfine (che regalano una sensazione di stanco appagamento) sono il premio che la Natura ha previsto quando facciamo qualcosa in linea con i suoi progetti su di noi (nel caso del sesso, Madre Natura pensa alla riproduzione della specie; nel caso della fatica, ci premia perché abbiamo messo fine ad uno stress fisico per l’organismo).

Noi runner viviamo alla perenne ricerca della dose di endorfine.
Anche quelli più lenti, quelli che dicono “io corro solo per poter mangiare la pasta senza sensi di colpa”, vi confermeranno che la sensazione di appagamento durante la doccia è il primo premio per aver fatto il loro dovere… la dose di endorfine è arrivata!

gruppo allenamento
Il gruppo di allenamento D41! di almosthere, la mia società sportiva

Ieri avevo un allenamento bello intenso.

Solito riscaldamento lungo, poi un 3000 tirato a ritmo da 10K, 5 x 300 a tutta (per riempire le gambe di acido lattico), un 2000 più veloce del 3000 (per simulare la stanchezza di fine gara).
Alla fine ero molto soddisfatto, le ripetute in pista erano venute regolari e piuttosto veloci, e nel 2000 finale ero riuscito a tenere una velocità maggiore di quanto previsto.

Le endorfine scorrevano a fiumi, non solo sotto la doccia ma anche dopo, quando seduto sul divano mi guardavo un episodio della nuova stagione di Vikings.

Una volta a letto, mi giravo e rigiravo, cercando un po’ di pace per le mie gambe inquiete ed anche stamattina, appena svegliato, avevo quella sensazione di indolenzimento post allenamento tirato che noi tutti conosciamo bene.

E mi sono reso conto che anche questa è una sensazione che bramo, della quale sono dipendente.
Non c’entra la fisiologia o la chimica del corpo umano.
E’ pura psicologia.

Sentire le gambe stanche mi premia perché mi conferma che sto facendo il mio dovere.
Che sto inerpicandomi lungo la scala degli allenamenti verso l’agognata meta.
Che anche ieri ho fatto un passo avanti verso la maratona.

Quando ci poniamo un obbiettivo così sfidante, riusciamo a focalizzarci, a rendere piacevole non solo l’arrivo al traguardo ma anche ogni tappa del viaggio.

Perché New York e tutto il progetto “26 weeks for 26 miles” è un triplice viaggio:
– il viaggio delle 26 settimane di allenamento
– il viaggio a New York
– il viaggio di 42.195 metri tra il Verrazzano Bridge e il Central Park

Ho le gambe pesanti ed il cuore leggero.

E mi piace l’idea di condividere con voi questa sensazione!