La sfida degli ‘anta

Sto per compiere 60 anni e li esorcizzo lanciandomi in una nuova sfida, fuori dalla mia comfort zone: un nuovo libro che contiene mie canzoni

Forse potremmo considerarlo un luogo comune o una leggenda metropolitana, ma tutti noi che abbiamo superato i trent’anni sappiamo bene come, all’avvicinarsi della fatidica cifra che finisce con lo zero, si inizia a pensare all’età che avanza. Siano i 40, i 60 o gli 80, si sente sempre un piccolo brivido correre lungo la schiena mentre nel cervello si forma la classica domanda “E adesso? Cosa ne sarà di me?”

La risposta l’abbiamo intorno a noi. Il mondo è pieno di gente che gioca a tennis, va a ballare, scrive poesie, raggiunge vette, corre maratone e la cui carta d’identità sembra mentire. Eppure non ci fidiamo e siamo così spaventati che ci mettiamo in testa di esorcizzare il Tempo compiendo qualche pazzia che ci faccia sentire giovani: un tatuaggio, la motocicletta, un’avventura sentimentale con un partner più giovane.

Non sono esente da questa malattia.
Per esorcizzare i miei 40 anni ho corso la mia prima maratona.
Per esorcizzare i miei 50 anni ho divorziato.
Ed adesso che si avvicinano i 60 ho deciso di uscire di nuovo dalla mia comfort zone, di lasciare l’alveo nel quale scorreva tranquilla la mia vita e provare a lasciare spazio alla cosa che amo di più: creare cose nuove.

Il mio compleanno è tra un paio di mesi, ma la vera festa la faccio il prossimo 15 ottobre, quando debutterà un nuovo progetto che si chiama Conte dai monti. Si tratta di un libro in cui sono raccolte 12 storie ambientate in montagna. Ogni storia può essere letta e può essere ascoltata su Spotify. Ci sono inoltre tre canzoni che ho scritto e che canto io, supportato da alcuni amici musicisti cui non sarò mai grato abbastanza. E c’è soprattutto Bobo Pernettaz, un grande compagno di viaggio, un pittore o, come preferisco dire io, uno scrittore per immagini.

Nei prossimi giorni o settimane, ne sentirete parlare ancora a lungo. Da me e, spero, da altri.
Ma qui, nel mio blog, volevo raccontarvi il motivo che mi ha spinto a mettermi alla prova di nuovo.

Quando cammino in montagna, scelgo sempre percorsi circolari, per non dover ripetere due volte lo stesso sentiero.
Se posso cerco escursioni diverse. E mi piace tantissimo cercare sentieri che uniscono due luoghi, sentieri che io non conosco ma che immagino esistere.
Ho bisogno di provare nuove strade per sentirmi più vivo, per essere stimolato.

Franz Rossi in studio

Ecco, in questo progetto faccio esattamente lo stesso: mi cimento in cose che non ho provato mai.
Scrivo racconti e non un romanzo intero. Scrivo usando un linguaggio diverso, lasciando più spazio all’immaginazione, mi espongo di più sui temi che mi sono cari.
E poi canto e suono, arti che non padroneggio, ma in cui – complice la pazzia dei 60 anni – ho deciso di cimentarmi pubblicamente.

Mi sono divertito moltissimo a lavorare con Bobo. A creare i paesaggi sonori per le storie che ha scritto lui o mettendo la mia penna al servizio di alcune sue idee. Sono stato molto influenzato e spero di aver lasciato anch’io il segno.

Adesso che la data di uscita è prossima, sento l’entusiasmo lasciare il posto all’emozione. Come un debuttante.
Ed in fondo sono contento anche di questo: tutte queste emozioni, la gola secca prima di salire sul palco, la paura che le parole ti lascino, l’ansia dell’andare in scena, sono solo vita che scorre.

Qui sotto la versione “ascoltabile” di questo post:

Ascolta “La sfida degli anta” su Spreaker.

Questione di parole

Le parole sono gli elementi base per formare il linguaggio che è l’aspetto peculiare dell’essere umano.
Il linguaggio è ciò cha ha permesso all’umanità di progredire e di diventare, di fatto, la razza dominante del pianeta.
Ma non dobbiamo abusarne a discapito della vita vera.

Le parole sono gli elementi base per formare il linguaggio che è l’aspetto peculiare dell’essere umano.
Il linguaggio è ciò che ha permesso all’umanità di progredire e di diventare, di fatto, la razza dominante del pianeta.
Ma non dobbiamo abusarne a discapito della vita vera.

Le cose si fanno, non si raccontano.
C’è una grande confusione sul ruolo delle parole scritte e su come usarle. Qui condivido una mia riflessione personale su come lo voglio fare io.

C’è una frase che, nel tempo, mi è venuta a noia. Dice: “La x_cosa è una metafora della vita”. E al posto della X_cosa potete mettere un soggetto a piacere: la corsa, il golf, la cucina, il ricamo, la falegnameria.

Vale per tutto e ha anche un fondo di verità.

Se dico: “La corsa è una metafora della vita. Come nella vita devi allenarti, perseverare, imparare dai tuoi errori, accettare le sconfitte e restare umile nelle vittorie. E via così”. Suona tutto molto giusto…

Ma in realtà la corsa non è una metafora della vita. È una parte di quel fenomeno complesso e multiforme che chiamiamo vita.

La vita va vissuta, non parafrasata. Contano le azioni, non le parole. O come diceva in modo molto più efficace e colorito Paolo Cevoli interpretando l’Assessore Palmiro Cangini, “Fatti, non pugnette”, ironizzando sulla tendenza alla masturbazione mentale che caratterizza chi vive in un mondo esclusivamente teorico.

paolo cevoli

Torno quindi all’incipit di questo post. Ha senso investire tempo nelle parole?
La mia risposta è un sì forte e chiaro. E adesso ne spiego le ragioni.

Come prima cosa è importante effettuare un distinguo tra i diversi modi di usare le parole.

Se servono a raccontare dei fatti, si tratta di giornalismo.

Se servono a spiegare il perché delle cose, si tratta di istruzione, di scienza o anche di semplice informazione (i manuali della lavatrice che tutti ignoriamo).

Se servono a spiegare delle idee o a propugnarle, si tratta di filosofia, di cultura, di ideologia.

In tutti gli esempi che ho fatto, e l’elenco potrebbe andare avanti a lungo, le parole sono uno strumento, sono ancillari rispetto al loro scopo.

Ma quando le parole vengono messe al centro, allora acquisiscono nuova forza.
Si trasformano da strumento a fine ultimo.

Accade in letteratura. Quando si smette di parlare di realtà e si lascia spazio alla fantasia. È il potere delle parole che diventano storie. Non si rivolgono più alla sfera intellettiva-cognitiva, ma a quella emotiva. Non parlano più al cervello di chi ascolta, ma al suo cuore e alla sua pancia. Generano emozioni, risposte profondamente umane.

Ed invece di spiegare le cose, le creano.

La letteratura è un’arte squisitamente creativa. D’improvviso appare qualcosa dove prima non c’era nulla. Un luogo, una persona, una situazione. Ed è così vera, che noi soffriamo o gioiamo insieme al protagonista.

Le parole sono come una cassetta degli attrezzi a nostra disposizione. Non sono ne’ il bene ne’ il male, dipende da noi l’uso che ne facciamo. Questo ci impone la responsabilità di usarle in modo corretto. Se sto raccontando dei fatti o spiegando un prodotto, non solo ho il dovere morale di dire la verità, ma ho anche il dovere di usare lo strumento appropriato.

Chiedere cosa sta provando ad una madre in lacrime al funerale del suo bambino non è giornalismo. Ma sciacallaggio.

Usare lo storytelling per innalzare artificialmente le aspettative del pubblico sulle caratteristiche di un prodotto non è marketing. Ma truffa.

Posso usare un lanciafiamme per asciugarmi i capelli o per arrostire il mio pollo allo spiedo, ma nel momento che lo faccio divento responsabile delle conseguenze.

Imparare ad usare in modo corretto le parole è un dovere per tutti coloro che di parole campano, ma è anche un impegno che ciascuno di noi dovrebbe prendersi.

Ascolta “Questione di parole” su Spreaker.

I buoni maestri

Nella vita incontriamo persone che sono buoni maestri, persone che ci stimolano a diventare migliori e verso i quali abbiamo un debito immenso.

Oggi, e si capirà meglio in seguito il motivo, mi interrogo su cosa ci ha portato ad essere come siamo.
Ogni uomo è plasmato dal suo bagaglio di esperienze e soprattutto da come si è comportato di fronte ad esse. Ma cos’è che ci ha spinto a reagire in un modo piuttosto che in un altro? Sono convinto che ognuno di noi ha un debito enorme con coloro che ci hanno aiutato a formare la nostra personalità.

Io li chiamo i maestri.

Non è facile riunire sotto una sola categoria persone così diverse.

Ci sono, ovviamente, gli educatori e tutto il complesso sistema di conoscenze che va sotto il nome di scuola. Ma i “maestri” nell’accezione di cui ho appena parlato sono una cosa diversa. Sono persone che con le loro idee e con il loro esempio, hanno dato forma a come sono adesso.

Provo ad uscire dalla teoria ed entrare negli esempi concreti.

Avevo una dozzina d’anni quando la mia strada si incrociò con quella di un vero e proprio mito dello sport triestino: l’allenatore Francesco (ma per tutti, anche per noi suoi giovani atleti, Cesco) Dapiran.
Facevo canottaggio e mi ha insegnato praticamente tutto, dai fondamentali alla preparazione fisica. Ma quello che mi ha passato, insieme alla tecnica è stata una serie di regole che ancora oggi applico.
L’importanza della costanza e del rigore nell’allenarsi.
Il rapporto con i compagni di squadra.
Il rispetto di me stesso.
Per un ragazzo che era ancora un foglio bianco, ogni sua parola diventava una rivelazione.
Ricordo con un sorriso di aver iniziato a mangiare verdura ad ogni pasto perché Cesco, durante una trasferta, aveva detto casualmente che ogni atleta che si rispetti mangia verdura regolarmente.

Pochi anni più tardi ho incontrato un’altra maestra, una professoressa di italiano di cui, come spesso accade con i professori, ricordo solo il cognome: Van Der Heim.
Da lei non ho imparato solo le declinazioni latine o le regole della nostra lingua, ho imparato soprattutto l’amore per le parole, il fascino di un paragrafo ben costruito, il ritmo di un verso, gli universi che si celano in un libro.
Era una professoressa di quelle dure, non regalava voti, era alta e segaligna, ma ti trasferiva tutto il suo amore per la sua materia.

Chiaramente, più si è giovani, più è facile trovare uomini da cui imparare.
Per chi ha fame, ogni cibo è una delizia.

Ma i miei incontri con maestri hanno continuato negli anni successivi.

A volte erano persone che incontravo e che mi narravano della loro vita.
Più spesso persone di cui leggevo e che mi ispiravano.

Fabrizio De Andrè, ad esempio, con la sua poetica e il suo stile di vita, mi ha aiutato a creare un sistema di valori a cui ancora adesso mi ispiro.
Gino Strada, con il suo esempio e la sua lucida testardaggine, è stato ed è un esempio che cerco di emulare.
Per entrambi, non si tratta solo delle cose in cui credevano, ma anche del modo in cui vivevano aderendo ai loro ideali.

Nella maggior parte dei casi si trattava di uomini e donne più grandi di me, ma qualche volta erano anche giovani talenti ad impressionarmi. Campioni dello sport, artisti, scienziati. Ricordo ad esempio le notti dei mondiali di calcio del 1982, quando un giovanissimo Giuseppe Bergomi scese in campo, era nato pochi giorni prima di me, lui indossava la maglia della Nazionale, io lo tifavo dal divano di casa: quel giorno capii che era ormai troppo tardi per diventare un campione mondiale!

Tutte le persone che ho citato erano accese di un sacro fuoco, avevano una passione immensa e percepibile, che non nascondevano ne’ esibivano. Era la loro ragione di vita…

Tra i maestri che mi hanno reso quello che sono, un posto importante è occupato dai miei genitori.

tramonto a Emarese

Ieri mio padre avrebbe compiuto 88 anni, ma il 15 ottobre è morto seguendo a pochi mesi di distanza mia madre che era morta il 10 febbraio.
Ho molto riflettuto in questi giorni sul loro ruolo nella mia vita.
Come tutti i genitori mi hanno cresciuto, mantenuto e curato fino a quando, 24enne, me ne andai di casa per intraprendere il mio cammino.
Ma fino a quest’anno ci sono sempre stati.

Erano un team affiatato che si divideva i compiti dell’educazione: mio padre rappresentava il mondo delle idee, mia madre quello del fare. Mio padre ci guidava marciando avanti a noi, mia madre ci spingeva amorevolmente da dietro.

Ho un debito immenso con loro. Di amore, di insegnamenti, di esempi. Un debito che spesso temo di non riuscire a saldare con i miei figli.
Ma in questi ultimi giorni, mentre mio padre si spegneva, e lo rivedevo chino al mattino a leggere i suoi libri e a riflettere su quello che leggeva, ho capito che in fondo io devo solo cercare di essere il più trasparente possibile, permettere che quello che ho imparato passi attraverso me verso gli altri, e – soprattutto – che il mondo è pieno di maestri e che non si finisce mai di imparare.

Puoi ascoltarmi leggere questo post nel mio podcast Composteria:
Ascolta “I buoni maestri” su Spreaker.

Le ultime novità

A prescindere da tutto quello che può accadere, la vita continua, e noi dobbiamo cavalcarla

Eccomi di ritorno. Dopo un lunghissimo periodo di silenzio, torno ad imbrattare i bianchi fogli di questo contenitore digitale di pensieri. È stato un periodo operoso. Molte cose sono cambiate nella mia vita. E tutte in meglio.

Una delle frasi che mi amavo ripetere è che se una persona si volta indietro e osserva la propria vita, vedrà una linea retta: tutti gli eventi sembrano portare a dove si trova adesso.

Dicevo così pensando che, in fondo, siamo noi ad indirizzare la nostra vita. Ma in realtà mi sbagliavo.

Credo che le cose ci accadano: le nostre vite sono caratterizzate da una serie di eventi casuali e la nostra abilità sta nel trovar loro un senso. O per lo meno, è quello che cerco di fare io.

Negli ultimi anni, un po’ per la pandemia, un po’ per le vicende personali, avevo deciso di rinchiudermi nella mia bolla privata. Facevo il mio lavoro, riempivo le mie giornate di passeggiate nei posti che amo, non uscivo mai dalla mia comfort zone e vivevo pacifico, senza scossoni. Davo anche una precisa connotazione morale a questa mia apatia: una forma di resistenza passiva al modo in cui il mondo cambiava.

tramonto sulla valle centrale

Ma poi una serie di eventi mi ha sbattuto in faccia la realtà.

Ho ricevuto l’annuncio che sarei diventato nonno e solo alcuni giorni prima che morisse mia madre, ricordandomi come tutto debba continuare, nonostante quello che capita a me.

Ho incontrato una donna, che mi ha permesso di tagliare con i rimpianti per il passato e di guardare avanti con entusiasmo.

Ho avuto l’occasione di rispolverare la passione per la musica, rimettendomi in gioco come autore e come cantante oltre che come semplice appassionato.

E adesso ho deciso di dedicarmi con tutto me stesso al lavoro che più mi piace: creare con le parole. Il podcast, i libri, le storie…

Come spesso accade, uso questo spazio anche per creare uno stimolo esterno, darmi una motivazione in più. Un po’ quello che succede quando si inizia una dieta e lo si dice a tutti per non avere scuse. O si annuncia la partecipazione ad una gara per sfuggire alla tentazione di fare un passo indietro a metà della preparazione. Trucchetti per chi, come me, ha una volontà debole.

Quindi, abbiate pazienza, accettate i miei sproloqui quotidiani, e continuate a seguirmi. Di certo, da oggi in poi, sarò molto più visibile.

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Elogio dell’errore

L’errore non è un male, imparare a riconoscerlo ed evitarlo ci porta verso la perfezione. E ammettere i propri errori ci trasforma in persone migliori.

Una delle doti che più ho imparato ad apprezzare nelle persone è la capacità di ammettere i propri errori. Magari perché è una di quelle virtù che si incontrano davvero raramente.

L’errore è insito nell’agire umano, mi verrebbe quasi da dire che lo caratterizza. Tutti sbagliano. Guccini, nella divertentissima Genesi, cantava “chi non fa, non falla”: l’unico metodo per non sbagliare è quello di non fare nulla, di rifuggire decisioni, scelte, azioni. Ma nella mia personale classifica di cose da abborrire, l’inazione è sicuramente nella top five.

L’errore è sintomo di progresso.
A meno che non ci si incaponisca a fare sempre le stesse cose aspettandosi risultati diversi (che Albert Einstein considerava sintomo di follia), lo sbaglio coincide con l’opportunità di trovare la strada giusta.

Sbagliare è anche una palestra fenomenale per lavorare sulla nostra forza di volontà. Immagino le centinaia se non le migliaia di ore passate da un musicista professionista per provare un brano o da un campione dello sport per acquisire un movimento tecnico: l’errore è la boa che segna il percorso verso la perfezione.

L’errore è anche un fondamentale memento della nostra fallacia: ci sbatte in faccia che non siamo dio, ci obbliga ad un salutare bagno di umiltà.

Insomma, tutto possiamo dire dell’errore salvo che è un male.

cappello asino

Allora tornando al mio punto di partenza, il modo in cui si reagisce ad un errore è il termometro del valore di una persona.

Gli uomini con più esperienza, quelli saggi, imparano a riconoscere i propri errori e quelli degli altri. Cercano di comprenderne la causa e, lavorando su essa, ripetono l’azione evitando di ripetere l’errore. È la virtuosa (seppur faticosa) salita verso il successo di cui parlavo prima.

Ammettere un proprio errore è il secondo passo (dopo averlo riconosciuto) verso l’elevazione.

Assumersi la responsabilità di un errore è pratica poco comune ma necessaria al miglioramento. Chi non riesce a farlo dimostra a tutti la propria insicurezza, la paura di affrontare il giudizio altrui.
La cosa curiosa è che la predisposizione a negare la propria responsabilità viaggia di pari passo con la tendenza a giudicare (e condannare proterviamente) gli errori altrui.

Ma queste persone hanno un problema maggiore: devono vivere (e atteggiarsi) all’altezza di questa loro supposta infallibilità. Scoprirete dunque che danno giudizi ad ogni pié sospinto, consigli anche quando non gli vengono richiesti, che si inalberano se una loro affermazione o presa di posizione viene discussa o, non sia mai, confutata.

La loro apparente sicurezza è così fragile da non poter accettare critiche, valutazioni, consigli.

Sono i classici giganti con i piedi di argilla, una razza completamente diversa dai giganti veri che non temono di mettere in discussione le loro idee e di ammettere – qualora fosse il caso – i loro errori.

I primi vivono una vita tesa, sempre sul chi va là, con una perenne necessità di conferme e una spasmodica ricerca di approvazione. I secondi vivono sereni, accettando la loro fallacità, crescendo e migliorando di errore in errore.

Personalmente cerco di seguire questa via, ben conscio non solo della mia fallibilità ma anche dei numerosi limiti che i miei errori evidenziano. E sono grato a tutti coloro che mi segnalano (a prescindere dal motivo per cui lo fanno) un mio errore, nella speranza di comprenderlo e di imparare come non ripeterlo.

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In nomen omen

Nella vita siamo stati e saremo tante cose: ma sono le parole che ci definiscono o noi che diamo forma alle parole?

Probabilmente la maggior parte di voi che mi leggete avrete sentito questa locuzione latina, che significa letteralmente “nel nome c’è un presagio”, citata quando qualcuno porta scritto nel cognome il suo destino.
Ricordo quanto ci faceva sorridere che il capo della polizia si chiamasse Antonio Manganelli (lo cito pur sapendo che è mancato qualche anno fa, perché è stato au contraire uno dei più amati personaggi a ricoprire quel ruolo).

Non penso che il nome che ci assegnano i nostri genitori o il cognome che ereditiamo dalla famiglia ci definiscano.

Però, stimolato da un tweet in cui, in occasione dell’8 marzo, una ragazza elencava una serie di “cose” che era stata, ho provato a rifare lo stesso giochino.

[Permettetemi una breve digressione. L’8 marzo non è la festa della donna. Ma la Giornata Internazionale dei Diritti delle Donne. Non sfugga la differenza. Non si paragoni l’8 marzo alla festa del papà. E’ una cosa seria, non una trovata commerciale. Fine digressione.]

nomen omen

Quindi, scimiottando il tweet di cui vi ho raccontato, ho provato a fare un elenco di sostantivi che mi hanno rappresentato. In ordine temporale, non di importanza.

Figlio: avete mai pensato che dal primo istante della vostra vita siete figli di qualcuno? Credo che il debito di riconoscenza verso i nostri genitori non si esaurisca mai. Noi siamo perché loro sono stati.

Studente: un’altra situazione perenne. Inizi quando hai poco meno di sei anni (nel mio caso) e non smetti più. O perlomeno non dovresti smettere più. Studiare per apprendere, all’inizio. Poi studiare per capire. Studiare per fare.

Canottiere: lo dico con un sorriso, la parola canottiere evoca in me più Fantozzi che i fratelli Abbagnale, ma con grande affetto. Il canottaggio è stato il primo sport che ho praticato e da allora non ho più smesso. Praticare una vita attiva mi definisce come persona.

Sagrestano: di nuovo farà sorridere, ma da quando avevo 14 anni ho iniziato a fare tutta una serie di lavoretti che mi permettevano di comperare dei dischi che volevo, di avere due soldi in tasca per sentirmi indipendente. Così sono stato badante, bidello, magazziniere di una latteria e sagrestano.

Cantautore: lo dico sottovoce, ma mi serve ad esprimere un concetto. Erano gli anni in cui tutti sapevano suonare la chitarra e in Italia impazzavano i cantautori. Io, come tutti i miei coetanei, strimpellavo il piano e pizzicavo la chitarra. Ed un bel giorno ho iniziato a scrivere canzoni. E’ stata un’epifania. Ho scoperto che c’erano linguaggi per esprimere quello che avevo dentro. Oggi non scrivo più canzoni, ma continuo a far parlare il mio cuore.

Informatico: di nuovo un titolo per definire un insieme. Avevo fatto un corso per capire come funzionavano i computer (all’epoca erano delle diavolerie di cui nessuno comprendeva ancora le potenzialità). Il corso serviva a trasformarmi in un venditore IBM, io lo usai per infilarmi in un’azienda che faceva la cosa che più mi attirava a quei tempi: un editore di giornali. Inizia così, occupandomi dei computer, a frequentare l’ambiente. Poi mi spostai sulla parte di impaginazione, poi sulla progettazione grafica, infine inizia a scrivere articoli. Un mestierante più che un professionista. Ma scoprii che la gavetta ti insegna più della scuola.

Imprenditore: nei gloriosi anni degli yuppies (anche se la mia anima era più da hippy), influenzato dal fatto che ero abituato a mettere in pratica quello che mi passava per la testa, creai la mia prima società che forniva servizi agli editori dei giornali. E non ho mai smesso di cercare di mettere insieme opportunità ed idee.

Padre: ecco un’altra cosa che, una volta iniziata, non smetti più di fare. A differenza di marito, che sono stato solo per un lungo periodo, la mia vita da padre continua a regalarmi tensioni e gioie. Adesso che i miei due figli sono grandi e sistemati, ricevo solo gioie (e qualche mini preoccupazione auto indotta). Essere padre ti cambia. Soprattutto quando, dopo aver giurato e spergiurato che non avresti fatto gli errori dei tuoi genitori, ti ritrovi a ripetere le loro frasi. E capisci che siamo tutti espressione dello stesso ceppo.

Manager: è una parola che amo e che, spero, sia quella che mi rappresenta meglio. L’effetto Dunning-Kruger è un rischio che ho ben presente, ma direi che negli anni ho imparato a gestire le situazioni lavorative (e non solo). Credo che sia questo il compito di un vero manager.

Maratoneta: mentre approcciavo la boa dei 40anni e iniziavo a fare bilanci, non soddisfatto di come mi ero trasformato, ho cercato rifugio nello sport e, in particolare, nella corsa. Mi sono messo l’obbiettivo romantico di tagliare il traguardo di una maratona prima del compleanno e l’ho fatto. Poi però non sono più riuscito a smettere e la corsa è entrata prepotentemente nella mia vita, modellandola. Ho corso ovunque, poi ho scelto di correre sui sentieri e sono diventato un trailer ed un ultratrailer.

Scrittore: grazie alla corsa ho incontrato Giovanni e siamo diventati amici. E grazie a lui, siamo stati contattati da Mondadori per scrivere il nostro primo libro. Anche in questo caso è stata una specie di rivelazione. Una volta iniziato non sono più riuscito a smettere e ho scritto di tutto e dapperttutto. Scrivere mi aiuta ad interpretare la realtà in cui vivo. Sono diventato blogger per fissare per iscritto i pensieri che attraversano il mio cervello.

Sono stato tante altre cose per periodi più o meno lunghi, un conduttore televisivo, un presentatore di eventi, un volontario in cause in cui credevo, e penso che diventerò ancora molte cose.

L’ultima riflessione per oggi è la seguente.
Marzullo chiederebbe: “Le cose che siamo modellano la nostra esistenza o siamo noi a scegliere cosa diventare?”

Non tutti e non sempre abbiamo la fortuna di poter decidere, ma, qualsiasi sia il ruolo che il destino ci impone, è il modo in cui noi lo rivestiamo e, soprattutto, quello che impariamo facendolo, che definisce il tipo di persona che stiamo diventando.

Ascolta “In nomen omen” su Spreaker.

Vivere di montagna

Trasferirsi a vivere in montagna è stato un passaggio importante nella ricerca di un equilibrio che questa fase della mia vita richiedeva

Odio le mode.
Sono una di quelle persone che sceglie ostinatamente di allontanarsi dal pensiero comune (il mainstream come dicono gli inglesi); uno di quelli che cerca la propria strada, che evita i best seller, che non compera l’abito alla moda, non ascolta le hit.

Eppure mi trovo coinvolto in questa tendenza che sta diventanto moda.
Nel 2018, dopo che per anni ho fatto il pendolare – settimana a Milano, weekend in montagna – mi sono trasferito in Valle d’Aosta.

A dirlo così sembra un colpo di testa, invece era un progetto a lungo cullato.
Ho cercato ed acquistato una casa; mentre aspettavo che i miei figli abbandonassero il nido ho sistemato la casa, trasformandola da alloggio vacanza in abitazione; e finalmente ho compiuto il grande passo e spostato il mio baricentro nelle Terre Alte.

Sono due le domande che mi vengono poste più frequentemente: perché lo hai fatto? E adesso lo rifaresti?

scialpinismo

Partiamo dalla seconda. Lo rifarei? Adesso sì.
Milano è una città che ho amato e amo ancora. E’ viva, è energizzante, ricca di opportunità e stimoli, culturalmente all’avanguardia. Ci ho vissuto per quasi vent’anni e mi ha dato tantissimo. Professionalmente certo, ma anche umanamente.

Il passaggio dalla metropoli al paese di poche decine di abitanti, paradossalmente non è stato un trauma. Forse perché non è stato un abbandono ma un allontanamento.
Oggi so che Milano è là. Ci torno sovente per lavoro e per amicizia, ma sto bene qui.

Ogni vita ha le sue fasi e, nella mia esperienza personale, ogni fase ha un suo luogo.
Milano è stato quello dell’agire. Emarése, il paese dove vivo, è quello del riflettere.

Arriviamo così alla prima domanda: perché?

Credo che sia tutta una questione di equilibrio.
Avevo bisogno di ritrovare un contatto onesto con la Natura, con il mondo, con la materia da cui veniamo.
Volevo recuperare quella semplicità delle cose essenziali, dei gesti minimi.

Sia chiaro, non dipende dagli altri o dal luogo dove abiti. Il processo di semplificazione (il downsampling per usare un altro termine inglese) dipende esclusivamente da noi, dalla nostra mente.
Ma per me significava molto allontanarmi fisicamente dal mondo artificiale e complesso della grande metropoli.

Oggi sono sereno.
Vivo in montagna. Vivo di montagna.
Non tanto per il sostentamento economico, ma per l’orientamento esistenziale.

Andar per monti ti insegna uno stile che poi applichi naturalmente anche nel sentiero della vita.

Contare sulle tue forze; accettare la fatica; tenere il passo; appoggiare bene un piede prima di muovere l’altro; confrontarti con i tuoi limiti. Ed ancora, continuare ad esplorare; accettare le condizioni metereologiche su cui non hai controllo; adattarti alle stagioni.

E’ uno stile di vita che diventa parte della tua natura.
E’ quello che cercavo quando mi sono trasferito.
E’ quello che intendo quando dico che vivo di montagna.

Ascolta “Vivere di montagna” su Spreaker.

La filosofia del randagio

Preferisco muovermi che restare fermo; preferisco creare qualcosa che accettare quello che trovo pronto. E’ la mia filosofia randagia

Domenica, mentre attendevamo gli altri amici che stavano ancora sciando, parlavamo di compleanni tondi (i 20, i 30, i 40, i 50…) e dei dubbi che ci vengono quando affontiamo queste “boe” dell’esistenza.
Ciò mi ha fatto riflettere, ed è diventata l’occasione per fare un punto rotta sulla mia vita.

Tutti i nodi vengono al pettine.
Una per una le difficoltà, alcune previste, altre inattese, si frappongono tra me e quella serenità che cerco e perseguo con costanza da oramai quasi dieci anni.
Come tutti faccio fatica, ma – come tanti – vedo i progressi e sono premiato quando qualche nodo viene sciolto.

Ho sempre pensato di essere un randagio, un ramingo, un vagabondo, una persona che ha bisogno di essere in movimento, sia in senso figurato che letterale.

Il panta rhei – tutto scorre – di Eraclito, nella mia personale concezione della vita, è la più calzante descrizione della realtà in cui viviamo.
E’ la teoria del divenire contrapposta a quella dell’essere. Ed è la mia filosofia guida.

dune di neve
Dune di neve @ph Roberto Bellini (fotorobertobellini.it)

Così sono sempre in movimento.
Forse non ho radici. O forse le radici me le vado a cercare. Scelgo io dove piantarle.
Di strada ne ho fatta e ne faccio tanta, ma onestamente non posso dire di essere arrivato da qualche parte.
Qualcuno mi ha anche detto che sono volubile, ma credo che non sia vero. Credo che abbia confuso la coerenza con l’immobilismo. La curiosità con la scarsa tenacia.

Nulla è per sempre.
Alcuni possono trovare questa affermazione preoccupante o pessimistica, invece io la considero la vera fonte di speranza. La mia luce in fondo al tunnel.
Cambiare, sbagliare, cadere e rialzarsi. Accantonare un bagaglio di esperienze. Questi sono i pilastri sui quali ho costruito la mia vita.

Ecco un’altra parola chiave, l’ago della mia bussola esistenziale: costruire.

Ho sempre cercato di creare qualcosa. Nella mia vita professionale, nelle attività ricreative e sportive, nei rapporti con gli altri e, soprattutto, lavorando su me stesso.

Ho pagato un prezzo in macerie disseminate lungo la mia vita, in esperimenti falliti. Ma ho la presunzione di dire che il bilancio tra ruderi e costruzioni, fino ad oggi, è positivo.

Questo mi fa dire che ne vale la pena.
Vale la pena fare più fatica per costruire qualcosa, rispetto a scegliere la strada più facile dell’accettare lo status quo.
Vale la pena impegnarsi per creare una propria strada, una propria storia, rispetto ad accettare il sentiero battuto.

E se ti accorgi che quello che stai creando viene su storto, non aver timore di abbatterlo e di ricominciare.
E’ meglio disfare e rifare che star lì a pensare su come sarebbe potuto essere.

Ascolta “Filosofia randagia” su Spreaker.

La matrioska del Tempo

Una breve riflessione sul Tempo e su come lo utilizziamo, quello che conta è l’intensità con cui viviamo più della lunghezza della nostra vita

Avete presente quelle bambole russe che contengono un’altra bambola che, a sua volta, ne contiene un’altra e così via?
Ecco, a volte succede la stessa cosa con il Tempo.

matrioska

Facciamo un esempio pratico.
Ieri, giorno dell’epifania, avevo un appuntamento telefonico alle 9 e 30.
Mi sono alzato, ho fatto colazione, rassettato la camera, mi sono lavato ed essendo ancora presto, mi sono seduto con il mio tè sul divano a leggere.
Finito il capitolo ho guardato l’ora. Erano le 9:01…

Allora ho deciso di pulire la stufa. Ho preso tutte le cose che mi servivano, l’ho pulita, riaccesa, mi sono goduto il fuoco fiammeggiante e, già che c’ero, ho caricato un altro sacco di pellets. Erano le 9:13…

Perfetto. Giusto il tempo per rifare il tè. Ho riempito il bollitore d’acqua e l’ho acceso. Mentre aspettavo che l’acqua bollisse, ho deciso di rinforzare le scorte di semi che durante l’inverno, quando la neve rende più complicato nutrirsi, metto nella casetta degli uccelli in terrazza.
Torno in casa, controllo e l’acqua non bolle ancora. Così svuoto la lavastoviglie e finalmente verso l’acqua calda nella tazza. Sono le 9:19 ed ho ancora una decina di minuti prima della telefonata.

Avete capito cosa intendo.
Il Tempo è una materia elastica, si amplia e si contrae a seconda di quello che ci mettiamo dentro. Avere una vita piena di “cose da fare” ne aumenta il peso specifico.

Non conta quanto tempo è passato, ma quanto intensamente è stato vissuto.
O come ha detto meglio di me la poetessa Maya Angelou, “La vita non si misura attraverso il numero di respiri che facciamo, ma attraverso i momenti che ci lasciano senza respiro”.

Quindi, tornando alla matrioska, non accontentiamoci del Tempo che abbiamo, ma apriamolo, scardiniamolo, per poterne sfruttare ogni interstizio.

Una vita non è fatta di anni, mesi e giorni, ma di una lunga fila di attimi, ed è nostra responsabilità dare un senso a ciascuno di essi.


Potete ascoltare questo post qui:
Ascolta “La matrioska del Tempo” su Spreaker.

Come alberi caduti

Una riflessione sulla caducità della vita e sul senso della morte. Niente male per una corsetta all’ora di pranzo…

Ieri durante la solita corsa, sono passato per un sentiero dopo parecchie settimane che non lo percorrevo.
E’ uno di quegli anelli che ormai mi è entrato dentro: lo ripeto ad occhi chiusi o, come dicono con una bella espressione gli inglesi, by heart.
Così, dopo aver girato intorno alla croce del colle, ho iniziato il ritorno verso casa.

All’inizio del bosco non ho notato grandi differenze, solo un sacco di foglie e ricci di castagne a terra. Ma appena dopo una salitella che ti porta nel suo cuore, ho trovato un grosso pino di traverso sul sentiero. L’ho aggirato e ho proseguito, solo per dovermi fermare di nuovo dopo pochissimi metri.
Un temporale, probabilmente uno di quelli che ad ottobre hanno colpito duramente tutto il Nord-Ovest, ha compiuto una vera e propria strage di alberi.

alberi caduti

Pini giganteschi erano crollati a terra, trascinando con loro alberi più giovani.
Alzando lo sguardo più in là, allontanandosi dal sentiero, come in un gigantesco gioco dello shangai, decine e decine di tronchi giacevano incastrati tra loro.

Un campo di battaglia coperto di caduti.
Uno spettacolo che stringeva il cuore.

Dopo aver perso quasi mezz’ora per percorrere, come un novello Barone Rampante, poche centinaia di metri, tutto è tornato normale.
Il sentiero muschioso, gli alberi svettanti, le rocce calde per il sole del pomeriggio.

Riprendendo a correre, ho iniziato a pensare a quanti anni ci sarebbero voluti per tornare alla situazione precedente.
– un mese di lavoro per gli operai forestali della Regione (quel sentiero è un tratto del Cammino Balteo).
– un anno perché le fronde si trasformino in compost.
– un lustro perché delle giovani piante sfruttino il nuovo spazio creato dalla tempesta.
– un decennio perché in quella porzione il bosco torni ad essere fitto come il resto.
– un quarto di secolo perché le nuove piante diventino alte come quelle cadute.

Eppure sono tutti eventi naturali.
Accaduti chissà quante volte in passato e che accadranno di nuovo.

Questo pensiero mi ha rasserenato.

Vedere tutti quegli alberi a terra mi aveva fatto pensare alla morte.

Un albero rigoglioso muore così, spazzato da una tromba d’aria.
Niente di crudele, solo un giro della ruota della vita.
E della sua morte beneficiano decine di altre piante, che trovano lo spazio e la luce per crescere, che trovano nutrimento dal suo corpo in decomposizione.

A ben pensarci, la morte di un albero diventa meno tremenda…

Allora mi è venuto in mente Maradona che proprio ieri se n’è andato.
Lui e i tanti che sono morti e hanno lasciato in me un segno.
Penso a Fabrizio De André, a Gianni Brera, a Giorgio Gaber tanto per citare alcuni nomi che conoscono tutti.
Ma c’è anche una lista di nomi meno noti al grande pubblico, ma per me altrettanto importanti.
Persone che mi hanno ispirato, o semplicemente mi hanno mostrato una via.

Nessuno di loro era perfetto.
Ma ognuno era importante.

Ecco, loro come gli alberi, morendo hanno creato lo spazio perché noi crescessimo prendendo forza dai loro esempi.

Se viviamo una vita degna di essere vissuta, anche la nostra morte avrà un significato.