Stamattina ci siamo svegliati tutti in quarantena. Fino a ieri erano i cinesi prima e quelli di Codogno dopo; avevamo come l’impressione che a noi non sarebbe toccato.
Poi la chiusura della Lombardia e delle 14 province del nord Italia hanno scosso le nostre sicurezze e oggi ci siamo tutti dentro.
La stessa cosa con i bollettini dell’Istituto Superiore della Sanità e della Protezione Civile.
All’inizio erano pochi contagiati (“Vengono dalla Cina, potevano stare a casa loro”) poi con l’aumentare dei numeri la cosa ha iniziato a preoccuparci e oggi, quando il Covid 19 ha contagiato qualche conoscente o conoscente di conoscente, siamo impauriti.
Sui social, il termometro della pancia della gente, siamo rapidamente passati dalle guasconate libertarie “CoronaVirus non ci fermi!” postate sotto foto di aperitivi e allenamenti collettivi, all’hashtag “#iorestoacasa” in cui si invita tutti all’autoisolamento.
E anche qui, la disperata caccia di un colpevole da perseguire o denigrare riempie internet di contumelie contro chi adotta comportamenti sbagliati o esibisce la stessa tracotante arroganza che aveva riempito i nostri post fino a qualche giorno fa.
C’è poco da fare, nulla come le difficoltà mettono in luce chi siamo davvero.
E prendere coscienza di questa nostra fragilità ci obbliga a confrontarci contro la mentalità tronfia e da supermacho di quest’era.
Io sono l’artefice del mio destino!
Certo fino a quando non incontri una malattia, un camion in autostrada o una tegola che cade da un tetto.
Noi siamo mortali.
Non ci rende più deboli o degli sfigati, fa semplicemente parte di quello che siamo. Ci definisce.
In questi giorni il salice del mio giardino sta mettendo le gemme.
Nel frattempo ha nevicato ed è stato ricoperto.
Ha gelato e i suoi ramoscelli erano rigidi. Sembravano morti.
Poi è tornato il sole e ha sciolto la neve e le gemme sono ancora lì, con il loro verde tenero a ricordarmi che i cicli naturali non si sono fermati.
Per me è fonte di speranza.
Sono preoccupato per mia figlia a Londra, dove ancora non si è esteso il contagio e per mio figlio in provincia di Bergamo che è l’area più a rischio di questo momento.
Sono preoccupato per i miei genitori, entrambi ultraottantenni, a Trieste.
Sono preoccupato per le persone a cui voglio bene che vivono a Milano.
Sono preoccupato per me stesso.
Temo di ammalarmi ma temo soprattutto il post CoronaVirus, quando tutti assieme dovremo fronteggiare il disastro economico che ci lascerà in eredità.
Eppure ho in fondo al cuore questa bella sensazione di speranza.
So che la Natura è più forte, che i cicli naturali sono appunto dei cicli, non temo la fine del mondo.
Non so nulla del Covid 19.
Non ho soluzioni a questa situazione.
Ho scelto semplicemente di adeguarmi, con fiducia, alle indicazioni che vengono dal coordinamento centrale, dalla Presidenza del Consiglio.
Lavoro da casa (sono uno dei fortunati che possono fare lo smart working).
Vado a fare la spesa e mi fermo a bere il caffè(*).
Esco sempre, faccio i miei giri. Anche se, d’ora in avanti, le mie sciate domenicali dovrò farle da solo.
Ho scelto di riempire il mio tempo di cose che amo.
Mi prendo cura di me stesso, faccio un po’ più di attività fisica all’aperto.
Leggo di più e guardo meno i social.
Cerco di dare una mano: al lavoro, chiacchierando al telefono con i miei genitori, evitando di diffondere il panico.
Metto a posto le cose che avevo lasciato in sospeso, quei lavoretti che non trovavo mai il tempo per finire.
Insomma coltivo la normalità.
Perché in questo tempo anomalo, forse la cura è tornare normali.
(*) questo post è stato scritto prima della chiusura dei bar