Tutti parlano di autoisolamento e quarantena, così mi sono venuti in mente due provvedimenti simili ma opposti: il confino e l’esilio.
Entrambi hanno a che fare con la libertà di movimento, ma il secondo consiste nell’impedirti di frequentare un certo posto (ad esempio l’esilio dall’Italia della famiglia Savoia) mentre il primo è una forma di prigionia in senso lato (divieto di abbandonare una città, una regione, una nazione).
In questo periodo siamo confinati nelle nostre case per la maggior parte del tempo, salvo poter uscire dall’abitazione, ma senza lasciare il territorio comunale, per alcuni specifici motivi. Tutte le polemiche sull’attività sportiva, sulle passeggiate dei bambini, sui supermarket più o meno affollati, vertono sulla larghezza di questi confini entro i quali, mi si perdoni il gioco di parole, noi siamo confinati.
Eppure a me il confine ha sempre fatto l’effetto opposto.
Non riesco a vedere un confine come qualcosa di diverso da un’opportunità, una sfida ad un mondo nuovo da conoscere.
Ho trascorso una grande parte della mia adolescenza a Trieste, una delle città di confine per antonomasia.
Infilata in quell’angolo d’Italia a Nord Est, tra Slovenia ed Austria, con una parte della popolazione che parla lo sloveno come madre lingua, città a vocazione marinara dal cui porto si dipartivano le rotte per l’oriente, ha nel suo dna l’essere poliedrica.
Si parla l’italiano, anche se il dialetto la fa da padrone, lo sloveno, il tedesco e – ovviamente – l’inglese.
Si prega in chiese cattoliche, greco ortodosse, serbo ortdosse, anglicane, valdesi oltre, naturalmente, la sinagoga e la moschea.
E’ fatta di contrasti: ruvida al limite del grezzo, vanta il maggior numero di librerie e teatri rispetto alla popolazione; terra di passaggio ha accolto illustri scienziati e letterati grazie all’osservatorio astronomico, all’acceleratore di particelle, al centro internazionale di fisica teorica.
Per me che ci sono cresciuto e che ne sono stato formato, il confine è sempre stato sinonimo di dualismo, di coesistenza pacifica tra mondi affini ma diversi.
E questo modo di essere mi è stato inoculato sotto pelle, come un virus.
Così ho sempre vissuto alla ricerca di quel confine, di quelle differenze con gli altri che mi completavano.
La vita e le mie scelte, mi hanno portato a traversare tutta l’Italia in senso trasversale, dal Nord Est al Nord Ovest e oggi vivo in Valle d’Aosta.
Di nuovo sul confine…
Ma questa volta il confine che ho scelto non è tra l’Italia e la Francia o la Svizzera (pur essendo innegabilmente ai bordi del nostro Paese).
Ho scelto un piccolo villaggio di mezza montagna (1.000 metri sul livello del mare); una casa ai bordi dell’abitato cosicchè posso uscire dal cancelletto del mio giardino, attraversare la strada asfaltata, ed entrare nel bosco. Da lì posso salire le montagne senza più dover passare attraverso paesi, quasi senza vedere più le strade asfaltate.
E’ il mio nuovo confine.
Il limite tra il mondo urbanizzato e quello ancora selvaggio.
Ho sempre amato viaggiare. Probabilmente proprio alla ricerca di quelle diversità che una vita al confine mi aveva insegnato a conoscere.
E il mio viaggio continua. Copro distanze molto più brevi e lo faccio a piedi e non più con l’aereoplano.
Sto cercando le nostre radici, quelle che l’uomo moderno sta dimenticando, sommerse da tecnologia e comodità.
Abbiamo piegato il mondo alle nostre esigenze, l’abbiamo modellato a misura d’essere umano, ma così facendo abbiamo sacrificato la nostra capacità di adattarci a qualcosa di diverso, abbiamo rinunciato alla capacità di cambiare e quindi di esplorare nuove possibilità.
Il confine è esattamente questo: il limite tra ciò che siamo e quello che potremmo essere.
Per il momento io proseguo nel mio viaggio, senza timore di perdere ciò che lascio alle mie spalle, spinto solo dalla curiosità di scoprire cosa ci sia oltre…