La cosa non suonerà nuova agli sviluppatori di software, ma magari al resto del mondo sì: una paperella di gomma potrebbe essere il più fidato aiutante nel risolvere i nostri problemi.
Una sorta di maestro zen o di psicoterapeuta da tasca.
Quando un programmatore deve procedere al debugging del suo codice, secondo uno dei testi universitari fondamentali (mi riferisco a The Pragmatic Programmer di Andrew Hunt e David Thomas) uno dei sistemi più efficaci è quello di commentare passaggio per passaggio quello che dovrebbe fare il software spiegandolo ad una paperella di plastica: la chiamano Rubber Duck Theory.
[Per in non addetti ai lavori, i problemi di un software vengono chiamati bug e l’operazione di cercarli e risolverli viene chiamata debugging, NdA]
A ben pensarci è una pratica solidissima.
Obbligarsi a ripercorrere passo passo tutto il flusso, tutta la sequenza di comandi, aiuta da un lato a verificare se ci sono falle logiche, dall’altro a controllare che ogni passo faccia quello che avrebbe dovuto fare.
Magari qualcuno si chiederà perché parlarne con una papera di gomma e non con un essere umano. Ma lo scopo del test è chiarirsi le idee non chiarirle ad un’altra persona. Quindi avere un collega o un giocattolo inanimato è esattamente uguale.
Spesso ripenso alla Rubber Duck Theory quando scrivo questi miei post.
Esporre i miei pensieri ad un pubblico silenzioso (e non ad un amico durante una conversazione) mi obbliga a trasformare idee ed intuizioni in pensieri espressi, in frasi di senso compiuto.
Mi permette di mettere a fuoco quello che sto provando, quello che sto pensando, quello che mi è capitato.
Facciamo un salto di lato e pensiamo alla psicoterapia.
E’ prassi comune suggerire ai clienti di esprimere per iscritto il loro disagio.
Faccio qualche esempio. In un rapporto di coppia conflittuale spesso lo psicologo consiglia ai partners di scambiarsi una lettera in cui ognuno spiega le proprie ragioni, i motivi del contendere, le aspettative deluse.
Sempre in psicologia, viene sovente consigliato di tenere un diario nel quale annotare sensazioni, paure, gioie, accadimenti.
E’ il potere catartico della parola.
Quando trasformiamo un’emozione in una frase, riusciamo a renderla terza rispetto a noi. Possiamo osservarla da fuori e comprenderla meglio. Possiamo trasferirla ad altri.
In questo ultimo anno mi è capitato spesso di parlare da solo.
Magari chi mi vedeva da fuori pensava fosse pazzo.
Ma il motivo è che non vedeva la paperella di gomma gialla che tenevo in mano.
Stavo facendo il debugging della mia vita…