Riempire il silenzio

Dentro di me le parole s’intrecciano, si scontrano, si fanno verso, frase, grido.
Ma non trovano un pertugio per uscire, per far diminuire questa pressione interna, per restituirmi serenità.

Conosco la medicina, e nel week end sarò a faticar per monti, a cercare un nuovo equilibrio.

Ma mi sento in debito verso queste pagine bianche, verso gli occhi assetati, verso un impegno che sento preso.
Allora faccio ciò che mi vien meglio, rubacchio… ripropongo.

Il testo che segue è di un poeta russo, Sergej Aleksandrovic Esenin, e si chiama Confessioni di un teppista.
Una versione riadattata in musica è stata resa celebre da Angelo Branduardi e la trovate (cantata da lui) in fondo al mio post.

Ma leggete prima i versi originali.
Lentamente.
Come se voleste seguire il ritmo di un passo cadenzato su una strada polverosa.

...

Confessione di un teppista

E non tutti possono cadere come una mela
sui piedi degli altri.
Questa è la più grande confessione,
che mai teppista possa rivelarvi.

Io porto a bella posta la testa spettinata,
lume a petrolio sopra le mie spalle.
Mi piace illuminare nelle tenebre
l’autunno spoglio delle vostre anime.

E mi piace quando una sassaiola di insulti
mi vola contro, come grandine di rutilante bufera,
solo allora stringo più forte tra le mani
la bolla tremula dei miei capelli.

È così dolce allora ricordare
lo stagno erboso e il suono rauco dell’ontano,
che da qualche parte vivono per me padre e madre,
che se ne fregano di tutti i miei versi,
e che a loro sono caro come il campo e la carne,
come la pioggia fina che rende morbido il grano verde a primavera.
Con le loro forche verrebbero a infilzarvi
per ogni vostro grido scagliato contro di me.
Miei poveri, poveri contadini!
Voi, di sicuro, siete diventati brutti,
e temete ancora Dio e le viscere delle paludi.
O, almeno se poteste comprendere,
che vostro figlio in Russia
è il più grande tra i poeti!
Non vi si raggelava il cuore per lui,
quando le gambe nude
immergeva nelle pozzanghere autunnali?
Ora egli porta il cilindro
e calza scarpe di vernice.
Ma vive in lui ancora la bramosia
del monello di campagna.
Ad ogni mucca sull’insegna di macelleria
da lontano fa un inchino.
E incontrando i cocchieri in piazza,
ricorda l’odore del letame dei campi nativi,
ed è pronto a reggere la coda d’ogni cavallo,
come fosse uno strascico nuziale.

Amo la terra natia!
Amo molto la terra dei miei padri!
Anche con la sua tristezza di salice rugginoso.
Adoro i grugni infangati dei maiali
e nel silenzio della notte, la voce limpida dei rospi.
Sono teneramente malato di ricordi infantili,
sogno delle sere d’aprile la nebbia e l’umido.
Come per scaldarsi alle fiamme del tramonto
s’è accoccolato il nostro acero.
Ah, salendo sui suoi rami quante uova,
dai nidi ho rubato alle cornacchie!
È lo stesso d’un tempo, con la verde cima?
È sempre forte la sua corteccia come prima?
E tu, mio amato,
mio fedele cane pezzato?!
La vecchiaia ti ha reso rauco e cieco
vai per il cortile trascinando la coda penzolante,
e non senti più a fiuto dove sono portone e stalla.
O come mi è cara quella birichinata,
quando si rubava una crosta di pane alla mamma,
e a turno la mordevamo senza disgusto alcuno.

Io sono sempre lo stesso.
Con lo stesso cuore.
Simili a fiordalisi nella segale fioriscono gli occhi nel viso.
Srotolando stuoie d’oro di versi,
vorrei dirvi qualcosa di tenero.
Buona notte!
A voi tutti buona notte!
Più non tintinna nell’erba la falce dell’aurora…
Oggi avrei una gran voglia di pisciare
dalla mia finestra sulla luna.
Una luce blu, una luce così blu!
In così tanto blu anche morire non dispiace.

Non m’importa, se ho l’aria d’un cinico
che si è appeso una lanterna al sedere!
Mio buon vecchio e sfinito Pegaso,
M’occorre davvero il tuo trotto morbido?
Io sono venuto come un maestro severo,
a cantare e celebrare i topi.
Come un agosto, la mia testa,
versa vino di capelli in tempesta.

Voglio essere una gialla velatura
verso il paese per cui navighiamo.