C’è un’esperienza, piuttosto comune per chi va per monti, per la quale provo un fascino assoluto.
Se non è il principale motivo per il quale amo andare lungo i sentieri, è certamente il principio a cui mi ispiro nella scelta dei percorsi.
Parto da lontano.
La mia testa funziona in modo bizzarro: sono capace di perdermi al volante della mia auto, ma ogni metro che faccio a piedi lascia una traccia indelebile nelle mie sinapsi. E ogni traccia va a comporre un’accurata mappa generale con la quale mi oriento.
Le tracce nel mio cervello sono molto particolari e molto dettagliate: so che salendo un sentiero incontrerò un albero torto o che poco dopo la curva, appena oltre il rudere della stalla, ci sarà una fonte d’acqua. E a rendere vivido il particolare, a fissarlo in modo permanente nella mia testa, ci sono i ricordi personali (qui mi sono fermato a mangiare, qui ho visto quel gruppo di stambecchi, qui mi sono sdraiato a prendere il sole) e le emozioni (il vento sul viso quel giorno con le nuvole, la paura di dover tornare indietro, la soddisfazione di una vetta).
Così la sensazione che più amo è quando un pezzo di sentiero si congiunge ad un altro pezzo, e la mia mappa si allarga, delle aree grigie diventano vivide. Quel piccolo click mentale della tessera del puzzle che va al suo posto.
Amo le carte geografiche, le mappe dei sentieri, le studio prima dell’escursione e le riguardo dopo. Collego ogni simbolo grafico ai miei ricordi. Così spesso mi basta scorrere il dito su una vecchia cartina per rivivere dei bellissimi istanti.
Nelle giornate di pioggia o in questi giorni di autoisolamento, è bello passare un pomeriggio in compagnia di queste vecchie amiche.
Poi ci sono gli atlanti stradali.
Carte pensate per chi viaggia in automobile. Grosse linee che balzano fuori dalla carta e annullano i particolari. Paesi che diventano puntini, ponti che sono un tratteggio, montagne appiattite e fiumi trasformati in linee sottili e quasi invisibili.
Un po’ quello che succede quando viaggi in autostrada e la velocità rende sfocato il paesaggio, annulla odori e suoni, confonde i colori.
Ed ecco che torniamo al punto di partenza.
Nulla mi dà più soddisfazione di quando, valicando un colle e scendendo al paese di fondo valle, realizzo che a piedi ho fatto molta meno strada che gli altri in automobile. E’ la vendetta di Davide su Golia, la rivincita dei poveri, ma mi riempie il cuore di orgoglio.
Potete immaginare la Valle d’Aosta come una lisca di pesce. Dalla valle centrale dove scorre la Dora, si dipartono numerose valle laterali.
Per congiungere il paese in testa ad una valle laterale con il suo omologo nella valle parallela, le strade asfaltate ridiscendono fino alla valle centrale.
Noi no. Noi balziamo di colle in colle, di paese in paese, senza mai deviare dall’obbiettivo.
Questo prendere la distanza dall’asfalto, il ricercare uno spazio ancora selvaggio, un cammino a misura d’uomo e non di veicolo, è il mio Sacro Graal.
Le due Alte Vie che cingono la Valle (il percorso del Tor des Géants per i trailers) sono un perfetto esempio di tutto ciò.
Ma ce ne sono molte altre: i percorsi dei ru (i canali disegnati dall’uomo per portare acqua ai campi), le vie che congiungono le valli, e quelle che io chiamo concatenazioni (rubando il termine all’alpinismo) linee immaginarie che mettono insieme luoghi a me cari o, più semplicemente, le case degli amici alla mia.
In questo inverno strano, sto percorrendo a tratti il Cammino Balteo, che pecca forse di essere troppo vicino alla valle centrale e all’autostrada che la percorre, ma in cambio regale scorci particolarissimi e piccole gemme dimenticate.
Ma di questo bisognerà parlarne in un altro momento…