Ieri sera la tabella di allenamento prevedeva un bel 6 x 1000, quindi dopo il canonico riscaldamento intorno alla Montagnetta sono entrato al Campo XXV Aprile.
La pista è un mondo a sè.
Autoreferente, sganciato dal resto mondo.
Il GPS non serve più, basta il vecchio cronometro.
Perfino il concetto stesso di correre si modifica: fuori significa viaggiare velocemente (a volte il più velocemente possibile) da un posto all’altro, dentro si perde il senso del viaggio, dell’esplorazione.
E resta la corsa nel suo senso più puro.
Non è un caso che in pista vedi i veri atleti, ragazzi e ragazze il cui corpo è stato modellato dalla fatica e dal vento.
Non corrono, scivolano leggeri, volano sfiorando il tartan.
Sono movimento che diventa danza, potenza che nella bellezza del gesto si fa poesia.
E poi ci siamo noi, i tapascioni che arrancano a metà della loro velocità.
Noi corriamo pesanti, le caviglie bloccate, le ginocchia rigide, senza sollevare i piedi da terra.
Eppure anche noi, in quel tempio della velocità, ci sentiamo un po’ più atleti, dimentichiamo di contare i chilometri e pensiamo ai giri di pista.
Un’altra cosa che affascina del campo sportivo, infatti, è che è universale.
Un giro di pista è lungo 400 metri. Che tu sia a Pechino, a San Pietroburgo, a Milano o a Formia, fuori il mondo cambia, dentro è lo stesso.
I segni lungo il cordolo che indicano le partenze delle varie gare, 200, 4×100, 1500, 5000.
Numeri che hanno un potere magico per gli appassionati di atletica.
Numeri che si trasformano in minuti e secondi nell’epopea condivisa da tutti e in quella personale.
“Mi ricordo i 19″72 di Mennea” “La prima volta che Bannister andò sotto i 4 minuti sul miglio” “Ai Giochi della Gioventù avevo un 12″5 secco sui 100, poi ho dovuto smettere”.
Anche i gesti della pista sono simili a tutte le latitudini.
Il riscaldamento lento dei velocisti, coperti con la tuta, con quei movimenti pigri che ricordano quelli dei felini.
I movimenti caricaturizzati e buffi delle andature, il pinocchietto, lo skip, la corsa calciata…
La rincorsa a passetti brevi dei saltatori, che formano un mondo a parte e che si scambiano non si sa quali segreti intorno al materasso del salto in alto mentre i velocisti si muovono tutti assieme come un branco nel rettilineo dei 100 metri.
Persino le specialità sono facili da riconoscere basandosi sui fisici: la mole imponente dei lanciatori, la grazia dinoccolata dei saltatori in alto, i glutei possenti dei velocisti e le fibre lunghe dei mezzofondisti.
A tutto questo pensavo, mentre giravo alternando un mille e un 400 di recupero.
Il caldo la faceva ancora da padrone e il crono segnava impietoso un decadimento delle mie prestazioni tra una ripetuta e l’altra.
Eppure io combattevo la mia personale battaglia.
Contro il caldo.
Contro l’acido lattico che mandava segnali di resa al cervello.
Contro la mia testa che mi diceva di smettere.
Giravo sulla prima corsia e guardavo i ragazzi che volavano.
Mi chiedevo cosa ci facessi lì, quasi fosse un sacrilegio, un’offesa agli dei della velocità.
Ma c’è spazio per tutti in quei 400 metri.
Un mondo intero, con tutte le sue diversità.
Un popolo accomunato, non dal ceto o dal censo, non dalla razza o dall’ideologia, ma dalla passione pura per questo meraviglioso sport.