Venerdì l’ho ritirato, e sabato mattina lo avevo letto.
Perché Running Wild, il libro scritto da Markus Torgeby ed edito da Utet, si legge tutto d’un fiato.
Esattamente nello stesso modo in cui l’autore vive.
Alla fine sì, è anche un libro di corsa, ma in un modo diverso da tante autobiografie che ho letto in passato.
Torgeby non è un campione (anche se, viste le velocità a cui viaggia, lo metterei tra gli amatori semi professionisti).
Ma a lui non importa gareggiare, importa solo correre.
Un’autobiografia, dicevo, ma di una persona, non di un corridore. E proprio per questo ti tira dentro fin dalle prime pagine.
Forse anche per quel po’ di curiosità morbosa che ci fa spiare attraverso la porta del vicino, per vedere cosa combina.
E Markus Torgeby di cose “particolari” ne fa parecchie.
Fin da bambino, quando fatica a restare fermo in classe, e la maestra – tanto per garantirsi la sua attenzione – ogni tanto gli permette di fare tre giri di corsa intorno alla scuola prima di rimettersi al banco con gli altri.
Una storia estremamente umana e raccontata con il cuore aperto.
Dalla malattia della madre che segna lui e la sua famiglia, a quel senso di irrequietezza che gli fa cercare di spingersi sempre un po’ oltre: magari a lanciarsi da una scogliera, o correre fino a sfinirsi, o – ed è questo il cuore del libro – ad abbandonare tutto e tutti e vivere per mesi in una sorta di tenda autocostruita in mezzo ad una foresta svedese.
Non si tratta di una fuga dagli altri ma un modo per cercare di capire come vivere. Come gestire il turbinio di sensazioni, paure, pensieri, emozioni che lo spingono a correre o sciare fino ad esaurirsi.
In Running Wild la corsa è omnipresente.
Dopo aver visto una staffetta di atleti africani gareggiare, si innamora della loro falcata leggera e chiede di potersi allenare con loro. E parte per sei mesi in Tanzania, dove condividerà la vita di questi ragazzi, resitutendoci uno spaccato intenso della vita in un campus africano, dove correre è un mestiere che ti permette di avere un futuro diverso, ma che è mille miglia lontano da quello che possiamo immaginare noi europei.
L’esperienza in Tanzania, con tutti i problemi che ha comportato, compresa un’incipiente anoressia, tratteggiata e non dichiarata nel libro, segna il punto di maturazione di Markus Torgeby, che ha sperimentato (probabilmente) abbastanza e si sente pronto ad affrontare una nuova fase della propria vita. Una fase condivisa con una nuova famiglia, una fase in cui trova un equilibrio, ma che non cancella il percorso che ha fatto per arrivare fin lì, tanto che porta spesso i figli in quella radura dove ha vissuto intensamente la sua maturazione.
Una storia potente.
Una storia estremamente “umana”, che ci permette di specchiarci negli impulsi di Torgeby, e di misurare la nostra voglia di realizzarci contro tutto.
Avevo titolato il mio ultimo post, quello in cui raccontavo lo strano percorso attraverso il quale questo libro mi aveva raggiunto, “Il cuore del corsaro”. Era stata una capriola carpiata, avevo un titolo in svedese (lingua che non conosco assolutamente) e avevo usato Google Translator per arrivare ad una versione inglese (The raider’s heart). Poi un amico che lo svedese lo parla mi ha spiegato che significava “Il cuore del corridore”.
Però le parole a volte seguono percorsi strani per arrivare a svelare significati inattesi.
Credo che Markus Torgeby sia un corsaro: un uomo che vive intensamente, al di fuori delle regole e delle convenzioni. E poi è evidente la radice “corsa” nella parola “corsaro” (anche se so bene che di altre corse si trattava) e mi piace pensare che anche lui amerebbe essere definito così.
Leggete, leggete, leggete.
E fatemi sapere cosa ne pensate.
[Questo il link ad un estratto del libro su Repubblica dei Runner]