Il fattore Tempo

Nella nostra società il concetto di Tempo sta assumendo una valenza negativa, ma negare il giusto tempo alle cose porta solo guai

Giovedì sera sono andato a Milano, al Palasport di Assago, ad assistere al musical Grease, messo in scena dalla Compagnia della Rancia. Uno spettacolo travolgente, due ore di ritmo e risate, e per me che amo questo genere, una serata davvero speciale.

Poi, rientrando verso casa in auto, mentre canticchiavo le canzoni, ho provato a fare un po’ di conti.

Il film Grease, quello con John Travolta e Olivia Newton-John, è uscito nei cinema nel 1978, quindi quasi mezzo secolo fa. Eppure è ancora fresco e piacevole (tra il pubblico c’erano parecchi ragazzi), un vero evergreen.

Dopo averlo visto dal vivo, mi è tornata la voglia di rivederlo in originale, quindi – arrivato a casa – l’ho cercato on line. Però l’esperienza mi ha un po’ deluso. Come se i colori fossero stinti, come se il ritmo della pellicola fosse rallentato. Il ricordo era superiore alla realtà.

Grease

Questo succede molto spesso.
Il Tempo è una potente lente deformante. Forse per un meccanismo di autodifesa, ogni esperienza viene mondata delle parti brutte mentre vengono conservati i particolari piacevoli. Se da un lato ciò ci protegge dai ricordi brutti, al contrario crea un’aspettativa esagerata sulle cose belle che abbiamo vissuto e che cerchiamo di rivivere. E queste aspettative rimangono deluse…

Ma c’era un’altra idea che mi frullava per la testa, un’idea che esprimo con un bisticcio di parole: “Il concetto di Tempo, con il passare del tempo, è mutato”.

Quando uscivano i grandi classici (almeno per quelli della mia generazione) tipo Grease o Guerre Stellari o I guerrieri della notte, si andava a vederli al cinema e poi se ne conservava il ricordo per alcuni anni fino a quando, finalmente, riuscivamo a rivederli alla televisione. E ne pregustavamo le scene salienti, magari facendo gruppo con quelli che non erano riusciti a vederli la prima volta.

Oggi i film escono in contemporanea nelle sale e nei canali a pagamento (anzi, alcune volte prima nei canali a pagamento). Quindi ci viene tolto il piacere sottile dell’attesa.

La stessa cosa capita in molte altre occasioni.
Una volta attendevamo con ansia il compleanno o il natale per ricevere un oggetto cui tenevamo. Oggi lo ordiniamo su Amazon e il giorno dopo è a casa.
Una volta si usciva a cena con gli amici solo per le grandi celebrazioni, oggi andiamo in pizzeria o al ristorante almeno una volta a settimana.
Gli amici lontani tornavano a casa raramente, e allora ci si ritrovava al bar per sentirli raccontare le novità. Oggi, una call su Skype e il gioco è fatto.

Si sta meglio oggi o allora?
Sicuramente stiamo meglio oggi.

Ma questo poter accedere a tutto subito, ha distorto il concetto di Tempo.

Una volta l’attesa (pur quando comportava una piccola sofferenza) era un moltiplicatore del piacere. Oggi è solo motivo di lamentela.

E se il Tempo acquisisce una valenza negativa, allora tutte le cose che sono connesse ad esso diventano il Male.

Per questo oggi vogliamo nascondere l’età che abbiamo e i segni del passare del Tempo sul nostro corpo.

Per questo cambiamo spesso vestiti, auto, smart phone o televisione. In una perenne ricerca di novità.

Per questo, magari, accettiamo il nuovo come positivo e il vecchio come superato, abbassando quella difesa che è il pensiero critico.

Ma rinnegare il Tempo ci fa commettere errori grossolani. Ogni cosa ha bisogno del suo tempo per maturare, che sia un frutto o un’idea. Ogni lavoro ha bisogno di un certo tempo per essere fatto bene, le scorciatoie sono un’illusione.

Provare ad ingannare il Tempo è una scelta foriera di guai.

Puoi ascoltare questo episodio dalla mia voce:

Ascolta “Il Fattore Tempo” su Spreaker.

Fight Club, il libro

Per una volta, leggere il libro dopo aver visto il film ti fa gustare l’abilità di Palahniuk nell’accompagnarti nello schizofrenico mondo di Fight Club

fight club

Mai come per questo libro, è difficile – se avete visto l’omonimo capolavoro cinematografico firmato da David Fincher e con degli attori giganteschi come Brad Pitt ed Edward Norton – tenere separate nella lettura le scene immaginate capitolo dopo capitolo da quelle viste al cinema.

Ho deciso di ordinare il libro dopo aver letto un commento sui social in cui si diceva che il film era bellissimo ma il libro non era da meno.

Conoscevo l’autore, Chuck Palahniuk, che mi aveva letteralmente stregato con il suo Soffocare (anch’esso edito da Mondadori), ma avevo ritenuto superfluo leggere Fight Club (che tra l’altro è opera prima di Palahniuk) perché pensavo che davvero poco si potesse dare oltre a quanto espresso su pellicola.

Invece…

Dopo aver litigato con le prime pagine, che sembravano ostiche, e dopo aver accettato di usare le facce di Pitt, Norton e degli altri protagonisti del film, come controfigure alla mia immaginazione, ho finalmente iniziato a gustare il libro. E ne sono stato letteralmente risucchiato.

La storia è geniale. Non la racconto perché credo che il mondo si divida tra chi la conosce e chi, non conoscendola, mi odierebbe se la anticipassi qui.

Ma quello che Palahniuk riesce a fare, pagina dopo pagina, capitolo dopo capitolo, è di creare un vortice frenetico di parole che rende perfettamente la sensazione dell’universo schizofrenico del protagonista/narratore.

Paragonandolo alla scrittura dei grandi classici, è stridente la differenza: nei primi, le parole sono usate per il loro significato. Ogni sfumatura di senso serve a dettagliare; le sensazioni sono descritte come lo sono i personaggi e le ambientazioni. In questo romanzo, invece, il suono e il ritmo delle parole travalica il significato e trasmette esso stesso le sensazioni che l’autore vuole ricreare.

Ne risulta un racconto avvolgente, con ripetizioni che – lungi da diventare pesanti – servono a condurre in quella spirale che lentamente ci porta al gran finale.

Finale che (allarme spoiler) si differenzia in parte dalla storia del film.

La realizzazione cinematografica del romanzo è un capolavoro essa stessa. Impossibile leggere il libro e non restare affascinati dalla maestria con cui il regista, David Fincher, ha creato il mondo di Tyler e ha diretto gli attori.

Quindi, riassumendo.
Avete visto il film? Leggete il libro.
Non avete visto il film, ma avete letto il libro? Guardate subito il film.
Non avete visto il film e non avete letto il libro? Per una volta date la precedenza al film, leggere il libro sarà ancor più piacevole conoscendo dove l’autore va a parare.

Fight Club
Chuck Palahniuk
Mondadori, Oscar
190 pagg, euro 13,00

Oltre il fumetto

locandina Joker

Hanno preso un fumetto, lo hanno sezionato ottenendo lo spin-off della storia del cattivo per antonomasia e creando un capolavoro.
Alla fine esci dalla sala a bocca aperta. Sai di aver visto qualcosa di grande ma è contrario a tutto il sistema di valori che hai dentro.

Joker, nei fumetti DC, è poco più di una caricatura del cattivo.
Ma ecco il colpo di genio, dargli profondità, creare una storia che – in qualche modo – da un senso (perché di certo non lo giustifica) al suo essere un malvagio perfetto.

A questo aggiungiamo un grandissimo attore come Joaquin Phoenix che viene lasciato libero di creare un mostro. Gioca sopra le righe, ricorda un po’ Johnny Depp quando ha dato vita al celebre Capitano Jack Sparrow, ma questa volta ne esce un personaggio drammatico e sempre sul sottile filo della pazzia.

Deve aver lavorato moltissimo sul personaggio, così che ogni particolare, ne trasmette l’immagine amplificata.

La risata di Joker, malata, angosciosa, sintomo del suo disagio.
La faccia di Joker, truccata o meno, da cui traspare tutto il suo dilaniarsi interiore.
Il corpo di Joker, magro, scavato, anch’esso incarnificazione della pazzia.
I balli di Joker, unico momento in cui la sua anima trova pace, come una sospensione sull’abbisso.

Il regista, Todd Phillis, non fa altro che lasciare ampi spazi alla prova attoriale di Phoenix, richiamando con alcune citazioni i più celebri Batman del passato (Gotham sotto la pioggia, il manicomio, la rivolta finale) e sottolineando la bravura del protagonista.

Persino Robert De Niro (che interpreta Murray Franklin, una specie di Letterman) rimane sullo sfondo.

Gran bel film. Sicuramente da guardare.

La drammatica considerazione finale è che il film è lo specchio di questa nostra era. Il bene ed il male si confondono. Persino i valori negativi diventano un buon motivo per opporsi al potere.

E’ un film destabilizzante. Esci con la sensazione che il vuoto delle motivazioni di Joker, basate sulle sue allucinazioni psicotiche, diventano paradigma per una rivoluzione del popolo contro il potere.
E tu non sai più a cosa credere.