Il riciclo è un’arte

Il martedì mattina, intorno alla Montagnetta di San Siro, è giorno di raccolta immondizia.
Sovente, correndoci, incrocio una coppia di zingari che frugano nei sacchi dell’indifferenziata a caccia di qualcosa di utile.

A volte è lei ad esaminare soddisfatta un vecchio maglione o un paio di jeans.
A volte è lui a sollevare una coppia di diffusori da pc o un elettrodomestico da cucina.
Ed ogni volta mi colpisce con forza l’evidenza che ciò che noi chiamiamo spazzatura per altri possa celare doni inaspettati.

Quel particolare martedì (parlo di cinque anni fa ormai) correvo con Matteo, un ragazzo cieco che accompagnavo durante i suoi allenamenti lenti.
E’ appassionato di storie e gli raccontavo di un altro zingaro, Django Reinhardt, che suonava così bene il banjo da essere ingaggiato a soli 15 anni, da una popolare orchestra jazz.

Django Reinhardt

Ma la felicità del ragazzo era stata di breve durata.
Il carrozzone dove viveva era andato a fuoco e lui aveva subito delle lesioni gravissime alla gamba destra e al braccio sinistro, tanto che non poteva più muovere il mignolo e l’anulare, in pratica la fine della sua carriera di musicista.
Invece il giovane Django, nell’anno di ospedale che c’era voluto per rimetterlo in piedi, si era esercitato con la chitarra che suonava con maestria totale e, ovviamente, uno stile “a due dita” del tutto personale.

Django Reinhardt oggi è considerato una leggenda del jazz e un esempio per i chitarristi.

E Matteo aveva commentato: “Che storia! Che personaggio! E’ riuscito a riciclarsi”

Allora i due pezzi si sono incastrati, la coppia di zingari che riciclavano i nostri rifiuti e il vecchio Django che era riuscito a riciclare se stesso e la sua vita, mi sono apparsi collegati in un’altra prospettiva.

Lo strumento che c’è alla base della filosofia del riciclo sono gli occhi con cui guardi le cose.
Che si tratti di un vecchio oggetto o di quello che vedi nello specchio al mattino, l’importante è cambiare l’atteggiamento, puntare a quello che si può ancora ottenere da noi stessi e non a quello che non possiamo più fare.
Una forma di ottimismo delle azioni.

E che ad insegnarmelo siano stati degli zingari… beh, quello aggiunge fascino alla storia…

Milano ed io

Mi sono avvicinato a Milano con il sospetto di molti pregiudizi, ma grazie ad un amico che me ne ha fatto conoscere il cuore nascosto, mi sono innamorato di lei.

Milano

E’ accaduto una notte. Forse più mattina che notte. Stavamo bevendo una birra in un locale dopo un’interminabile giornata di lavoro in una redazione ed eravamo rimasti solo noi e un tipo mezzo addormentato. O ubriaco.

Indossava un paio di pantaloni scuri, una camicia bianchissima e un paio di bretelle appariscenti. La testa abbandonata sulle braccia conserte, seduto ad uno sgabello del bancone, i piedi appoggiati ad una custodia rigida nera.

Quando il barista lo ha scosso per ricordargli che era ora di chiudere, quello ha iniziato a suonare un trombone estratto dalla custodia. Una specie di canto della buonanotte, un pezzo in cui risuonava la sua solitudine e la sua volontà di restare in piedi. Alla fine, senza aggiungere una parola, ha riposto lo strumento, chiuso la custodia e se n’è andato.

Il barista, a mo’ di spiegazione, mentre lo salutavamo andandocene, ha detto “E’ uno dei trombonisti della Scala, viene qui un paio di volte al mese” e – quasi a spiegare la scena – “Dev’essere scozzese o irlandese”.

In quel momento ho capito che quella era la mia città.