Una breve recensione all’ultimo libro di Matteo Caccia, un testo che svela attraverso le storie come lavori il celebre conduttore radiofonico
Ho l’abitudine di comperare i libri pubblicati dai miei amici. Lo faccio a prescindere dal loro contenuto, un po’ perché mi fa piacere restare aggiornato su quello che combinano, un po’ perché scrivere un libro è una fatica ben maggiore che acquistarlo e leggerlo, e quindi mi sembra giusto tributare loro almeno questo semplice omaggio. Poi ci sono quei casi, e questo è uno di quelli, in cui mi viene voglia di parlarne.
Per analizzare “Voci che sono la mia” è necessario spendere due parole su chi l’ha scritto.
Matteo Caccia è un’autore radiofonico ed un attore. Ha scritto e condotto programmi come Amnèsia e Pascal (su Radio2) o Vendo Tutto e Linee d’Ombra (su Radio24), è autore di podcast che hanno avuto un grande successo come La piena o Oltre il confine, è l’ideatore del format Don’t tell my mum che allieta da anni le serate del Pinch, un locale di Milano. Insomma ha costruito una carriera di successo sulle storie e sulla voce.
L’ho conosciuto grazie alla corsa, nel 2017 siamo andati assieme a New York per correre la maratona, ma lo avevo apprezzato già prima, seguendo i suoi programmi radiofonici. Matteo è anche un insegnante della celebre scuola Holden di Torino. E quest’ultima informazione è preziosa per capire meglio il libro di cui vi voglio parlare oggi.
Mentre mi apprestavo a scrivere queste note mi sono chiesto come descriverlo: non è un romanzo, non è un saggio, non è una raccolta di storie vere. Forse la cosa a cui si avvicina di più è l’autobiografia di un narratore umile, di un uomo che si è messo al servizio delle storie per dar loro una voce.
Attraverso una ventina di racconti, Matteo Caccia ci introduce nel suo mondo e nella sua professione (mi veniva quasi da scrivere la sua missione). Da bravo studioso del suo campo, analizza cosa sia una storia, come si crei quel vincolo speciale tra chi racconta e chi ascolta, come ogni storia ci cambi la vita, sia quando ne siamo protagonisti sia quando, semplicemente, la ascoltiamo.
Matteo è uno scrittore ed un attore. Se non fosse entrambe le cose, programmi come quelli che lo hanno reso celebre non esisterebbero. Impresta la sua voce alle storie degli altri (come fanno i bravi attori) ma è anche in grado di creare l’humus narrativo per lasciare ai protagonisti lo spazio per emergere. Sembra tutto facile, ma c’è fatica e studio dietro ogni racconto. E questo testo alza un po’ il velo sull’oscuro lavoro svolto prima di andare in onda.
A mio giudizio, è un libro che non dovrebbe mancare nelle librerie di chiunque desideri scrivere e di chi è appassionato di linguaggi e scrittura. Ma è anche un appassionante spaccato di vita reale, una collezione di umanità varia, raccontata con garbo e un immenso rispetto.
In oltre 20 anni di carriera radiofonica, Matteo Caccia ha ascoltato migliaia di persone raccontare i loro ricordi, le loro storie, e quelle più interessanti sono finite in una cartella del computer di Matteo, in attesa di essere raccontate. Il titolo, fulminante nella sua semplicità, descrive bene il libro. Storie che sono la mia è un modo per Matteo Caccia di raccontarsi attraverso le pieghe delle storie altrui.
Voci che sono la mia Come le storie ci cambiano la vita di Matteo Caccia Edito da Il Saggiatore 191 pp / 18,00 euro
Chi segue il mio blog ha ormai sentito fino alla nausea che mi sto preparando per la maratona di New York che si correrà a Novembre e che lo faccio all’interno del progetto 26 settimane per 26 miglia (#26W26M), nel quale raccolgo fondi per Emergency (che mi ha offerto il pettorale della gara).
Ma magari qualcuno non sa che non sarò solo in questo viaggio.
Ho colto l’occasione di una sgambata in compagnia per fare qualche domanda ad uno dei miei compagni. Si tratta di Matteo Caccia, la voce di Pascal(che potete ascoltare dal lunedì al venerdì alle 22:30 su Rai Radio2). Personalmente sono un fan di Matteo da molti anni. Le sue storie mi hanno fatto compagnia, mi hanno fatto ridere, sognare, riflettere. Hanno suscitato emozioni che è quello che una buona storia dovrebbe fare…
Allora Matteo, come ti è nata questa passione per le storie? “Mia mamma dice che sono stato bravo a trasformare un difetto in un mestiere: essere troppo curioso. Sono sempre stato naturalmente attratto da quello che raccontano di sé le persone. E quando durante un programma radiofonico che si chiama “amnèsia” raccontavo una storia e ho iniziato a riceverne diverse dagli ascoltatori ho pensato che in quei racconti ci fosse del materiale molto interessante”.
Tra le attività che fai c’è un happening che si chiama “Don’t tell my mom”, un evento in cui delle persone si ritrovano in un locale e raccontano una loro storia personale con un fattore in comune, deve trattare di qualcosa che non confideresti alla mamma di Matteo. Un’idea geniale per cui una volta al mese si riempie un locale sui Navigli a Milano e in alcune altre città italiane. Come ti è venuta l’idea? E quanto è difficile far parlare una persona? “Lavoro da anni con le storie delle persone in forma scritta, che racconto poi io restituisco alla radio con la mia voce, volevo capire che cosa sarebbe successo se le storie fossero state raccontate dalle persone e dalla loro viva voce. Avevo bisogno di un luogo accogliente e che non intimorisse (non un teatro per intenderci), e ho iniziato ad invitare degli amici a raccontare intorno ad un tema largo ma chiaro “cose che a tua madre non racconteresti”, poi lentamente le persone hanno iniziato ad arrivare e proporsi con le proprie storie. Ormai sono 3 anni che accade il primo lunedì di ogni mese e le storie e il pubblico sono sempre di più”.
Ma quindi ciascuno di noi ha qualcosa di interessante da raccontare? “Ciascuno di noi ha degli episodi che di per sé sono interessanti perché hanno segnato la nostra vita, nel bene, nel male, in maniera evidente e immediata o in modo lento e graduale, tutto sta nel riuscire ad individuare quei momenti e raccontare in maniera onesta e sincera”.
Stiamo correndo, quindi la domanda è d’obbligo. Come ti è scattata questa cosa del podismo? “Il podismo è arrivato perché un ascoltatore del mio programma che lavora nel mondo della corsa mi ha sentito dire che la corsa era noiosissima, perché non c’era né un palla, né un pallone in ballo e mi ha detto “come faccio a farti cambiare idea?” e io gli ho risposto: mandami a fare una maratona. Dopo 4 mesi ero a New York”.
Beh, è stato un bel salto nel buio… e adesso a New York tornerai anche per sostenere Emergency. A proposito nel sito di Rete del Dono (dove è possibile fare le donazioni a sostegno del progetto) hai scritto: “Quande finisce è un grande sollievo” Quindi per te correre è bello soprattutto quando non lo fai? “No correre è bello soprattutto quando ho finito. Invidio molto quelli che provano piacere nell’atto della corsa. Per me che sono pigro ogni volta che penso di dovere fare un lungo di 30 km cerco una qualche scusa per non farlo, poi essendo metodico mi vesto, esco, e dopo 3 ore sono a casa felicissimo perché è finita!”
Come concili la corsa con la tua vita professionale e familiare? “Non ho un lavoro che mi obbliga a stare in un posto da una certa ora ad un’altra, se guardo il calendario di questo anno da settembre da oggi non ho avuto una settimana uguale ad un’altra. Lavorare per conto proprio da una parte è un vantaggio dall’altra è un impedimento perché non sai mai quando hai veramente finito di lavorare e quando invece è meglio che continui. Quindi serve molta autodisciplina per dirsi “ora, ti fermi ed esci a correre per un’ora, poi ritorni e prosegui”. Spesso anche nei fine settimana sono via per eventi, spettacoli, presentazioni o festival e quindi mi è capitato di correre un po’ dappertutto in Italia, domenica ad esempio ho fatto l’allenamento sullo splendido lungomare di Livorno ed ero felicissimo”.
Com’è il tuo rapporto con le gare? “Della gara la cosa che mi interessa è il fatto che sia un obiettivo da raggiungere. In uno sport come questo in cui non puoi “vincere una gara” ma l’unica gara è contro di te, per me sapere di avere una data, mi aiuta a organizzare la tabella e darmi degli appuntamenti. Per il resto non amando luoghi troppo affollati o pieni di casino cerco di starci lontano. Detesto, ad esempio, lo speaker che alla partenza delle gare urla con la musica a palla”.
Un’ultima domanda, ho appena letto il tuo ultimo libro “Il silenzio coprì le sue tracce”, la storia di un uomo che abbandona la città per la montagna. La storia presenta molte sfaccettature e degli sviluppi inaspettati tanto che il libro si legge d’un fiato. Direi che è rappresentato il prepotente bisogno di un ritorno alla Natura. Com’è nato il romanzo? Ti sei ispirato a qualche storia che avevi raccolto in giro o è tutta fantasia? Quanto c’è di autobiografico? “Il romanzo è nato per una passione sfrenata per il lupo e per tutto quello che simboleggia, per la sua natura selvatica e lontana dall’uomo, per il suo vivere sociale in mezzo al branco, la storia ci è nata intorno. C’è poco di auto biografico se non il desiderio latente di avere silenzio intorno, e di stare in silenzio a lungo (e per uno che parla alla radio tutti i giorni per un’ora è una bella sfida)”.
Com’è il tuo rapporto con la Natura? “Io son un cittadino, vivo a Milano da 22 anni, anche se vengo un paese di campagna. La natura che vivo è il mio cane che dorme sul divano e l’erba da tagliare nella casa di campagna. Poi c’è la natura a cui aspiro, quella che non è ne benigna né maligna, ma è la natura che fa il suo corso e si riprende qualsiasi cosa di cui l’uomo non curi più”.
E così è finita la chiacchierata (o almeno la parte pubblica di essa), ma c’è un’interessante seguito. Se vi interessa, potete venire a sentire alcune storie di corsa a Bologna alla Repubblica delle Idee venerdì 16 giugno alle 14:30. Il titolo è “Tre minuti al via”. Ci sarà Matteo Caccia, ci sarò io e ci sarà Giovanni Storti. Maggiori info a questo link