Gabbiani o falchi?

Sono cresciuto in una città di mare, avevo 6/7 anni quando uscì in Italia il romanzo più famoso di Richard Bach: Il gabbiano Jonathan Livingstone.
Già all’epoca ero un lettore appassionato e lo divorai in un pomeriggio.

Per i pochissimi che non lo hanno letto, è la storia di un giovane gabbiano più interessato a scoprire come perfezionare la tecnica di volo che a riempirsi la pancia (trovate qui la scheda su Wikipedia).

All’epoca andava tantissimo. Le mamme lo regalavano ai figli adolescenti per formarne il carattere, per dimostrare loro come sia importante credere in un progetto e dedicarvisi completamente.

Io lo adoravo.
L’ho letto decine di volte.
Osservavo incantato le immagini delle evoluzioni dei gabbiani che, stampate su carta traslucida, corredavano il volume.

E volevo volare.

Non in senso letterale (imparare a pilotare un aereo non mi è mai interessato) ma in senso metaforico. Volevo imparare a spingermi ai miei limiti.
Poi sono cresciuto (e ho amato altri libri che hanno segnato le mie diverse età).

Il gabbiano restava un simbolo di libertà, ma il simbolo si scontrava con la dura realtà dei grossi volatili che scorgevo, sgraziati e rauchi, lottare per gli scarti dei pescherecci nel porto di Trieste. O, ancora peggio, che vedevo strappare i sacchi dell’immondizia nei cassonetti delle vie del centro.

Ma il gabbiano Jonathan Livingstone mi è tornato in mente un paio di settimane fa, mentre passeggiavo in un bosco dietro casa in Valle d’Aosta, ho sentito il grido acuto del falco e ne ho scorto l’ombra scivolare leggera sull’erba di una radura.

Mi sono detto con una punta di autocompiacimento “Preferisco il falco al gabbiano! Sono un uomo di montagna e non di mare”, ingannando me stesso, sovrapponendo l’animale al simbolo.

gabbiano

Il falco o il gabbiano sono solo la proiezione del nostro desiderio di volare, di innalzarci, di essere liberi.

Non hanno nulla a che fare con l’individuo che solca il cielo sopra di noi, ma sono quel cumulo di emozioni che vola dentro di noi. Nella testa. Nel cuore.

Allora mi è venuto da pensare agli altri simboli che infarciscono il nostro quotidiano. Simboli del bene e del male.

Il lupo, la volpe, per restare tra gli animali.
Ma anche l’immigrato, lo zingaro.

Prendiamo ad esempio il nero, l’uomo di colore per essere politically correct, una frangia di uomini lo bolla come usurpatore di diritti mentre quelli dell’altra parte lo promuove a povero oppresso.

Ma lui è solo un uomo. Sarà un buon padre o picchierà il figlio? Sarà intelligente o stupido? Pigro o gran lavoratore?
A seconda dei propri pregiudizi gli si tende ad incollare addosso una serie di vizi o di virtù… ma lui è soltanto un uomo.

Come il gabbiano o il falco.

Dovremmo liberarci di queste sovrastrutture e osservare la realtà per quello che è.
E solo allora ci libereremo di razzismi, maschilismi, omofobie e tutte le malepiante che dai pregiudizi discendono.

Si può ancora parlare di razzismo?

ANTEFATTO: durante la partita Verona-Brescia, Mario Balotelli interrompe l’azione, calcia la palla in tribuna e sembra voler lasciare il campo.
L’arbitro, che in un primo momento non capisce, lo ammonisce per il gesto antisportivo.
Tutti gli altri giocatori (di entrambe le squadre) si accalcano attorno a Balotelli, lo confortano e cercano di convincerlo a rientrare.
L’arbitro comprende che il gesto di stizza era dovuto a degli insulti provenienti dalla curva veronese, ritira l’ammonizione, e – dopo circa 4 minuti e dopo che Balotelli è tornato in campo – fischia la ripresa del gioco.
Per i pochi che non lo sapessero, Mario Balotelli è un giocatore italiano di colore.

nike against racism
La campagna Nike a supporto del calciatore Raheem Sterling (Manchester United) che si era schierato contro il razzismo

Nella serata e il giorno dopo sono seguiti commenti di ogni genere.

Leggo esterefatto le deliranti esternazioni di uno dei capi del tifo dell’Hellas Verona (ad esempio qui).

Sono talmente tante le considerazioni che potrebbero essere fatte che, sovente, le persone normali tacciono, indecise tra enunciare l’ovvio o preferire il silenzio.

Di solito taccio, ma stavolta, quasi per ridere, preferisco dire anch’io la mia.

Numero uno.
Sgombriamo il campo, per me “razzista” e “coglione” sono sinonimi.
Non è una questione di avere opinioni diverse, chiunque oggi pensi che la razza in qualche modo influisca sulle capacità di una persona è semplicemente un coglione.
Non è male informato (su questo tema è impossibile esserlo).
Non è stupido (non occorre grande intelligenza per capire un concetto così semplice).
E’ semplicemente in mala fede.

Numero due.
Il capo degli ultras afferma che Balotelli non è italiano.
Non so cosa possa definire l’italianità.
Balotelli è nato in Italia.
E’ cresciuto ed ha studiato in Italia.
Come calciatore ha vinto tre scudetti, una Coppa Italia e una Champions League con la maglia dell’Inter.
La maggior parte della sua carriera calcistica ha giocato in squadre italiane.
Ha giocato nella nazionale di calcio italiana.
E’ vero che fa fatica a parlare italiano, ma solamente perché usa più spesso il dialetto.

Numero tre.
Sarebbe anche da chiedersi se poi a Balotelli interessi davvero essere italiano.
Nel mio piccolo (e non sono certo un campione di calcio né un personaggio famoso) non sono così sicuro di voler essere italiano se significa essere accomunato al signore a capo degli ultras.
Ma sono italiano a prescindere, nel bene e nel male.
Proprio come Balotelli.

Numero quattro.
Tutti quelli che tifano contro, sminuendo gli avversari invece di incitare la propria squadra, non si rendono conto che così facendo ottengono l’effetto opposto?
Se io dico che ho battuto un avversario in una gara e allo stesso tempo affermo che questi è una pippa cosa dimostro se non che sono riuscito a battere una pippa?
E se malauguratamente perdo? Battuto da una pippa!

Numero cinque.
Non ho ancora capito cosa c’entrino gli ultras con lo sport.
Mi verrebbe da dire che il calcio è più spettacolo e meno sport di tanti altri, ma sarebbe dettato dal pregiudizio e dal fatto che mi senta “figlio di un dio minore” in quanto appassionato di atletica e di basket, più che di pallone.
Di certo non hanno aiutato a rasserenarmi le dichiarazioni del presidente della Hellas Verona, che ha minimizzato l’accaduto dicendo che gli sfottò sono ammessi. Quasi a tenersi buoni quei facinorosi che affollano le curve degli stadi italiani.
Forse il problema della “coglioneria” non è relegato solo in curva… (ricordo deliranti affermazioni dell’allora presidente della Lega Calcio a proposito di calcio femminile…)

Bene bene, mi sono sfogato.

Tanto per evitare inutili strascichi polemici:
Non ho detto (perché non lo penso) che Verona sia una città razzista, è accaduto lì, ma era accaduto in molte altre città. E’ un fenomeno tipico del tifo estremizzato.
Non entro nel merito di cosa sia accaduto davvero nella partita (non lo so), mi baso solo sulle esternazioni del capo degli ultras e del presidente della squadra.

E se non bastasse, aggiungo due post scriptum tanto per chiarire ulteriormente.

PS1: non mi intendo di calcio. Ma quando Balotelli l’estate scorsa sfidò un amico a lanciarsi in mare col motorino e poi pubblicarono il video, pensai che Balotelli fosse un viziato ragazzino con poco sale in zucca. E lo penso ancora, a prescindere da ogni altra considerazione.

PS2: ho a bella posta evitato di mettere nomi: hanno già avuto troppa visibilità mediatica e temo che alla fine siano più interessati a questa che a questioni di principio.