Piccoli affetti

Gli oggetti, anche i più piccoli, portano con loro un carico di ricordi ed emozioni: averne cura significa anche godere di brevi istanti di grande felicità

Il valore delle cose, il loro VERO valore, non è dato dal prezzo d’acquisto ma dall’importanza che noi diamo ad esse.
In economia si direbbe che il valore di un oggetto è il prezzo in cui si incontrano domanda ed offerta, quindi la somma che uno è pronto a darmi e per la quale io sono pronto a cederlo. Ma io rifuggo da questa visione strettamente monetaria.
Ad ogni cosa rimane attaccata una parte della nostra vita.
Ricordi ed emozioni, sensazioni provate, pensieri e sogni.

Prendiamo un libro.
Sfogliando un vecchio volume che ci ha fatto compagnia per qualche giorno in una lontana estate di anni fa, possiamo ritrovare tracce di noi stessi.
Fili d’erba o foglie secche usate come segnalibro, granelli di sabbia della spiaggia su cui lo leggevamo, l’alone di gocce di pioggia (o forse erano lacrime?) che arricciano un foglio o il segno circolare del fondo di una tazza di caffé che abbiamo usato per tenerlo aperto…

Le cose usate raccontano storie.
Per questo, da un po’ di tempo, quando voglio acquistare un classico della letteratura la cui copia è rimasta indietro in qualche angolo della mia vita passata, ne cerco uno usato. Quasi volessi rimpiazzare con frammenti di vita altrui quella parte della mia vita che ho lasciato nel volume perduto.

Natura morta

Poi ci sono quegli oggetti che sembrano essersi adattati a noi (anche se è quasi sempre il contrario).

Il coltellino compagno di tante escursioni, la cui lama – senza apparente differenza – ha staccato una fetta di pane o reciso un bastone da usare per appoggio.
Il mio Opinel mi è stato regalato qualche natale fa dai miei consuoceri. Era la prima volta che ci trovavamo assieme intorno all’albero e il dono (inaspettato) mi aveva sorpreso per quanto fosse azzeccato. Ricordo il sorriso di lei nel porgermelo, sorriso che non potrò più vedere perché quello è stato il penultimo natale prima della malattia. E le parole di lui, mentre osservavo quel piccolo oggetto perfetto, che rivelavano come, essendo entrambi appassionati di montagna, avevamo un terreno comune ad unirci…

Il quaderno sul quale sto scrivendo, acquistato a Londra in uno di quei negozietti che vendono un po’ di tutto, obbedendo alla necessità di riempire di parole scritte il tempo che mi divideva dal momento in cui avrei incontrato mia figlia che usciva dal lavoro. La scrittuta vergata con una penna nera, su un tavolino di un pub, bevendo birra e registrando sensazioni…

L’affetto che provo per questi oggetti semplici li rende preziosi ai miei occhi.
Lo stesso affetto mi ha introdotto a due pratiche che sono diventate nel tempo filosofie di vita.

La prima è quella di far attenzione alle mie cose. Capita che io smarrisca un oggetto. Allora ripercorro mentalmente tutto ciò che ho fatto dall’ultima volta che l’ho usato. E passo e ripasso per i luoghi attraversati fino a quando lo ritrovo. Tra le pieghe del divano, nella tasca laterale di un vecchio zaino in ripostiglio, sotto il sedile dell’auto.
La seconda è che cerco sempre più spesso di riparare quello che ho, piuttosto che sostituire l’oggetto con uno nuovo.
Non sempre è possibile, ma la gioia profonda che provo ogni volta che utilizzo una cosa – perduta e ritrovata o rotta e riparata – mi ripaga di ogni sforzo e aggiunge valore all’oggetto stesso.

Ritrovare e riparare, dicevo.
Ultimamente è un trattamento che riservo non solo alle cose ma anche ai sentimenti.
Mai come adesso, aver cura di ciò che proviamo è più importante di affannarsi alla ricerca di nuove emozioni.

La condizione minima e necessaria

Ho reagito all’isolamento da corona virus facendo manutenzione delle mie emozioni e di tutte le piccole cose che ho scelto di portare con me nella mia vita

Farò outing.
Lo so che di solito questa parola è usata per un tipo specifico di ammissione. Ma in questo caso toglietevi dalla testa ogni tipo di pruderie e lasciate che io apra il mio cuore e vi confessi alcuni aspetti intimi e personali di questo periodo.

Probabilmente a causa della sovraesposizione alle notizie drammatiche provenienti da tutto il mondo, la mia corazza di cinismo si è andata vieppiù assottigliando e, dopo solo un paio di settimane di isolamento, ho notato che molte delle mie abitudini e dei miei gusti sono cambiati.

Ho smesso di guardare i telegiornali.
Le notizie le cerco per conto mio e sui siti che ritengo più affidabili, sia qui in Italia che all’estero.
Ho abbandonato tutti i talk show dove lo stesso fatto viene analizzato da ogni lato con un quasi lussurioso piacere per il macabro, per il dolore esposto, per la ricerca della tragedia.

La televisione, che – vivendo da solo – è l’unica voce che sento, la tengo accesa solo la sera per un’ora o poco più.
Ho iniziato a cercare i film comici o romantici, quelli stupidi e a lieto fine che a malapena sopportavo solo un paio di mesi fa.
Sono diventato dipendente dai telefilm. Non le serie, proprio i telefilm. Tra tutti, resto incantato a guardare i vecchi episodi di Big Bang Theory.
Non credo abbia bisogno di presentazioni. Quella comune di amici strani, con i personaggi caricaturizzati, dove i sentimenti sono semplici e la vita vera scorre lontana, non mi stanca mai.

chitarra

Ho ripreso a suonare la chitarra.
Sono andato a ricercare le vecchie canzoni che suonavo da ragazzo.
Tutto De André, moltissimo Bennato, e ancora Guccini, De Gregori, Dalla.
E poi ho cercato su Google e ho trovato un po’ dei grandi classici in inglese che 40 anni fa avevo ignorato per scarsa o nulla conoscenza dell’idioma.
Confesso che ho rispolverato anche alcune vecchie hit pop da spiaggia: Mare nero (che è il nome con cui conoscevamo la Canzone del sole di Battisti) o Il ragazzo della via Gluck e Azzurro di Celentano o persino Un mondo d’amore di Morandi.

Leggo tanto.
Molti gialli che filano veloci e ti distraggono dal resto.
Alcuni saggi, tutti inerenti al rapporto Uomo Moderno / Natura.
Alcuni volumi sulla montagna: storie eroiche dell’alpinismo classico o testi che trasmettono la passione per le Terre Alte.

Passo parecchio tempo al telefono.
Con gli amici, con i miei genitori, con persone che non sentivo da tempo.
La distanza fisica è un potente incentivo a creare ponti. Anche solo via cavo.

Ho iniziato a ricercare il piacere dei lavori manuali.
Il gusto di scrivere con la penna, di provare a fare qualche schizzo con matita e bloc notes.
Il bricolage, che poi significa semplicemente fare la manutenzione delle proprie cose, averne cura.
Quasi che ritornare ad usare le mani, a fare cose reali, mi offrisse una dimensione diversa della creatività.

Ecco, rileggendo quello che ho appena scritto mi rendo conto che tutto si riduce semplicemente a manutenere il mio mondo messo a repentaglio dal Covid19.
Non ho paura della malattia (forse scioccamente, penso che la supererei abbastanza facilmente) ma sono turbato dalla svolta cui mi ha obbligato.
Per la prima volta non sono io che decido cosa fare. Ci sono steccati a limitarmi, distanze da mantenere, viaggi proibiti.
La mia reazione naturale è di aver cura delle mie emozioni, dei miei pensieri, delle persone a cui tengo, delle cose che ho scelto di portare con me.

Una cosa semplice, in fondo.
La condizione minima e necessaria per continuare a vivere la mia vita.