Questione di parole

Le parole sono gli elementi base per formare il linguaggio che è l’aspetto peculiare dell’essere umano.
Il linguaggio è ciò cha ha permesso all’umanità di progredire e di diventare, di fatto, la razza dominante del pianeta.
Ma non dobbiamo abusarne a discapito della vita vera.

Le parole sono gli elementi base per formare il linguaggio che è l’aspetto peculiare dell’essere umano.
Il linguaggio è ciò che ha permesso all’umanità di progredire e di diventare, di fatto, la razza dominante del pianeta.
Ma non dobbiamo abusarne a discapito della vita vera.

Le cose si fanno, non si raccontano.
C’è una grande confusione sul ruolo delle parole scritte e su come usarle. Qui condivido una mia riflessione personale su come lo voglio fare io.

C’è una frase che, nel tempo, mi è venuta a noia. Dice: “La x_cosa è una metafora della vita”. E al posto della X_cosa potete mettere un soggetto a piacere: la corsa, il golf, la cucina, il ricamo, la falegnameria.

Vale per tutto e ha anche un fondo di verità.

Se dico: “La corsa è una metafora della vita. Come nella vita devi allenarti, perseverare, imparare dai tuoi errori, accettare le sconfitte e restare umile nelle vittorie. E via così”. Suona tutto molto giusto…

Ma in realtà la corsa non è una metafora della vita. È una parte di quel fenomeno complesso e multiforme che chiamiamo vita.

La vita va vissuta, non parafrasata. Contano le azioni, non le parole. O come diceva in modo molto più efficace e colorito Paolo Cevoli interpretando l’Assessore Palmiro Cangini, “Fatti, non pugnette”, ironizzando sulla tendenza alla masturbazione mentale che caratterizza chi vive in un mondo esclusivamente teorico.

paolo cevoli

Torno quindi all’incipit di questo post. Ha senso investire tempo nelle parole?
La mia risposta è un sì forte e chiaro. E adesso ne spiego le ragioni.

Come prima cosa è importante effettuare un distinguo tra i diversi modi di usare le parole.

Se servono a raccontare dei fatti, si tratta di giornalismo.

Se servono a spiegare il perché delle cose, si tratta di istruzione, di scienza o anche di semplice informazione (i manuali della lavatrice che tutti ignoriamo).

Se servono a spiegare delle idee o a propugnarle, si tratta di filosofia, di cultura, di ideologia.

In tutti gli esempi che ho fatto, e l’elenco potrebbe andare avanti a lungo, le parole sono uno strumento, sono ancillari rispetto al loro scopo.

Ma quando le parole vengono messe al centro, allora acquisiscono nuova forza.
Si trasformano da strumento a fine ultimo.

Accade in letteratura. Quando si smette di parlare di realtà e si lascia spazio alla fantasia. È il potere delle parole che diventano storie. Non si rivolgono più alla sfera intellettiva-cognitiva, ma a quella emotiva. Non parlano più al cervello di chi ascolta, ma al suo cuore e alla sua pancia. Generano emozioni, risposte profondamente umane.

Ed invece di spiegare le cose, le creano.

La letteratura è un’arte squisitamente creativa. D’improvviso appare qualcosa dove prima non c’era nulla. Un luogo, una persona, una situazione. Ed è così vera, che noi soffriamo o gioiamo insieme al protagonista.

Le parole sono come una cassetta degli attrezzi a nostra disposizione. Non sono ne’ il bene ne’ il male, dipende da noi l’uso che ne facciamo. Questo ci impone la responsabilità di usarle in modo corretto. Se sto raccontando dei fatti o spiegando un prodotto, non solo ho il dovere morale di dire la verità, ma ho anche il dovere di usare lo strumento appropriato.

Chiedere cosa sta provando ad una madre in lacrime al funerale del suo bambino non è giornalismo. Ma sciacallaggio.

Usare lo storytelling per innalzare artificialmente le aspettative del pubblico sulle caratteristiche di un prodotto non è marketing. Ma truffa.

Posso usare un lanciafiamme per asciugarmi i capelli o per arrostire il mio pollo allo spiedo, ma nel momento che lo faccio divento responsabile delle conseguenze.

Imparare ad usare in modo corretto le parole è un dovere per tutti coloro che di parole campano, ma è anche un impegno che ciascuno di noi dovrebbe prendersi.

Ascolta “Questione di parole” su Spreaker.

L’eterna sfida

Stufi di essere saltati in coda o di vedere quelli che non rispettano le regole spassarsela? Questo post è scritto apposta per voi…

Ho sempre pensato alla lotta tra il bene e il male come ad uno scontro impari. Come se si trattasse di un match di pugilato in cui un boxeur, il bene, rispetta le regole mentre l’altro, il male, colpisce sotto la cintura.

Questa dicotomia paradossale mi appariva evidente ovunque guardassi.
La polizia che vuole arrestare l’assassino in fuga non può torturarne la moglie o rapirne il figlio per obbligarlo ad arrendersi, mentre l’assassino non si fa scrupolo di rubare auto, uccidere passanti o violare qualsiasi legge per non essere preso.

Ma lasciando perdere scenari truculenti adatti al cinema, lo stesso accade quando un evasore fiscale non si fa scrupolo di nascondere all’estero i propri capitali (in banche sovente complici) magari usando un semplice trasferimento on line, mentre lo Stato deve inseguire quel denaro a colpi di carta bollata ed ingiunzioni del tribunale.

E persino nel nostro piccolo vissuto quotidiano vediamo come spesso chi ignora le più semplici regole (chi salta la fila, chi non paga una multa, chi scarica nel bosco la lavatrice vecchia) è difficilmente perseguito e punito. Insomma alla fine i “furbi” hanno la meglio sulle persone corrette.

muhammad ali

Al di là del senso di frustrazione, avevo spesso pensato che, ad un certo punto, superato un certo limite, fosse giusto che il bene si togliesse i guantoni e affrontasse il male ad armi pari: colpi bassi e testate.
Giustificavo questo allontanamento dalla “retta via”, dai fair means, con il perseguimento del bene superiore di ripristinare lo stato di diritto, di eliminare il male.

Ma quello che mi sfuggiva è che accettare un comportamento al di là delle regole sarebbe accettare il male stesso. Lo si sconfiggerebbe con una vittoria di Pirro; vinta una battaglia, persa la guerra.

Quindi il poliziotto a cui sfugge un criminale, o la guardia di finanza che trova e punisce solo una piccola percentuale degli evasori o persino io che vengo saltato in coda e mi indigno e sbuffo ma alla fine subisco, tutti noi stiamo ribadendo il valore superiore del bene sul male.

Una ben misera soddisfazione? Io direi proprio di no; anzi, a ben pensarci, è il fondamento su cui si basa la società civile.

Il rispetto dello ius naturalis, cioè di quelle regole che vengono non dal legislatore ma da dentro di noi.
Il non trasgredire le leggi dettato dalla scelta di farlo e non dalla paura delle sanzioni.
Questi comportamenti elevano i poliziotti, i finanzieri e anche noi, comuni cittadini, in campioni nella lotta tra il bene e il male. Nell’ultimo baluardo contro la barbarie.

Va beh, direte voi, hai messo assieme una serie di concetti triti e ritriti.
D’altronde non avevo altro da fare, qui in coda all’ufficio postale…

Ascolta “L'eterna lotta” su Spreaker.

Il dubbio

Come invidio le vostre certezze assolute, il sapere che esiste sempre e solo il bianco e il nero, il perfettamente giusto e l’assolutamente sbagliato. E la certezza di essere in grado di distinguerli.

Come invidio il vostro quotidiano pontificare sui social, forti della convinzione basata sul sentito dire, sul “ti puoi immaginare se…”, sull’ipotesi dell’ultimo minuto.

Come invidio la vostra agilità morale, sempre pronti a balzare da una granitica sicurezza al suo opposto, sempre pronti a sputare sentenze dall’alto di un’etica di facciata.

Io ho un’unica certezza, che mi è stata insegnata a forza in questo primo mezzo secolo di vita.

Dubitare di ogni cosa.
Formarsi autonomamente un’idea, basandosi sui fatti.
Riconoscere che, nonostante tutto, sbaglio moltissime volte.
Essere pronto a cambiare opinione.

La maggioranza comanda, ma raramente ha ragione.