Una proposta per la Crusca…

Una modesta proposta per integrare il dizionario della lingua italiana con parole che aiutino a districarsi nella giungla dei podcast

Ci sono parole generiche che definiscono un’intera categoria, ma che non vengono poi usate per definire i particolari. Per i podcast non è così.
Mi spiego meglio. Se al ristorante ci propongono un primo piatto, il 99% di noi chiederà maggiori spiegazioni: è una pasta? un risotto? una zuppa? una lasagna? e via dicendo. E la prima risposta non sarà ancora suffciente, vorremo dettagli sul tipo di pasta, sul condimento, sulla preparazione…

Questo approccio, che sicuramente condividete, mi porta alla mia battaglia personale con la nostra lingua: quando parlo di podcast non posso essere preciso.

Dire podcast non basta!

Podcast è un termine generico che definisce a malapena la categoria generale.

Nell’accezione comune, un podcast è un file audio che puoi ascoltare collegandoti ad internet. Deriva direttamente dal concetto di webcast (che individua programmi audiovisivi diffusi via web) e si riferiva, in origine, a programmi creati per la radio e diffusi anche via internet.

Ma oggi podcast indica tutto: è sia l’audio manuale di una lavatrice che la replica di un programma radiofonico, sia la registrazione di una conferenza che un radio dramma interpretato da attori meritevoli dell’Oscar.

E badate bene che non si tratta di pigrizia di chi espone, ma di una vera e propria mancanza della lingua italiana.

[Ho fatto un po’ di ricerche e sembra che lo stesso problema esista nelle altre lingue NdR]

Proviamo a fare chiarezza.

Professione podcaster

Nella concezione attuale, la prima grande divisione è tra podcast originali e repliche. I primi sono concepiti per essere fruiti in un podcast strictu sensu, i secondi sono riutilizzi di contenuti creati per altri scopi (programmi tv e radio, conferenze, eventi live, lezioni, libri ecc).

La differenza non sta tanto nell’originalità del contenuto (un programma radiofonico o un libro nella maggior parte dei casi sono originali), ma sul fatto che si tratti di contenuti pensati fin dall’inizio per essere fruiti via podcast.

E proprio qui è il problema: “podcast” è un modo di usufruire i contenuti, non i contenuti stessi.

Una commedia scritta per il teatro può essere ripresa e guardata in televisione, ma non è paragonabile ad una sit com pensata e realizzata per la tv.

Analogamente, un programma pensato per essere trasmesso alla radio non è paragonabile ad un testo pensato per il podcast.

Oggi viviamo nella giungla.
Chi produce podcast autoriali si trova nello stesso gruppo di chi usa i podcast per raggiungere gli ascoltatori che non erano presenti live. Si tratta sicuramente di uno scopo meritevole (io stesso fruisco di programmi quando ne ho voglia senza essere obbligato ad ascoltare la radio quando non ho tempo), ma aumenta la confusione.

A mio avviso, bisognerebbe che noi podcaster iniziassimo a usare un nuovo nome per la nostra attività, un nome che definisca quello che facciamo.

Ed ecco quindi, la mia umile proposta.
Mutuando la logica di radio show o tv show, potremmo usare:

  • pod show per i podcast di tipo talk
  • pod drama per i podcast di tipo narrativo
  • pod reportage per i podcast di tipo giornalistico o inchiesta
  • pod tutorial per le guide e i manuali
  • pod map per le guide geolocalizzate di tipo turistico
  • pod series per le serie podcast
  • pod news per la cronaca e le notizie
  • pod stories per i podcast che descrivono i personaggi

Insomma avete capito cosa intendo: aggiungere il prefisso pod che identifichi il media ad un termine che identifichi il genere.

Sarebbe un inizio. Piccolo ma importante. Perché, noi che viviamo di parole, sappiamo come la precisione del linguaggio aiuti a dissipare la confusione delle idee.

Ed ecco, come al solito, la versione “ascoltabile” di questo articolo:
Ascolta “Una proposta per la Crusca” su Spreaker.

In nomen omen

Nella vita siamo stati e saremo tante cose: ma sono le parole che ci definiscono o noi che diamo forma alle parole?

Probabilmente la maggior parte di voi che mi leggete avrete sentito questa locuzione latina, che significa letteralmente “nel nome c’è un presagio”, citata quando qualcuno porta scritto nel cognome il suo destino.
Ricordo quanto ci faceva sorridere che il capo della polizia si chiamasse Antonio Manganelli (lo cito pur sapendo che è mancato qualche anno fa, perché è stato au contraire uno dei più amati personaggi a ricoprire quel ruolo).

Non penso che il nome che ci assegnano i nostri genitori o il cognome che ereditiamo dalla famiglia ci definiscano.

Però, stimolato da un tweet in cui, in occasione dell’8 marzo, una ragazza elencava una serie di “cose” che era stata, ho provato a rifare lo stesso giochino.

[Permettetemi una breve digressione. L’8 marzo non è la festa della donna. Ma la Giornata Internazionale dei Diritti delle Donne. Non sfugga la differenza. Non si paragoni l’8 marzo alla festa del papà. E’ una cosa seria, non una trovata commerciale. Fine digressione.]

nomen omen

Quindi, scimiottando il tweet di cui vi ho raccontato, ho provato a fare un elenco di sostantivi che mi hanno rappresentato. In ordine temporale, non di importanza.

Figlio: avete mai pensato che dal primo istante della vostra vita siete figli di qualcuno? Credo che il debito di riconoscenza verso i nostri genitori non si esaurisca mai. Noi siamo perché loro sono stati.

Studente: un’altra situazione perenne. Inizi quando hai poco meno di sei anni (nel mio caso) e non smetti più. O perlomeno non dovresti smettere più. Studiare per apprendere, all’inizio. Poi studiare per capire. Studiare per fare.

Canottiere: lo dico con un sorriso, la parola canottiere evoca in me più Fantozzi che i fratelli Abbagnale, ma con grande affetto. Il canottaggio è stato il primo sport che ho praticato e da allora non ho più smesso. Praticare una vita attiva mi definisce come persona.

Sagrestano: di nuovo farà sorridere, ma da quando avevo 14 anni ho iniziato a fare tutta una serie di lavoretti che mi permettevano di comperare dei dischi che volevo, di avere due soldi in tasca per sentirmi indipendente. Così sono stato badante, bidello, magazziniere di una latteria e sagrestano.

Cantautore: lo dico sottovoce, ma mi serve ad esprimere un concetto. Erano gli anni in cui tutti sapevano suonare la chitarra e in Italia impazzavano i cantautori. Io, come tutti i miei coetanei, strimpellavo il piano e pizzicavo la chitarra. Ed un bel giorno ho iniziato a scrivere canzoni. E’ stata un’epifania. Ho scoperto che c’erano linguaggi per esprimere quello che avevo dentro. Oggi non scrivo più canzoni, ma continuo a far parlare il mio cuore.

Informatico: di nuovo un titolo per definire un insieme. Avevo fatto un corso per capire come funzionavano i computer (all’epoca erano delle diavolerie di cui nessuno comprendeva ancora le potenzialità). Il corso serviva a trasformarmi in un venditore IBM, io lo usai per infilarmi in un’azienda che faceva la cosa che più mi attirava a quei tempi: un editore di giornali. Inizia così, occupandomi dei computer, a frequentare l’ambiente. Poi mi spostai sulla parte di impaginazione, poi sulla progettazione grafica, infine inizia a scrivere articoli. Un mestierante più che un professionista. Ma scoprii che la gavetta ti insegna più della scuola.

Imprenditore: nei gloriosi anni degli yuppies (anche se la mia anima era più da hippy), influenzato dal fatto che ero abituato a mettere in pratica quello che mi passava per la testa, creai la mia prima società che forniva servizi agli editori dei giornali. E non ho mai smesso di cercare di mettere insieme opportunità ed idee.

Padre: ecco un’altra cosa che, una volta iniziata, non smetti più di fare. A differenza di marito, che sono stato solo per un lungo periodo, la mia vita da padre continua a regalarmi tensioni e gioie. Adesso che i miei due figli sono grandi e sistemati, ricevo solo gioie (e qualche mini preoccupazione auto indotta). Essere padre ti cambia. Soprattutto quando, dopo aver giurato e spergiurato che non avresti fatto gli errori dei tuoi genitori, ti ritrovi a ripetere le loro frasi. E capisci che siamo tutti espressione dello stesso ceppo.

Manager: è una parola che amo e che, spero, sia quella che mi rappresenta meglio. L’effetto Dunning-Kruger è un rischio che ho ben presente, ma direi che negli anni ho imparato a gestire le situazioni lavorative (e non solo). Credo che sia questo il compito di un vero manager.

Maratoneta: mentre approcciavo la boa dei 40anni e iniziavo a fare bilanci, non soddisfatto di come mi ero trasformato, ho cercato rifugio nello sport e, in particolare, nella corsa. Mi sono messo l’obbiettivo romantico di tagliare il traguardo di una maratona prima del compleanno e l’ho fatto. Poi però non sono più riuscito a smettere e la corsa è entrata prepotentemente nella mia vita, modellandola. Ho corso ovunque, poi ho scelto di correre sui sentieri e sono diventato un trailer ed un ultratrailer.

Scrittore: grazie alla corsa ho incontrato Giovanni e siamo diventati amici. E grazie a lui, siamo stati contattati da Mondadori per scrivere il nostro primo libro. Anche in questo caso è stata una specie di rivelazione. Una volta iniziato non sono più riuscito a smettere e ho scritto di tutto e dapperttutto. Scrivere mi aiuta ad interpretare la realtà in cui vivo. Sono diventato blogger per fissare per iscritto i pensieri che attraversano il mio cervello.

Sono stato tante altre cose per periodi più o meno lunghi, un conduttore televisivo, un presentatore di eventi, un volontario in cause in cui credevo, e penso che diventerò ancora molte cose.

L’ultima riflessione per oggi è la seguente.
Marzullo chiederebbe: “Le cose che siamo modellano la nostra esistenza o siamo noi a scegliere cosa diventare?”

Non tutti e non sempre abbiamo la fortuna di poter decidere, ma, qualsiasi sia il ruolo che il destino ci impone, è il modo in cui noi lo rivestiamo e, soprattutto, quello che impariamo facendolo, che definisce il tipo di persona che stiamo diventando.

Ascolta “In nomen omen” su Spreaker.

Della gentilezza…

Un libro che è un manuale di sopravvivenza civile: ecco la mia recensione a “Della gentilezza e del coraggio” di Gianrico Carofiglio

Della gentilezza e del coraggio - Gianrico Carofiglio

Un libro strano di un autore che amo tantissimo.
Ho apprezzato Gianrico Carofiglio nella sua veste di scrittore, quando ho letto Ad occhi chiusi, seconda apparizione dell’avvocato Guerrieri. Un giallo particolare in cui è evidente la totale competenza con cui Carofiglio, ex magistrato, si muove nell’ambiente giudiziario.

Il libro mi era piaciuto così tanto che ho letto rapidamente gli altri gialli che aveva scritto, restando sempre più affascinato dalla lucidità di alcune riflessioni e dalla pulizia della scrittura. Entrambe doti che denotavano una grande chiarezza di idee.

Ma il vero colpo di fulmine è scattato nel 2010, quando ho acquistato, quasi per caso, La manomissione delle parole, opera curata da Margherita Losacco. In questo saggio Carofiglio, partendo dal presupposto che le parole sono importanti e che di esse bisogna aver cura e non manometterle a proprio uso e consumo, spiega il significato originale di cinque termini: vergogna, giustizia, ribellione, bellezza, scelta.

Era il Carofiglio politico a parlare (era stato eletto nel 2008 al Senato della Repubblica) ma con la capacità di analisi del giurista. Per ogni parola spiegava l’uso e l’abuso che se ne faceva nei discorsi pubblici dei politici. Un grido di allarme, una richiesta di tornare ad un concetto alto di politica.

Lo leggevo e mi sembrava di leggere i miei stessi pensieri.

E quindi, quando è uscito questo “breviario di politica ed altre cose”, per usare il sottotitolo, l’ho iniziato e finito senza mai alzarmi dalla poltrona.

Si parla ancora di politica, ma questa volta da un punto di vista nuovo: è un manuale su come si dovrebbero affrontare le discussioni. Sia quando si è coinvolti, sia quando si è spettatori.

In un’epoca in cui vince chi urla più forte, Carofiglio propone di usare la gentilezza, il coraggio e il discernimento.

La gentilezza perché disarma e usa la violenza altrui come metodo di difesa.
Il coraggio come principale virtù per apportare i cambiamenti.
Il discernimento, cioè la capacità di porsi domande per capire se quello che ci viene detto è vero, verosimile o falso.

Un libretto di poco più di 100 pagine, ma denso di significato, da leggere e rileggere (e io non rileggo quasi mai un libro!).

Preziosa anche la bibliografia finale, che permette – se qualcuno ne avesse voglia – di approfondire il tema.

Un’ultima considerazione prima di lasciarvi alla lettura.
Non inganni il fatto che sia considerato un saggio: questo Della gentilezza e del coraggio è prima di tutto un manuale.

Un libretto d’istruzioni per il cittadino consapevole.

Della gentilezza e del coraggio
Gianrico Carofiglio
Edizioni Feltrinelli
119 pagg. / 14,00 euro

Ascolta “Della gentilezza e del coraggio” su Spreaker.