Le montagne dentro

Il mare e la montagna sono entrambi potenti espressioni della Natura, e con entrambi l’uomo deve confrontarsi per capire il suo posto nell’universo

Vicessitudini familiari mi hanno portato a passare alcuni giorni a Trieste, e una sera mi sono trovato a passeggiare lungo il mare, a Barcola.
La temperatura era mite, il sole era calato e restavano solo i riflessi rosso-dorati sulla superficie dell’acqua, lo sciabordio lento delle onde che si rompevano sugli scogli sembrava aggiungere pace a quello scenario.

Sono nato al mare, ho vissuto per 25 anni a Trieste, mi sento e sono un figlio dell’acqua salata.
Allora, come mai anelo a tornare alla mia casa tra i monti?

Spesso in questi anni mi sono chiesto cosa significhino per me le montagne.
Ho pronta una lista lunghissima di ragioni per le quali amo vivere nelle Terre Alte.

Alcune sono molto pratiche: l’aria più sottile che vi si respira, le temperature frizzanti, l’assenza di zanzare e umidità.

Altre sono più legate alle mie passioni: camminare, correre, arrampicare, sciare.

Altre ancora sono più filosofiche: vivere a contatto con la natura per ristabilire un rapporto più vero tra ciò che siamo e il mondo in cui viviamo, lontano dai mondi artificiali delle città. Salire una vetta per imparare a conoscere i propri limiti.

Altre, infine, rasentano la spiritualità: cercare una dimensione sovrannaturale attraverso la bellezza pura dei paesaggi montani.

Sono tutti concetti che condivido e che mi affascinano, però hanno il retrogusto artificiale del pensiero fine a se stesso. Quando realizzi che la teoria che stai esponendo, seppur bella e credibile, ha perso il contatto con la realtà dei fatti.

Ebbene, passeggiando lungo il mare, cercavo di trovare la calma dopo una giornata che era stata difficile emotivamente.
Lasciavo che la brezza mi soffiasse sul viso come per cancellare i pensieri tumultuosi. Lasciavo che il mio cuore si sincronizzasse con le onde ed emulasse il lento respiro del mare.
Così ho ritrovato la quiete. In quegli spazi ampi che si confondono con l’infinito, nel moto regolare e soporifero dell’acqua, nelle tonalità di colore che spaziano tra l’azzurro e il blu.

Ed ho capito.
Nella mia vita non ho mai perseguito la quiete, ma il movimento.
Ho sempre amato le sfide, le scoperte, i nuovi traguardi.
Amo i numeri dispari perché non li puoi rappresentare in forma statica, sono “naturalmente” dinamici.

Il panorama montano è così. Una vetta che indica al tuo occhio il cielo. Un colle che ti invita a scavallarlo per scoprire nuovi mondi. Una tavolozza di colori che copre l’intero spettro del visibile e che muta a seconda delle stagioni e del meteo.

Io le montagne le ho dentro.

E a chi mi dice che, in fondo, chi ama le montagne ha una visione limitata, mentre chi ama il mare ama l’infinito degli spazi, ricordo la poesia di Giacomo Leopardi intitolata L’infinto appunto. Il poeta nei primi versi spiega come la siepe del giardino gli sia cara proprio perché evoca in lui tutto ciò che c’è oltre ad essa:

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.

Leopardi esalta la sua natura umana nel desiderio di scoprire, di conoscere l’infinito.

Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quïete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura.

La sera, dal terrazzo della mia casa, scorgo le diverse dorsali montuose che separano le valli laterali della Valle d’Aosta. E mi perdo a pensare di percorrerle in un movimento continuo ed appagante.

Il mio amico Denis dice che a noi montanari fa bene andare al mare “per riposare gli occhi”.
Ha ragione.

Qui sul mare cerco il riposo.
Inseguendo le guglie alpine, cerco la vita.

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La caccia alle streghe

Un tema delicato: il sacrosanto diritto delle donne ad essere considerate alla pari degli uomini e il diritto di ogni uomo di non essere considerato un mostro.

Ne avevo scritto qualche tempo fa (leggi qui): spesso è difficile definire dove sia il confine tra bene e male. A volte si rischia che, per perseguire un fine eticamente giusto si accetti di usare mezzi che non lo sono.
Il famoso “il fine giustifica i mezzi” del buon vecchio Niccolò Macchiavelli.

Riflettevo su questo leggendo il post di un’amica che prendeva le parti di Aurora Leone (l’attrice del gruppo The Jackal) che era stata esclusa da una cena della Nazionale Cantanti.

Non voglio tornare sulla condanna (il fine), che comprendo e condivido, ma parlare del metodo. La mia amica si scagliava contro il genere maschile spesso colpevole di comportarsi in modi che colpiscono una persona per il suo essere donna.
E mentre lo faceva, commetteva lo stesso errore: scagliarsi contro gli uomini perché uomini.

amici

Tra i miei amici – non i conoscenti, dico proprio gli amici, le persone che mi sono vicine – non c’è nessuna persona che discrimina un’altra persona per il genere o la razza.

Ammetto che ci siano discrimini dettati da ideologie e scelte politiche e persino religione, ma di certo non per razza o genere.

Non credo di essere un fortunato circondato da Illuminati.
Così come non credo che il mio gruppo di amici sia un campione statisticamente valido.

Sono consapevole che le discriminazioni siano un problema vero e numericamente molto serio.
Sono consapevole che esista una sperequazione tra come il mondo del lavoro tratta un uomo e una donna.
Ho ben presente lo sbilanciamento assurdo tra vittime donne e vittime uomini nei crimini violenti (stupro e omicidio in primis).

Sono fermamente convinto che questa situazione vada combattuta a viso aperto, e che il primo passo sia la denuncia.

Però credo che non si debba fare di tutta l’erba un fascio.

Mi rendo conto che sia difficile.
La giustizia si impantana troppo spesso nella palude dei distinguo.
Ma il rischio opposto è persino più grave: la generalizzazione finisce spesso nella gogna mediatica che non risolve i problemi e che alimenta la polarizzazione tra le parti.

Dire che gli uomini sono maschilisti è uguale a dire che le bionde sono sceme.

Ci sono gli uomini che si comportano male, e vanno indicati.
Ci sono le donne che si comportano male, e vanno parimenti indicate.

Torno ad un punto fondamentale che ho già enunciato precedentemente e provo ad elencare i passi che io credo siano fondamentali per vincere questa battaglia di civiltà.

La prima cosa da fare è denunciare pubblicamente e ad alta voce.

La seconda cosa da fare è creare un fronte unico tra chi comprende e condanna il problema. Senza divisioni di genere.

La terza cosa è parametrizzare, cioé dare il giusto valore ai fatti.
Così come non si può paragonare chi ruba con chi uccide, alla stessa maniera non si deve paragonare chi fa una battuta sessista con chi stupra.

So bene che sto camminando su un terreno minato.
Purtroppo chi cerca un approccio di buon senso, moderato, viene spesso confuso con chi minimizza il problema.

Ma credo sia giusto che chi condanna la caccia alle streghe del Medioevo faccia attenzione a non vestire i panni dell’Inquisizione nella battaglia contro la discriminazione di genere.

E per concludere vorrei sottolineare come il più grande errore che si deve evitare sia quello di trasformare la lotta per la parità di genere in una guerra tra generi.

Non dev’essere donne contro uomini, maschi contro femmine, come avviene spesso. E’ naturale che una donna cerchi solidarietà tra le altre donne. E noi uomini dovremmo offrire la stessa identica solidarietà per far comprendere come il comportamento di uno non sia il comportamento di tutti.

Penso ci sia una piccola minoranza di uomini che si comporta male, coperta da una schiera molto ampia di uomini (e donne) che si girano dall’altra parte.

E’ su quella larga fetta della società che dobbiamo lavorare.
Denunciando, condannando, e soprattutto continuando un dialogo aperto e costruttivo.

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Lo stigma

L’uomo è un animale sociale, e a volte lo stigma sociale che tanto ci infastidisce è l’ultima barriera prima della barbarie

Una delle grandi capacità della razza umana è quella di adattarsi. Se ci pensate bene, siamo una delle speci più infestanti del pianeta.
Abbiamo invaso tutta la superficie emersa, dai deserti africani alle calotte polari. Per il momento non abbiamo colonizzato gli oceani e lo spazio, ma non è ancora detta l’ultima parola.

Oggi però vorrei attirare la vostra attenzione su una micro-derivazione di questa adattabilità. Non penso a quella dei popoli, ma a quella dei singoli individui.

La capacità di una persona di reagire all’ambiente che la circonda.

Credo che tutto parta da un meccanismo legato alla mimesi, cioè l’arte di dissimularsi sullo sfondo.

La nostra necessità di essere accettati dalla comunità (stavo per scrivere dal branco) ha radici profonde. L’uomo da solo non sopravvive. Ha bisogno di vivere integrato in una comunità per riprodursi, per trovare cibo e difesa, per un sostegno nelle fasi finali della vita.

E se sei antipatico a tutti, hai pochissime chances di vivere in un gruppo.

Valeva per gli uomini primitivi, ma il meccanismo è simile nella moderna tribù: i compagni di classe, i colleghi di lavoro, i vicini di casa… fino alla comunità virtuale sui social.

Per essere accettato, l’uomo individua in breve gli standard qualitativi del gruppo e li imita.

Appena trasferitomi a Milano, mi aveva colpito la differenza tra i milanesi che frequentavo e i miei concittadini di Trieste. I milanesi erano tutti in forma (pochissimi obesi), tutti vestiti bene, tutti iperattivi. Mentre i triestini vestivano casual, non prestavano grande attenzione alla forma fisica e amavano l’attività tanto quanto il riposo.

Fateci caso e noterete cosa la vostra comunità si aspetta da voi. E magari scoprirete il motivo di alcune vostre scelte.

Quattro Amici al bar

Per contro ho notato che adesso che vivo da solo, in un piccolo paese, e per di più in un periodo in cui il distanziamento sociale ha rarefatto le occasioni di incontro con altre persone, sto prendendo una deriva personalissima.

Come tutti, ho le mie piccole passioni, manie, vizi, stravaganze.

Senza la verifica giornaliera del resto del gruppo, le mie “stranezze” iniziano a prendere il sopravvento.

Niente di che, intendiamoci, ma ogni tanto mi accorgo di usare le magliette da casa anche quando esco (immagino che anche voi avrete delle vecchie t-shirt che usate solo per dormire o per fare i lavori domestici); oppure che non misuro più le parole prima di pronunciarle (ammetto di avere la fissa sul linguaggio); o magari mi capita di emettere giudizi su qualcuno senza aver avuto il modo di effettuare una valutazione ponderata.

C’è poco da fare: siamo animali sociali e abbiamo bisogno del gruppo anche per non perdere la rotta. Lo “stigma sociale” che tanto ci infastidisce, funziona perfettamente da pungolo per non scivolare nella barbarie della barba incolta o del mangiare direttamente dalle pentole.

In tempo di smart working è quindi necessario prestare attenzione ai dettagli e ristabilire delle piccole regole pratiche che ci tengano allenati per quando torneremo tutti assieme.

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