La filosofia del randagio

Preferisco muovermi che restare fermo; preferisco creare qualcosa che accettare quello che trovo pronto. E’ la mia filosofia randagia

Domenica, mentre attendevamo gli altri amici che stavano ancora sciando, parlavamo di compleanni tondi (i 20, i 30, i 40, i 50…) e dei dubbi che ci vengono quando affontiamo queste “boe” dell’esistenza.
Ciò mi ha fatto riflettere, ed è diventata l’occasione per fare un punto rotta sulla mia vita.

Tutti i nodi vengono al pettine.
Una per una le difficoltà, alcune previste, altre inattese, si frappongono tra me e quella serenità che cerco e perseguo con costanza da oramai quasi dieci anni.
Come tutti faccio fatica, ma – come tanti – vedo i progressi e sono premiato quando qualche nodo viene sciolto.

Ho sempre pensato di essere un randagio, un ramingo, un vagabondo, una persona che ha bisogno di essere in movimento, sia in senso figurato che letterale.

Il panta rhei – tutto scorre – di Eraclito, nella mia personale concezione della vita, è la più calzante descrizione della realtà in cui viviamo.
E’ la teoria del divenire contrapposta a quella dell’essere. Ed è la mia filosofia guida.

dune di neve
Dune di neve @ph Roberto Bellini (fotorobertobellini.it)

Così sono sempre in movimento.
Forse non ho radici. O forse le radici me le vado a cercare. Scelgo io dove piantarle.
Di strada ne ho fatta e ne faccio tanta, ma onestamente non posso dire di essere arrivato da qualche parte.
Qualcuno mi ha anche detto che sono volubile, ma credo che non sia vero. Credo che abbia confuso la coerenza con l’immobilismo. La curiosità con la scarsa tenacia.

Nulla è per sempre.
Alcuni possono trovare questa affermazione preoccupante o pessimistica, invece io la considero la vera fonte di speranza. La mia luce in fondo al tunnel.
Cambiare, sbagliare, cadere e rialzarsi. Accantonare un bagaglio di esperienze. Questi sono i pilastri sui quali ho costruito la mia vita.

Ecco un’altra parola chiave, l’ago della mia bussola esistenziale: costruire.

Ho sempre cercato di creare qualcosa. Nella mia vita professionale, nelle attività ricreative e sportive, nei rapporti con gli altri e, soprattutto, lavorando su me stesso.

Ho pagato un prezzo in macerie disseminate lungo la mia vita, in esperimenti falliti. Ma ho la presunzione di dire che il bilancio tra ruderi e costruzioni, fino ad oggi, è positivo.

Questo mi fa dire che ne vale la pena.
Vale la pena fare più fatica per costruire qualcosa, rispetto a scegliere la strada più facile dell’accettare lo status quo.
Vale la pena impegnarsi per creare una propria strada, una propria storia, rispetto ad accettare il sentiero battuto.

E se ti accorgi che quello che stai creando viene su storto, non aver timore di abbatterlo e di ricominciare.
E’ meglio disfare e rifare che star lì a pensare su come sarebbe potuto essere.

Ascolta “Filosofia randagia” su Spreaker.

La maschera

Indossare la mascherina per sconfiggere il Covid19. Tante discussioni, ma dobbiamo accettare che le nostre vite sono cambiate

Mi è tornato sotto gli occhi un post che avevo scritto nell’Ottobre 2019 (Tempus fugit) che resta attuale nei suoi contenuti.
Mentre lo rileggevo e notavo la curiosa coincidenza di date, ho iniziato a pensare a quante cose sono cambiate (e stanno ancora cambiando) tra il 22 Ottobre 2019 e oggi, 16 Ottobre 2020.

359 giorni, quasi una rivoluzione terrestre, e la vita non è più come prima.

Il Covid19 ha spinto sull’acceleratore dei cambiamenti. La pandemia, perché noi tendiamo a dimenticare il fatto che i problemi che ci sono nella nostra città sono gli stessi che stanno accadendo in tutte le città del mondo, dicevo la pandemia sta modificando le nostre vite.

Ricordate quando sorridevamo con sufficienza vedendo i turisti giapponesi attraversare la città con le mascherine sul volto per timore dell’inquinamento?

La mascherina è diventata un complemento d’abbigliamento esattamente come le scarpe o il cappotto d’inverno. La useremo per sempre? Non lo so, ma di certo nei prossimi anni si continuerà a portarla con se e ad indossarla nei momenti di “assembramento”.

gente che indossa la mascherina - coronavirus

Sento tante discussioni su cosa si dovrebbe fare… e per ogni ricetta c’è sempre pronto un capro espiatorio sul quale puntare il dito.

Il sindaco che non mette a disposizione mezzi pubblici a sufficienza, i ragazzi che bevono birra al parco senza mascherina, gli “altri” che non stanno attenti quando vanno in ferie, i dottori che non sono più come quelli di una volta.
E così via, in una litania inutile e qualunquista.

La verità è che non ci sono colpevoli.

Non è colpa del governo. Non è colpa dei nostri concittadini.
E’ colpa di una malattia invisibile e sconosciuta che ci ha travolti. Il mondo, la natura, muta. E noi dobbiamo adattarci per sopravvivere.

E’ così da sempre e sempre così sarà.

Ci sforziamo di modificare le leggi naturali, creiamo ambienti più confortevoli per noi, sconfiggiamo alcune malattie, creiamo protesi per organi non funzionanti, allunghiamo la vita. Ma non siamo onnipotenti.

La natura tiene il banco nel casinò della vita (funzionava anche senza accento finale in realtà). E il banco vince sempre.

Quindi cosa possiamo fare?

Bob Dylan ha ben rappresentato nella celebre Times they are a-changing l’inutile sforzo di ribellarsi all’impermanenza delle nostre esistenze.

In realtà lui si riferiva all’evoluzione della società, ai mutamenti interni, a come è inutile lottare per mantenere lo status quo. I cambiamenti sociali avvengono nonostante il Sistema.

Ma a maggior ragione, nulla può l’essere umano di fronte alle modifiche che ci impone il nostro ambiente.

Non dico che non bisogna lavorare sul vaccino e, nel tempo, sconfiggere il CoronaVirus come abbiamo già sconfitto la poliomielite, ma dobbiamo anche accettare che non siamo superiori alle leggi naturali e ad esse dobbiamo adeguarci.

La pandemia ci ha preso alle spalle.
Nessuno avrebbe potuto ipotizzare un effetto così ampio e così veloce.

Ha messo in ginocchio l’economia e ci ha trasformati.

L’ho visto succedere, su piccola scala, dopo i terremoti o lo tsunami o le eruzioni vulcaniche.

Dobbiamo accettare il cambiamento, ricostruire quanto è andato perso, e cominciare una nuova vita.
Non potremo tornare alla vecchia, dobbiamo trovare un nuovo equilibrio e ricominciare da capo.

Il colore del grano

Cos’hanno in comune la volpe del Piccolo Principe e una sconfitta sportiva?
Probabilmente il legame appare chiaro a chi ama lo sport e ha incrociato da piccolo il capolavoro di Antoine de Saint-Exupery.
Ne Il Piccolo Principe il protagonista incontra una volpe che, come lei stessa sottolinea, non è addomesticata.
E quando il ragazzino chiede cosa significhi “addomesticare”, la simpatica creatura svela una delle più toccanti metafore di una Storia d’Amore.

Il piccolo principe e la volpe

Addomesticare vuol dire creare legami

[omissis]

Tu, fino ad ora per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini.
E non ho bisogno di te.

E neppure tu hai bisogno di me.
Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi.

Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno uno dell’altro.
Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo.

[omissis]

Io non mangio il pane e il grano, per me è inutile.
I campi di grano non mi ricordano nulla.
E questo è triste!

Ma tu hai dei capelli color d’oro.
Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticato.
Il grano, che è dorato, mi farà pensare a te.

E amerò il rumore del vento nel grano…

Così il Piccolo Principe addomestica la volpe, ma giunge il momento della partenza.

“Ah!” disse la volpe, “Piangerò”.
“La colpa è tua”, disse il Piccolo Principe, “Io, non ti volevo far del male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi”
“E’ vero”, disse la volpe.
“Ma piangerai!” disse il Piccolo Principe.
“E’ certo”, disse la volpe.
“Ma allora che ci guadagni?”
“Ci guadagno”, disse la volpe, ” il colore del grano

Non la ricordavate? Bella vero?
Ho avuto la fortuna di sentirla leggere da Lella Costa qualche tempo fa.
L’aveva scelta come brano sull’Amore

La cosa mi aveva colpito perché si parla di un momento difficile, del distacco.

Eppure il vero senso dell’Amore è la sua impermanenza.
Esiste per un attimo e poi muta.

Ed ecco che torna il punto di contatto con la sconfitta.
Immaginiamo che stai osservando la tua squadra del cuore impegnata in una partita importante (ma vale anche per quando siamo noi a metterci in gioco).
Soffri temendo che non vinca (perché perdere è una sofferenza, così come il non vincere…)
Però sei lì, ad osservare i tuoi idoli, ad incitarli.
Nella speranza di poter gioire, di poter imparare il colore del grano.