La perseveranza

Sabato sono salito al rifugio Frassati, proprio sotto al Col di Malatrà, ultimo colle importante prima della lunga cavalcata verso l’arrivo del Tor des Géants.

L’idea era quella di applaudire il passaggio di un amico che stava concludendo il Tor e al contempo vedere i tanti  concorrenti del Passage au Malatrà, la cosiddetta Tor 30, una gara che, partendo da Saint Rhémy en Bosses percorre gli ultimi 30km (e 2300 mt D+) del Tor e arriva a Courmayeur.

Il percorso è una lunga salita che dal centro del paese arriva prima all’alpeggio del Merdeux, infilandosi in una splendida valle che via via si apre, poi al rifugio Frassati dove c’è un ristore e dove si prende un momento il fiato prima dell’ultima salita (400 D+) che porta al colle.

Il Malatrà è il vero premio del Tor des Géants.
Quando arrivi alle sue pendici per la prima volta non sai ancora cosa ti aspetta. Vedi un sentiero che traversa in salita sotto al colle e poi una serie di tornanti che ti portano ad una strettoia di roccia. Affacciandoti ad essa vedi di nuovo il Monte Bianco e le Grandes Jorasses e ti senti arrivato.

Tor de Geants 2010 (© Stefano Torrione). 16 settembre salita al colle Malatrà e discesa nella Valle Ferret verso Courmayeur. Un atleta esulta dopo aver raggiunto l’ultimo colle della gara

L’immagine che vedete, scattata da Stefano Torrione durante il primo Tor, racchiude un senso di appagamento, di raggiungimento dell’obbiettivo, che l’ha resa l’icona del TdG e che quest’anno campeggiava su tutti i manifesti delle gare del TorX.

Ma per arrivare al Malatrà ci vuole una perseveranza davvero unica.

Sabato ero dunque lì, a vedere gli ultimi concorrenti del Tor che passavano. Il loro cancello era alle 10 all’alpeggio, quindi ho visto passare la coda della gara, assistita dalle scope.

In alcuni casi, in particolare gli ultimi due concorrenti, non capivi davvero come potessero continuare a spingersi avanti. C’era una donna, che poi ho saputo essere un’albergatrice di Gressoney, che faticava a stare dritta per un problema fisico e camminava tutta curvata di lato. C’erano due orientali che facevano dieci passi e si fermavano. Altri dieci e una nuova sosta. Ma che ho visto il pomeriggio tagliare il traguardo.

Nei loro casi, ma in quasi tutti direi, a portarti al Malatrà non è l’allenamento ma la perseveranza.
Puoi essere allenato, puoi essere motivato, ma senza quel pizzico di testa dura, qui non ci arrivi.

[Qui voglio fare una precisazione per rispetto ai tanti che al traguardo non sono arrivati: la perseveranza, la motivazione e l’allenamento non bastano, ci vuole anche un tocco di fortuna che ti faccia evitare infortuni o problemi fisici in gara, NdA]

A Courmayeur, nella via principale, si alternavano gli arrivi.
I pochi pettorali gialli del Tor, i pochissimi azzurri del Glas e i molti rossi del Passage au Malatrà.

La gente applaudiva con equale entusiasmo ognuno di essi.

Ma ogni tanto sentivi una maggior partecipazione, con incitamenti che partivano già molti metri prima.
E non credo che il motivo fosse il colore del pettorale, ma la storia che leggevi in quei volti.

E non a caso, i più applauditi erano i giganti.

Casa dolce casa

Ieri sera ho passato un paio d’ore in una delle sei basi vita del Tor des Géants.

Sono ubicate nei punti strategici delle Alte Vie dove i sentieri scendono a fondovalle, dove i trailers incontrano la persona che li assiste e ritrovano la mitica “borsa gialla” con i loro effetti personali, cambi, ciabatte e shampoo per la doccia, barrette di riserva e così via.

Sono operative da quando è previsto l’arrivo del primo concorrente a quando le scope partono per seguire la coda della gara.

Sono animate 24 ore al giorno: c’è chi cucina, chi porta ai concorrenti la loro borsa gialla, chi la riprende e la manda verso la base vita successiva un volta che il concorrente è ripartito, chi si occupa di registrare i passaggi, chi gestisce le emergenze, chi ha il compito ingrato di svegliare i concorrenti che, lasciati a loro stessi, dormirebbero 12 ore filate.

Sempre nelle basi vita ci sono i medici, i massaggiatori, gli infermieri che si prendono cura dei piccoli infortuni, delle fasciature, delle vesciche.

Una piccola città che prende vita per poche ore all’anno.
Una città poliglotta e sempre sorridente. Perché di questo hanno bisogno i concorrenti sorrisi, pacche sulle spalle, sentirsi a casa.

E’ bello vedere i volontari che cercano di interpretare cosa sta bofonchiando nel dormiveglia un francese che chiede dove sono i suoi amici, o che ridono per la battuta (sempre la stessa) che ogni concorrente dice entrando o uscendo, che incitano con maggior trasporto quelli che partono poco prima delle scope, perché sono loro quelli che hanno bisogno più degli altri.

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Alla base vita vivi i pochi momenti di relax al Tor des Géants – (credits Enrico Romanzi)

Ero lì, osservavo e ricordavo le volte in cui, invece che fare assistenza ero uno degli assistiti.

E pensavo a quell’immenso senso di gratitudine che mi riempiva il cuore, quando uno dei volontari si abbassava per raccogliere il bastoncino che mi era sfuggito di mano o che mi aiutava ad indossare le scarpe sui piedi ormai gonfi.

GRATITUDINE. Questa è l’essenza delle basi vita, questa è la valuta che circola in queste piccole cittadelle.

Ieri ho visto un ragazzo continuare a mormorare quasi tra se e se un grazie rivolto genericamente a tutti. Ho visto una donna commuoversi quando un volontario l’ha abbracciata.

Il Tor, come dico sempre, ti mette a nudo. Sei inerme di fronte a quello che stai facendo, puoi solo continuare ad andare e sperare di farcela.

In quei momenti di profonda umanità, scoprire che altre persone sono lì a partecipare seppur “dall’esterno” al tuo sforzo, ti rimette in pace con il genere umano.

Il ritiro

E la terza notte al Tor des Géants è passata.
In realtà è la quinta per quelli del Tor des Glaciers, ma loro sono una categoria a parte.

Il meteo che era stato un problema per i primi due giorni, finalmente volge al bello. E la cosa è importante, perché restano ancora da salire parecchi colli.

Osservando da Milano la tabella dei passaggi e il numero di ritiri che si sta normalizzando (al momento sono 216 sui 957 partenti), ho iniziato a riflettere su questo tema.

E’ ovvio dire che è più facile che si ritiri un campione rispetto ad un amatore.
Il campione è lì per vincere, tirerà dal primo minuto e, una volta che si renderà conto che non può più andare a podio o piazzarsi, verrà meno lo stimolo di correre.
Quindi il duplice fattore alto rischio infortunio/correre al limite + calo motivazione rende il ritiro quasi l’unica scelta.

Ma il ritiro per un amatore è tutta un’altra cosa.

In primo luogo, per lui il Tor è probabilmente la gara dell’anno.
Ci si è preparato a lungo, ha coccolato l’idea e quando è stato sorteggiato ha iniziato a vivere per il Tor.

In secondo luogo, per un amatore il vero obbiettivo è arrivare in fondo nelle 150 ore di tempo massimo: essere un finisher.
Quindi accetta di procedere lentamente, l’importante è continuare ad andare.

Ma credo che l’aspetto più interessante sia quello psicologico.

Alba su un colle al Tor des Géants (ph Stefano Jeantet - Archivio TdG)
Alba su un colle al Tor des Géants (ph Stefano Jeantet – Archivio TdG)

Il campione ha addosso molte aspettative.
Non deve deludere i fan e gli sponsor.
Da lui la gente si aspetta un risultato eclatante ma paradossalmente accetta un ritiro (“Ha dato tutto, è un grande anche se si è fermato” oppure “Ha veramente fatto di tutto per vincere, pensa che si è dovuto fermare”).

L’amatore, tolta la famiglia e gli amici della società di corsa, deve solo soddisfare se stesso.
Ma questo genera una fortissima barriera alla tentazione di mollare.
Il concetto di “magari sui gomiti, ma arrivo” che per un campione è difficilmente accettabile, per un amatore è una strategia.

Così, tra i 216 ritirati al Tor, in percentuale il numero dei campioni, delle wild card (gli invitati), è eccezionalmente più elevato di quello degli amatori.

Non sto facendo un monumento a noi “tapascioni”, a noi che non abbiamo velleità di podio.
Sto solo suggerendo a chi guarda solo la prima pagina della classifica, di volgere lo sguardo verso gli ultimi.
Tra di loro ci sono le storie più interessanti, le battaglie personali più dure, e – spesso – gli esempi da imitare.

Post Scriptum per i più curiosi aggiungo un po’ di notizie.
Al Tor des Glaciers c’è in testa Luca Papi, un italiano residente in Francia (lavora ad EuroDisneyland)
Al Tor des Géants c’è in testa Oliviero Bosatelli che arriverà a Courmayeur verso mezzogiorno di oggi, tra le donne la spagnola Silvia Garrote Trigueros (che ha vinto anche lo scorso anno)

Infine ieri sera alle 21 è partito il Tot Dret, la gara di 130 km che da Gressoney arriva a Courmayeur.

Cronache da un altro pianeta

Ieri è partito il Tor des Géants.

Come ogni seconda domenica di Settembre, un migliaio di trailer appassionati si danno appuntamento a Courmayeur per compiere il periplo della Valle d’Aosta lungo le due Alte Vie [per chi non lo sapesse sono 330km e 24.000 mt di dislivello positivo da percorrere, senza soste, in 150 ore di tempo massimo NdA]

Questa è la decima edizione (quindi il TorX) e viene festeggiato in modo epico, aggiungendo alle due gare classiche (Tor des Géants e Tot Dret) due nuove prove. Una, il Passage au Malatrà, è fatta apposta per i “vorrei ma non posso”, chi non ha nelle gambe la distanza ma vuole “assaggiare” il clima Tor. 30 km e 2300 mt D+, gli ultimi 30 del TdG, quelli caratterizzati dal mitico passaggio al col Malatrà, appunto.

Ma la seconda gara è quella davvero leggendaria, al limite del possibile. Si chiama Tor des Glacier (il Glas, per gli addetti), percorre le due Alte Vie dimenticate (la 3 e la 4), passa a filo ai ghiacciai, è lungo 450km e sale per 34.000 mt. E come se non bastasse, non è segnato e si fa in semi autonomia.

Venerdì sera ero a Courmayeur a veder partire questi 100 coraggiosi, scelti tra i finisher delle passate edizioni. Una partenza da brividi, non fosse altro perché il meteo era volto al brutto e la temperatura scesa di parecchi gradi. Loro si apprestavano a partire nella notte, con il cielo coperto da nubi e avvisaglie di neve sui colli alti.

Sono in gara, in questo momento, hanno passato tre notti all’addiaccio e stanno ancora viaggiando, sui confini della leggenda (nessuno l’ha mai fatto e non è ancora certo che il prossimo anno il Glas si farà di nuovo).

Ma torniamo al Tor des Génts.
Ieri mattina sono salito verso il ristoro all’alpe Youlaz, sotto il primo colle.

Salendo l’aria si è via via raffreddata e ad un paio di centiaia di metri sotto il ristoro, ha iniziato a nevicare.

Già, a nevicare. Non i fiocchi larghi e morbidi della neve invernale, quelli pungenti e duri, a metà tra grandine e neve. E pensavo al resto d’Italia, dove l’estate è agli sgoccioli. Mi sembrava quasi di essere su un altro pianeta.

Lisa Borzani al Col Arp
Lisa Borzani al col Arp – TdG 2019 (ph Giacomo Buzio – Archivio TdG)

Arrivato al ristoro ho osservato il vallone da cui sarebbe a breve scesi i concorrenti del Tor. Era imbiancato e magico. Certo una prova di accesso non banale per i concorrenti di questa edizione.

Arrivavano segnati in volto, con il cappello coperto di neve, le giacche svolazzanti nel vento, concentrati sulla loro gara. Mangiavano un boccone, dicevano due parole, salutavano gli amici e ripartivano.

Un’edizione davvero segnata da toni di straordinarietà, quasi epici.

Da ieri sera, ovviamente, passo regolarmente nel sito del Tor per verificare la situazione dei tanti amici in gara. E’ una droga di cui mi libererò solo sabato prossimo quando, anche per quest’anno, tutto sarà finito.

Ma sarà una settimana lunghissima…

Il senso di colpa

Foto tratta dall’Archivio Tor des Géants

Non tutti i salmi finiscono in gloria e non tutte le favole hanno un lieto fine.

Il mio Tor è finito il primo giorno. Esattamente dopo 18 ore, 55 km e 5mila metri di dislivello.
Sono passati quattro giorni e ho finalmente trovato la forza di sedermi alla tastiera per raccontare.

Sono arrivato alla prima base vita ampiamente nei cancelli orari, ho anche dormito un’ora per provare a recuperare un po’, ma quando sono ripartito ho capito che mi aspettava solo uno sforzo immane ed inutile.
Le gambe vuote non spingevano in salita, il cuore a mille mi obbligava a fermarmi ogni pochi passi, un senso di nausea mi tormentava dal giorno prima.

Ma soprattutto ero stato colpito dalla maledizione di chi ritorna al Tor: sapevo quello che mi aspettava e non riuscivo a staccare la testa da quell’eterno susseguirsi di salite e discese.

Così mi sono fermato.

Al momento è sembrata l’unica scelta possibile.
Ma dopo è subentrato il senso di colpa.

Se solo avessi resitito ancora un po’.
Se solo avessi tentato di salire un altro colle.

Il giorno dopo faticavo a camminare in salita.
I glutei doloranti e il passo strascicato erano un’evidenza empirica che avevo fatto bene a scegliere lo stop. Anzi che non avrei potuto fare altrimenti e se non lo avessi fatto io sarebbero stati loro a fermarmi.

Però per giorni mi sono tormentato.

La mia testa non riusciva ad accettare di aver rinunciato.
La stessa forza di volontà che mi aveva portato sulla linea di partenza nonostante fossi conscio che la preparazione era stata insufficiente, adesso si accaniva contro la mia coscienza, generando quel senso di colpa figlio non dell’aver fallito ma di essermi dimostrato debole. Non all’altezza.

Cercavo di non ascoltare le notizie sul Tor, e al tempo stesso ne ero attirato.
Ho esultato per la vittoria di Franco e ho ammirato la prova di Scilla.
Ho seguito (e sto seguendo) l’avanzare dei tanti amici che sono in gara.

E un po’ alla volta ho fatto pace con me stesso.
Almeno quel tanto che basta per tornare a scriverne qui.

Si volta pagina. Si guarda avanti.
Serbando nel cuore le bellissime immagini della prima sera al Deffeyes, o della fila di luci che sale al Crosatie.
Serbando nel cuore i ricordi delle persone incontrate, dei frammenti di storie in cui mi sono imbattuto, dei tanti bei sorrisi dei volontari che mi hanno coccolato, spronato, accudito.

La ferita nel cuore si sta rimarginando.
Per la cicatrice ci vorrà ancora un po’…

Effetto Tor

Fuori è notte.
Seduto sulla poltrona accanto alla grande finestra osservo il cielo stellato.

“Sono fortunato, il bollettino meteo promette bello per i prossimi giorni” penso “almeno i primi colli non li farò con l’acqua ed il freddo”

E’ l’Effetto Tor.

Tutto, ormai da qualche settimana, è catalizzato dall’appuntamento di domenica mattina.
Tutto viene interpretato e filtrato attraverso le lenti distorcenti di questa gara-evento.

La mente si inerpica in ipotesi e previsioni; il cuore si proietta verso i colli che ricordo come se ci fossi passato ieri.
Sono completamente preso.

Non so perché avvenga.
Probabilmente perché, via via che ci si avvicina, si tende a non riuscire più a vedere la sfida nella sua interezza. Un po’ come quando, per osservare un edificio molto alto, sei costetto a fare un passo indietro.

Eppure il Tor des Geànts lo conosco bene.
Conosco il suo fascino segreto, e credevo di esserne ormai immune.

Una notte al Tor des Geants: Col Champillon edizione 2014 (ph. Enrico Romanzi - Archivio TdG)
Una notte al Tor des Geants: Col Champillon edizione 2014 (ph. Enrico Romanzi – Archivio TdG)

Il Tor è il regno della semplificazione.

Devi solo partire e camminare.
Abbandonando dietro a te, insieme agli oggetti superflui, anche tutti i pensieri e le preoccupazioni.

Camminare.
Salire e scendere i colli.
Mangiare, bere.
Quando sei stanco riposare.
Ma poco, perché c’è il sentiero che ti chiama.

Cosa c’è di più semplice di questo.

A me, uomo di azienda, cui viene richiesto di essere multitasking, di assumere decisioni e responsabilità ogni minuto, di avere risposte lineari a problemi complessi e soluzioni sorprendenti per imprevisti dell’ultimo minuto.

A me, uomo di famiglia, cui viene richiesto di essere presente ed efficace, ma rispettoso dell’indipendenza altrui.

A me, uomo di città, abituato a piegare gli eventi naturali con un semplice tasto di un telecomando o con un interruttore.

A me, dio delle situazioni complesse, spaventa la sfida di questa semplicità estrema.

Domenica (ormai tra poche ore) si parte.
Sarà un viaggio dalla durata incerta (potrei non riuscire a passare il cancello della prima base vita) ma della cui intensità non ho dubbi.

Questo è l’ultimo post sul blog fino a quando sarò ritornato a casa.
Posterò qualche foto su Instagram o magari qualche Tweet.
Ma la prossima volta che racconterò qualcosa sarà già venata dal rimpianto dell’esperienza finita.

Questo è l’Effetto Tor.
Un’esperienza totalizzante che non ti lascia tregua.

E adesso è meglio che vada a dormire, perché nella prossima settimana potrò farlo per solo qualche ora.

Post Scriptum: Aggiungo qualche nota per chi non sapesse cosa sia il Tor des Geants (chi lo conosce può saltare).

Si tratta di un trail lungo 330km e con un dislivello positivo di 24mila metri.
Si svolge lungo le due Alte Vie della Valle d’Aosta, valica colli oltre i 3.000 metri di quota e ha un tempo massimo di 150 ore (sei giorni e sei ore).

Si corre senza soluzione di continuità.
I primi dormono pochissimo per vincere.
Gli ultimi dormono pochissimo per arrivare nel tempo massimo.
In tutto si dormono tra le 10 e le 15 ore in sei giorni e sei notti.

Porti con te uno zaino con tutto il fabbisogno per passare da una base vita all’altra.
Le basi vita (sei in tutto) sono delle stazioni poste a fondo valle dove i concorrenti trovano cibo, assistenza medica, docce, letti per dormire e soprattutto un borsone con dentro abiti di ricambio e oggetti personali.

Si corre con qualsiasi tempo (salvo non vi sia pericolo per i concorrenti). Pioggia, nebbia, freddo.
Chi arriva in fondo (di solito circa il 60% dei partenti) viene ricompensato con una giacca con scritto Finisher.
Il premio più ambito per ogni trailer.

Il coraggio di fallire

Definizione geometrica del segmento (vecchie reminescenze del liceo scientifico):
“una parte di retta delimitata da due punti, detti estremi”.

Definizione geometrica di un tracciato di gara:
“una parte di un percorso delimitata da due punti, detti partenza e traguardo”.

Si parla molto, anche a sproposito, della linea del traguardo.

In qualche modo è naturale che sia così: tutti puntano a quella linea fin dagli allenamenti.
Diventa un po’ l’obbiettivo comune, viene mitizzata, fatta oggetto di desideri.
Spesso è usata come metafora per una serie di accadimenti nella vita di ogni giorno: “Continua a studiare che il traguardo è vicino”“Non mollare adesso, l’ultimo chilometro prima del traguardo è il più difficile da fare e il più dolce da ricordare” e via con la retorica…

La partenza del Tor des Geants 2013 (ph archivio TdG)
La partenza del Tor des Geants 2013 (ph archivio TdG)

Ma la sorella gemella, la linea della partenza, invece, viene trascurata.

Sì certo, possiamo trovare alcune citazioni famose anche per quella.
“Il primo risultato è arrivare sulla linea di partenza” che vuole ricordarci come l’allenamento è parte integrante della gara.
Oppure “Ogni grande viaggio inizia con il primo passo” che anche se non cita espressamente quella linea, almeno su di essa si svolge.

Ma la linea della partenza è molto di più.

E’ la porta che spalancandosi ti lancia in una nuova avventura.
E’ l’origine da cui tutto comincia.
E’ il luogo di ritrovo per i dissennati ed i coraggiosi.

Io sono convinto che, almeno nelle gare lunghe, la vera differenza non stia tanto tra coloro che arrivano al traguardo e quelli che invece si fermano lungo la strada, ma tra coloro che osano mettersi sulla linea di partenza e quelli che restano a casa.

Massimo rispetto per la scelta di ognuno.

Ma provo una naturale simpatia per coloro che hanno fatto proprio il motto di Norman Vaughan che diceva “Dream Big and Dare To Fail” ossia “Sogna in grande, e osa fallire”.

E a tutti loro, specialmente a quelli che domenica saranno con me a Courmayeur sulla linea di partenza del Tor des Geànts, auguro buon viaggio…

Io corro da solo

Ho passato lo scorso weekend a seguire il live dell’UltraTrail du Mont Blanc (per chi non lo sapesse, l’UTMB è il più importante evento mondiale di trail running, 6 gare intorno al Monte Bianco con il meglio del meglio dei trailer di ogni nazionalità).

Da quest’anno c’erano telecamere che offrivano una diretta della testa della corsa (sia maschile che femminile).
Significa un team di persone che in mountain bike o a piedi seguono degli atleti top nelle varie sezioni del percorso (uno sforzo organizzativo pazzesco, considerato che le gare durano una settimana e coprono un percorso di 160 chilometri).

Sono capitato su quel link per caso e sono rimasto stregato.
Conosco quel percorso a memoria, riconoscevo i sentieri, i ristori, gli incroci con le strade asfaltate, i tratti insidiosi… ero lì con loro.
Poi mi ha affascinato la gara, ho seguito con trepidazione lo svolgersi delle competizioni, ho tifato e sofferto con gli italiani in gara (che spesso sono persone che conosco bene), ho gioito per la vittoria di Francesca Canepa anche se è coincisa con il quinto posto di una splendida Katia Fori. Ho cercato di spingere Marco De Gasperi, quarto al suo debutto sulle lunghissime distanze, e ho ammirato la determinazione di Stefano Ruzza che con il suo settimo posto è il miglior italiano di sempre all’UTMB (tolto il mitico Marco Olmo).

Insomma, una gran bella esperienza virtuale.

E mentre li osservavo soffrire in diretta, tallonati dalla telecamera, riflettevo su quanto impietosa sia questa pratica.
Quando corri un’ultra (ancor di più se lo fai al limite delle tue possibilità) ti metti a nudo,
Non c’è spazio per atteggiamenti o pose, tu sei quello che riesci a mettere in campo in quel momento.

La tua forza e le tue debolezze sono in piena vista.
La corsa è molto onesta in questo. E’ una sorta di radiografia dello spirito, di TAC del cuore.

Ultra Trail du Mont Blanc
Alcuni concorrenti percorrono il sentiero a mezza costa in faccia al Monte Bianco

Ho ammirato i grandi campioni che vedevo correre, per quello che erano e anche perché hanno accettato di mettersi in mostra in mondovisione.
Persino io dal divano di casa potevo spiare la fatica sui loro volti.
Soffrire con Katia che stringeva i denti mentre un fastidioso problema muscolare la rallentava e si vedeva raggiungere dalle altre concorrenti che fino a quel momento l’avevano inseguita.

Uno spettacolo bellissimo e crudele.
Ho ammirato quelle persone che non una volta hanno dimostrato fastidio per quell’intrusione nella loro anima.
Ho sorriso quando, dopo che il cameramen aveva detto “ti lascio, aspetto che arrivi il prossimo concorrente” Katia aveva sorriso e tirato un sospiro di sollievo.

Non è facile correre sotto l’occhio curioso degli altri.
Non è facile accettare di mettersi in gioco così.

E naturalmente ho pensato alla prossima settimana, quando in gara ci sarò io a combattere con i miei demoni lungo i 330 km del Tor des Geànts.

Io amo correre da solo.
Nel 2013 rallentavo all’uscita dei ristori per evitare di trovarmi con altri concorrenti o partivo prima degli altri per godere della splendida solitudine delle notti in quota.

L’anno successivo avevo corso in coppia con Daniela.
Era stato molto diverso anche se, come dico sempre, abbiamo fatto talmente tante gare ed allenamenti assieme che a volte passiamo ore senza parlare sapendo esattamente cosa pensa l’altro.

Però, in qualche modo, avevo rimpianto quei momenti solitari dell’edizione precedente.

Domenica sarò di nuovo al via con Daniela, ma questa volta sarà un sollievo.
So che andrò in crisi e so che accadrà prima di quanto io speri e più spesso di quanto vorrei.
Allora mi aiuterà il poter staccare il cervello e seguire il suo passo.
Poter contare sulla sua volontà nel momento della crisi.

E spero di poter fare lo stesso per lei.

Io corro da solo, ma in certe occasioni non c’è nulla di più prezioso che un’anima di scorta su cui contare…

Un dolce Tor-mento

Si riparte.
Ho passato un bel mese rilassante andando per monti, anche se un appuntamento incombente mi ha un po’ tolto la serenità del viaggiare per viaggiare.
Mi riferisco a domenica prossima quando sarò di nuovo alla partenza del Tor des Geànts.

Ne ho parlato così tanto (e tanto ne hanno parlato gli altri) che mi sembra perfino inutile spiegare di che cosa si tratti.
E’ un ultratrail ed è una gara.
Il percorso è spettacolare: concatena le due Alte Vie della Valle d’Aosta, si parte da Courmayeur e lì si ritorna dopo aver percorso 330 km e salito 24.000 metri di dislivello positivo. Il tutto nel tempo massimo di 150 ore (sei giorni e sei ore).
Si chiama Tor des Geànts, che in patois significa Giro dei Giganti, perché tocca alcune delle più belle cime d’Europa: il Monte Bianco, il Monte Rosa, il Cervino, il Gran Paradiso per citare solo quelli più noti.

E’ una gara speciale, che ho nel cuore.
Ma quest’anno, un po’ per incoscienza, un po’ perché ho saputo solo all’ultimo minuto che avrei partecipato, non l’ho preparata a sufficienza.

Quindi adesso sono qui, a sette giorni dal via, a preoccuparmi mentre leggo i cancelli orari, i dislivelli e – ahimé – i riscontri dei miei ultimi allenamenti. Troppo lento a salire. Troppo corte le uscite. Troppo poche le ore totali spese a vagar per monti.

Allo stesso tempo, però, mi ha preso un’incredibile euforia.
Leggere i nomi dei luoghi che conosco così bene (ho partecipato a tre Tor e percorso quei sentieri almeno il doppio delle volte) mi sta facendo rivivere tutte le emozioni di quelle partecipazioni.

Alla partenza del Tor des Geànts 2013
Alla partenza del Tor des Geànts 2013

Perché il Tor des Geànts è soprattutto questo: un flusso continuo di emozioni che sovrasta la fatica, il sonno, il dolore.
La testa mi dice che non sono pronto, il cuore mi dice che non vedo l’ora di schierarmi al via e che vada come vada.

Ho messo in conto di poter non superare il primo cancello alla base vita di Valgrisanche.
Ho detto che sarei felice di arrivare alla seconda base vita a Cogne.
Considererei una vittoria arrivare a Donnas, a metà giro.

Ma sono tutte supposizioni e calcoli.
La verità è che partirò cercando di tirare avanti per tutte le 150 ore della gara.
Il problema, per la prima volta, non sarà il sonno (che è il peggior nemico dei partecipanti) ma la fatica. O meglio la mia scarsa abitudine alla fatica di quest’anno.

La foto mi ritrae alla partenza dell’edizione 2013.
Quel giorno pioveva e le previsioni volgevano al peggio.
Eppure sorrido come un ebete. Come un innamorato.

Questo è il Tor, un tormento ed una passione.
O magari la via che, attraverso il tormento, conduce alla felicità.

Non penso altro che al Tor, in questi giorni.
Quindi preparatevi: tenderò ad essere monotematico per le prossime settimane!