Un amore sereno, fatto di silenziosi sorrisi, di carezze e di presenze. Un amore che non sia battaglia ma pace. Che non sia ricerca ma unione. Che non sia tensione ma calore.
Avrei diritto ad un po’ di amore.
Senza spiegazioni, senza domande. Un amore che scorra quieto e naturale, come un torrente di montagna che, senza apparente sforzo e senza deviazioni, scenda verso valle, verso il fiume grande, verso il mare.
Un amore senza stilettate, senza ansie, senza pensieri cupi che ti tengono sveglio alla notte.
Un amore semplice. Senza iperboli, senza complicazioni, senza tremori. Che non abbia bisogno di parole perché si racconta nei gesti e non trasforma il silenzio in arma, in ricatto, in veleno.
Sono vivo Nonostante tutto, sono vivo. E da questo devo ripartire
Verrà la neve a silenziare il dolore a portarmi il sonno che mi rinfranchi l’anima
Ho costruito un futuro pensando a noi Ma non l’hai condiviso
Io volevo una relazione stabile una persona con cui dividere la vita Tu volevi una storia una persona che ti scaldasse il cuore nei pochi momenti liberi della tua vita
L’amore rende ciechi Tu forse hai cercato di dirmelo io forse non ho mai voluto capire
Non ci sono colpe se un fiore non diventa frutto Tu ti godi il suo profumo A me manca il suo succo
Un giorno proverai cosa vuol dire essere soli. Così soli, da bramare un messaggio, una parola. Così soli, da temere di scordarsi di esser vivi. Così soli, con il libro ed il bicchiere a tenerti compagnia.
Tu oggi magari aneli ad una nuova solitudine, confondendo l’esser soli con l’idea di libertà. Ma domani scoprirai quanto possano mancare i silenzi di tuo figlio, o le ansie per un suo ritardo.
Ed allora capirai, ma sarà già troppo tardi per rispondere ai messaggi e colmare il mio esser solo. O invece scorderai, come ahimé spesso succede, le parole del mio cuore, attenta solo alla tua voce.
Così me ne resto qui, inaridito dalla vita. Come un tronco rinsecchito che si staglia contro il cielo a combattere col vento confondendo ancora e ancora la sua forza e la sua rabbia con un voto di compagnia.
Non basta esser forti e non mollare mai. Non basta essere un guerriero e lottare fino alla fine. Non basta essere consapevoli dei propri mezzi e dei propri obbiettivi.
La vita è una bastarda. E di colpo tutto quello per cui avevi lottato svanisce. Il tuo traguardo non c’è più. I tuoi sforzi sono stati e saranno vani.
Allora scopri che la sfida vera è un’altra. Raccogliere i pezzi e andare avanti. Continuare anche se non hai più un obbiettivo chiaro.
La sciocca formica è più forte dell’indomito samurai. Non c’è saggezza nel combattere fino alla morte. A volte è necessario lasciarsi andare.
Seguire il flusso della corrente, godere degli incontri fugaci, sfuggire ai rimpianti.
Dentro di me le parole s’intrecciano, si scontrano, si fanno verso, frase, grido. Ma non trovano un pertugio per uscire, per far diminuire questa pressione interna, per restituirmi serenità.
Conosco la medicina, e nel week end sarò a faticar per monti, a cercare un nuovo equilibrio.
Ma mi sento in debito verso queste pagine bianche, verso gli occhi assetati, verso un impegno che sento preso. Allora faccio ciò che mi vien meglio, rubacchio… ripropongo.
Il testo che segue è di un poeta russo, Sergej Aleksandrovic Esenin, e si chiama Confessioni di un teppista. Una versione riadattata in musica è stata resa celebre da Angelo Branduardi e la trovate (cantata da lui) in fondo al mio post.
Ma leggete prima i versi originali. Lentamente. Come se voleste seguire il ritmo di un passo cadenzato su una strada polverosa.
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Confessione di un teppista
E non tutti possono cadere come una mela sui piedi degli altri. Questa è la più grande confessione, che mai teppista possa rivelarvi.
Io porto a bella posta la testa spettinata, lume a petrolio sopra le mie spalle. Mi piace illuminare nelle tenebre l’autunno spoglio delle vostre anime.
E mi piace quando una sassaiola di insulti mi vola contro, come grandine di rutilante bufera, solo allora stringo più forte tra le mani la bolla tremula dei miei capelli.
È così dolce allora ricordare lo stagno erboso e il suono rauco dell’ontano, che da qualche parte vivono per me padre e madre, che se ne fregano di tutti i miei versi, e che a loro sono caro come il campo e la carne, come la pioggia fina che rende morbido il grano verde a primavera. Con le loro forche verrebbero a infilzarvi per ogni vostro grido scagliato contro di me. Miei poveri, poveri contadini! Voi, di sicuro, siete diventati brutti, e temete ancora Dio e le viscere delle paludi. O, almeno se poteste comprendere, che vostro figlio in Russia è il più grande tra i poeti! Non vi si raggelava il cuore per lui, quando le gambe nude immergeva nelle pozzanghere autunnali? Ora egli porta il cilindro e calza scarpe di vernice. Ma vive in lui ancora la bramosia del monello di campagna. Ad ogni mucca sull’insegna di macelleria da lontano fa un inchino. E incontrando i cocchieri in piazza, ricorda l’odore del letame dei campi nativi, ed è pronto a reggere la coda d’ogni cavallo, come fosse uno strascico nuziale.
Amo la terra natia! Amo molto la terra dei miei padri! Anche con la sua tristezza di salice rugginoso. Adoro i grugni infangati dei maiali e nel silenzio della notte, la voce limpida dei rospi. Sono teneramente malato di ricordi infantili, sogno delle sere d’aprile la nebbia e l’umido. Come per scaldarsi alle fiamme del tramonto s’è accoccolato il nostro acero. Ah, salendo sui suoi rami quante uova, dai nidi ho rubato alle cornacchie! È lo stesso d’un tempo, con la verde cima? È sempre forte la sua corteccia come prima? E tu, mio amato, mio fedele cane pezzato?! La vecchiaia ti ha reso rauco e cieco vai per il cortile trascinando la coda penzolante, e non senti più a fiuto dove sono portone e stalla. O come mi è cara quella birichinata, quando si rubava una crosta di pane alla mamma, e a turno la mordevamo senza disgusto alcuno.
Io sono sempre lo stesso. Con lo stesso cuore. Simili a fiordalisi nella segale fioriscono gli occhi nel viso. Srotolando stuoie d’oro di versi, vorrei dirvi qualcosa di tenero. Buona notte! A voi tutti buona notte! Più non tintinna nell’erba la falce dell’aurora… Oggi avrei una gran voglia di pisciare dalla mia finestra sulla luna. Una luce blu, una luce così blu! In così tanto blu anche morire non dispiace.
Non m’importa, se ho l’aria d’un cinico che si è appeso una lanterna al sedere! Mio buon vecchio e sfinito Pegaso, M’occorre davvero il tuo trotto morbido? Io sono venuto come un maestro severo, a cantare e celebrare i topi. Come un agosto, la mia testa, versa vino di capelli in tempesta.
Voglio essere una gialla velatura verso il paese per cui navighiamo.