La serenità è un lavoro

Non so bene come sia iniziato, ma oggi si pensa che la felicità sia connessa alla gratuità, all’assenza di sforzi per ottenerla.
In qualche modo ci si aspetta un dono (o un premio i più immodesti) che arrivi dall’alto.

“Se vincessi la lotteria, farei questo o quello…”
“Anch’io ho diritto ad un po’ di serenità dopo tutto quello che mi è capitato…”

Non funziona così.
Per essere felici bisogna impegnarsi.

Anzi, ancora meglio, per ottenere qualsiasi cosa, felicità, salute, amore, bisogna lavorare sodo.

Invece noi pensiamo che tutto dipenda dal talento (nel caso volessimo diventare un atleta di successo o una rockstar) o dalla fortuna (per quanto riguarda lavoro, salute, amore). E quando ci capita qualcosa di brutto incolpiamo o la sfortuna o qualcun’altro… mai noi che di solito siamo i primi colpevoli.

fiore di zucchina
Un fiore di zucchina , che con il tempo si trasformerà in ortaggio (ph Franz Rossi)

Nell’ultimo anno ho coltivato il mio orto.

Oltre a zucchine e pomodori, da quel pezzo di terra ho raccolto anche un prezioso insegnamento: l’importanza dello sforzo continuato nel tempo.

Non basta impegnarsi tantissimo per una sola settimana; devi curarlo quotidianamente, togliere le erbacce, difenderlo dalle lumache, bagnarlo con costanza.

E non importa quanta fretta tu abbia, in ogni caso devi aspettare la stagione giusta per piantare e il tempo giusto per raccogliere.

Sono insegnamenti fondamentali anche per la vita.

Franz sopra il rifugio Semenza

Io sono uno che vuole tutto e subito. E sono pronto a fare uno sforzo grandissimo per raggiungere il mio obbiettivo. Ma è inutile se non lascio che le situazioni evolvano.

Ho sempre pensato che la felicità sia un attimo, una fiammata, ma che quello a cui dobbiamo aspirare sia la serenità.

Da qualche anno ho scelto di lavorare ogni giorno per quel risutato.

A volta bisogna fare scelte che ne escludono altre.
A volte la tua serenità dipende da qualcun altro e non puoi che sperare che scelga di accompagnarti per un pezzo di strada.
A volte la vita ti sgambetta e ti mette di fronte ad ostacoli che non puoi superare.

Ma bisogna accettare quello che non si può cambiare ed impegnarsi e faticare per raggiungere i nostri obbiettivi.

Alla fine è solo una questione di scegliere bene cosa vogliamo ottenere tra le cose che possiamo ottenere.

E non pensate che chi scrive abbia trovato la via.
Anzi…
Il pensiero di oggi è un memo che mi serve a rimettermi in carreggiata.

Allenamento funzionale

Per allenamento funzionale (o ginnastica funzionale) si intende una attività motoria eseguibile in palestra o all’esterno finalizzata a migliorare il movimento dell’uomo e l’esplicazione delle funzioni motorie quotidiane. L’approccio a questo genere di esercizi è variegato, a seconda del livello o dell’intensità voluta. A tal proposito vengono utilizzati spesso piccoli attrezzi come funi, sacchi, gomme di camion, tutto ciò che può essere utile per muovere il corpo nelle tre direzioni: laterale, frontale e trasverso…. Fonte: Wikipedia

Sabato ho sarchiato un terreno e vi ho piantato dell’erba.
5 kg di semi e 160 litri di terra (che doveva servire per tutto ma è bastata per circa metà della superficie).
Volevo finire in giornata perché le previsioni davano pioggia e mi sarei evitato l’irrigazione.
Non so quanti metri quadri fossero (circa 300), ma alla sera avevo le mani doloranti e la schiena di legno.

cielo nuvoloso
Il Monte Bianco si nasconde tra le nubi all’orizzonte (ph Franz Rossi)

Domenica mattina, invece, ho approfittato che il cielo presentasse degli sprazzi azzurri e le nuvole stessero ancora dormendo sul fondo della valle per uscire e salire il più rapidamente possibile alla Tete de Comagne (circa 1200 mt di dislivello da casa) per poi affacciarmi sulla valle che si nasconde lì dietro (la val d’Ayas) prima di tornare di corsa a casa.

Mentre facevo la doccia confrontavo i due tipi di fatica.

Enrambi avevano uno scopo preciso: il primo godermi il prato davanti a casa d’estate, il secondo tornare ad un livello di forma non vergognoso per gli appuntamenti in montagna a settembre.

Il primo ha la dignità della tradizione, il secondo il fascino del viaggiare.

Ma in entrambi i casi non sono propedeutici (funzionali) ad altri lavori.

Nel nostro mondo si va in palestra per bruciare le troppe calorie che abbiamo a disposizione, si stimola il corpo per sostituire il consumo legato a quelle attività che facciamo fare ai robot (non sorridete, pensate all’ultima volta che siete salita a piedi evitando l’ascensore o avete lasciato l’automobile a casa: siamo tutti vittime delle macchine).

Siamo diventati cervelli ambulanti.
Il nostro corpo è a rischio estinzione. Lo mettiamo in riserve e lo proteggiamo (le palestre) esattamente come facciamo con gli animali selvatici.

L’allenamento funzionale potrebbe essere una risposta.
Ma dev’essere una preparazione all’attività vera, non essere fine a se stesso.

Sarebbe bello poter fare un passo indietro e restituire la dignità al lavoro fisico, forse ci vaccinerebbe dal predominio dei cervelli.

Il sapore della fatica

Ieri sono tornato a correre.
Intendiamoci, non ho mai smesso veramente, due o tre volte alla settimana uscivo, da solo o con gli amici, per una decina di chilometri, magari anche tirati.

Ma ieri sono tornato ad assaporare il sapore metallico della fatica.

La temperatura era di un paio di gradi sotto lo zero, per cui mi ero coperto bene: pantaloni e maglia pesante, guanti e buff. Ho incrociato Max e Nik e siamo partiti.
Fin da subito le gambe giravano. Ci siano bevuti la prima salitina, ogni rettifilo era l’occasione per allungare la falcata, e ad ogni  attraversamento acceleravamo per prendere il semaforo verde. Così arrivati al parco di Trenno, che con il suo giro da 4 km rappresenta la parte centrale del percorso, praticamente si volava.

L’aria fredda che respiravo mi ghiacciava i polmoni. Mi obbligavo ad inspirare attraverso il naso per scaldarla un po’ prima che raggiungesse gli alveoli.

runner in inverno

Ma era così bello. Così rigenerante.

Passando davanti a San Siro le gambe erano ormai appesantite dall’acido lattico.
Era un ritmo a cui non ero più abituato, ma non volevo mollare gli amici.
Così ho provato ad ignorare tutto, ad allungare ancora, e sul viale intorno al trotter (non so perché ma vado sempre più veloce in quel tratto) ho tenuto botta.
Quando hanno  proposto di aggiungere il “giro dei palazzoni” un po’ per superare quota 10 chilometri mi sono lasciato convincere.

E la sera a casa, seduto al tavolo della cucina, mettevo giù queste due righe per celebrare il piacere sottile delle gambe indolenzite, della tossetta secca che caratterizza il non poter riempire i polmoni fino in fondo, lo stomaco chiuso dalla fatica.

Nelle giornate come ieri capisci che correre è lo sforzo di stare il più possibile staccato da terra. L’attività fisica che, per noi esseri umani, è più vicina al volare.

E, dopo, lo spirito è più leggero.

All’inferno e ritorno

Correndo mi vengono le idee per il blog.
Venerdì sera avevo in tabella un 10 km lento.
Faceva caldo, ma i nuvoloni all’orizzonte e un leggero vento annunciavano pioggia.

Parto a ritmo tranquillo.
Ho imparato che se non mi riscaldo lentissimamente poi pago.
Decido per il percorso intorno al cimitero: vicino a casa, non troppo trafficato, un anello da 3420 metri (ah, la precisione di noi runner) da ripetere a piacere…

Dopo 10 minuti sono sudatissimo, tanto che appena giro un angolo e trovo il vento in faccia ho persino un brivido per la canotta gelata sullo stomaco.

Faccio fatica.
Una fatica ingiustificata per il ritmo che sto tenendo (più vicino ai 6’/km che ai 5’/km).
Mi viene voglia di mollare tutto e tornare a casa.
Ma sono nel punto più lontano dell’anello, tanto vale proseguire…

Inizia a piovere.
E io mi sblocco.
Le gambe girano bene.
Il respiro non è affaticato.

Guardo il gps e viaggio a 5’35” senza fatica.
Non saranno velocità da sogno, ma per il mio lento va più che bene.
Svolto l’angolo e affronto un altro giro.

La sensazione di benessere cresce.
Il gps ora indica 5’20″/km e continuo a non far fatica.
Mi obbligo, prudentemente, a rallentare di una decina di secondi al chilometro.

Ed intanto penso a quanto poco ci voglia per passare dall’Inferno al Paradiso.
Di come siano vicini i momenti in cui pensi solo a mollare e quelli che ti fanno sentire un semidio della corsa.

Basta davvero poco.
Tenere 500 mt in più.
Non mollare di testa, anche quando le gambe ti hanno mollato.

Il viaggio all’Inferno e ritorno è una costante negli allenamenti.
E a ben pensarci è anche quello che sto facendo per questo progetto #26W26M.
In ventisei settimane, devo passare dal punto più basso della mia storia podistica a correre la maratona.

Venerdì ce l’ho fatta.
Ma il viaggio è ancora lungo, entro oggi nella settimana numero 12, non sono ancora a metà preparazione.
Speriamo bene per le prossime tappe.