Il sapore della fatica

Ieri sono tornato a correre.
Intendiamoci, non ho mai smesso veramente, due o tre volte alla settimana uscivo, da solo o con gli amici, per una decina di chilometri, magari anche tirati.

Ma ieri sono tornato ad assaporare il sapore metallico della fatica.

La temperatura era di un paio di gradi sotto lo zero, per cui mi ero coperto bene: pantaloni e maglia pesante, guanti e buff. Ho incrociato Max e Nik e siamo partiti.
Fin da subito le gambe giravano. Ci siano bevuti la prima salitina, ogni rettifilo era l’occasione per allungare la falcata, e ad ogni  attraversamento acceleravamo per prendere il semaforo verde. Così arrivati al parco di Trenno, che con il suo giro da 4 km rappresenta la parte centrale del percorso, praticamente si volava.

L’aria fredda che respiravo mi ghiacciava i polmoni. Mi obbligavo ad inspirare attraverso il naso per scaldarla un po’ prima che raggiungesse gli alveoli.

runner in inverno

Ma era così bello. Così rigenerante.

Passando davanti a San Siro le gambe erano ormai appesantite dall’acido lattico.
Era un ritmo a cui non ero più abituato, ma non volevo mollare gli amici.
Così ho provato ad ignorare tutto, ad allungare ancora, e sul viale intorno al trotter (non so perché ma vado sempre più veloce in quel tratto) ho tenuto botta.
Quando hanno  proposto di aggiungere il “giro dei palazzoni” un po’ per superare quota 10 chilometri mi sono lasciato convincere.

E la sera a casa, seduto al tavolo della cucina, mettevo giù queste due righe per celebrare il piacere sottile delle gambe indolenzite, della tossetta secca che caratterizza il non poter riempire i polmoni fino in fondo, lo stomaco chiuso dalla fatica.

Nelle giornate come ieri capisci che correre è lo sforzo di stare il più possibile staccato da terra. L’attività fisica che, per noi esseri umani, è più vicina al volare.

E, dopo, lo spirito è più leggero.

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